Federico Sardella: Il titolo dei tuoi più recenti lavori è “Ventilati”. A tal proposito scrivi: “Rivedo nel ricordo infantile un bucato steso, irrigidito dal gelo in forme ghiacciate sghembe. Avverto il disturbo dell’ortogonalità contraddetta, anzi smentita nell’allineamento degli elementi scomposti, forse appena mossi da un colpo di vento rigido”.
Grazia Varisco: Sì, ho voluto provare a “mettere in forma” una nuova esperienza. Sembra un’operazione molto semplice, invece risolverla è stato più complicato del previsto. Un rompicapo, un togli e aggiungi per ottenere l’inclinazione voluta, ancora una volta per precisare un allineamento che arriva dalle precedenti esperienze dei “Quadri comunicanti”.
FS: Un po’ tutti i tuoi lavori prevedono questo tipo di approccio, come se tu scegliessi di complicare una situazione apparentemente semplice. La piega è in sé un’operazione semplice, che diventa un ostacolo nel momento in cui la devi riprodurre, svolgere o simulare…
GV: Qui, in questo lavoro, torno alla piega, ma in questo caso la piega è simulata, è solo suggerita in una rigidità assoluta (formalmente lontanissima dall’indagine di Deleuze che accosta la piega al concetto di Barocco). O mi sorprendo barocca, forse compiaciuta?!
FS: Il termine Barocco, in origine, era usato per descrivere le perle irregolari, dalla rotondità imperfetta, portatrici di errore. Quale è il tuo rapporto con l’errore, con lo scarto?
GV: Qui mi ritrovo a mio agio: l’imperfezione, lo scarto, l’errore e le sue conseguenze, l’errore come fenomeno (proprio che viene fuori), che dipende anche dal caso, come elemento che diverge dalla norma… già dalla prima metà degli anni Settanta, per esempio nelle “Extrapagine”, mi sono occupata di questi argomenti. Nel mio lavoro, il rigore di base viene alterato, o smentito, o messo in dubbio. Il risultato si sottrae alla leggibilità scontata di una geometria che spera di essere ventilata da un soffio di poesia.
FS: Se di fonte di ispirazione vogliamo parlare, a questo punto possiamo dire che per te la quotidianità è un’inesauribile riserva di suggestioni. Sarebbe interessante capire in che modo il tuo sguardo accarezza la quotidianità e in che modo si sposta su essa, per reinterpretarla, svelarla, raccontarla.
GV: Il titolo “Lo sguardo inquieto”, che ho scelto per la mia recente mostra al Museo Ritter a Waldenbuch, in Germania, si riferisce alla presa di coscienza della costante stimolazione percettiva che avverto nel fare quotidiano. Come dici, sono proprio suggestioni che appaiono, non sei certo di acchiapparle, non è scontato il trattenerle. A volte mi accorgo che devono depositarsi, sedimentare, solidificarsi in un concentrato di pensiero / immagine… a volte per un lungo tempo, fino a che diventa irrinunciabile la prova, che magari parte proprio da quei “quattro panni stesi ghiacciati”…di settanta anni fa.
FS: Come erano, dunque, quei panni stesi che hanno dato vita ai “Ventilati”, esposti negli spazi di A arte Studio Invernizzi, a Milano, fino al 5 novembre?
GV: Eravamo “sfollati” durante la guerra. Mia madre o una delle donne di casa, mentre scende dal solaio, sulla scala di legno, regge o meglio ci mostra una maglia che era stata stesa, ormai irrigidita dal gelo. Ci dissero di non toccarla, altrimenti si sarebbe rotta. La sorpresa di questa strana forma sghemba, provvisoriamente rigida, si è come inamidata nella mia memoria.
FS: Per assurdo, un’immagine di tanti anni fa abita i tuoi lavori più recenti, come se solo oggi, con estrema libertà, tu fossi riuscita a darle forma. Questa poetica del quotidiano, oggi apertamente dichiarata, inizialmente, anche nelle letture critiche sul tuo fare, non è stata particolarmente approfondita, per un tuo pudore forse, o per offrire un’interpretazione più elevata…
GV: Non so, forse una forma di reticenza a esporsi con l’avanzare dell’età cede, si allenta, trova il modo di giustificarsi e di indulgere a qualcosa di intimo, che ci aiuta a comunicare, a trasmettere meglio. Gli esempi che adotto sono: il cassetto che si incastra e si apre/ chiude con difficoltà, la tazzina inclinata sopra l’altra che per via del manico sotto lo scorrere dell’acqua si riempie e travasa da una parte…
FS: Non sono gli accadimenti in sé a essere rilevanti, ma il modo in cui tu li osservi e li vivi, partecipi al loro svolgimento… Cercare l’anomalia, ciò che è storto o sghembo, dipende da un tuo bisogno di esattezza?
GV: Mi sorprende e mi incuriosisce tutto quello che è anomalo. Provo piacere nel constatare che l’anomalia esiste. Che il caso è nel programma e che può essere avvertito come tale, come un’eventualità nella prassi. L’anomalia non mi disturba, anzi lavoro sul disturbo che crea e sul senso di attesa che suscita in me. Nell’attesa, nel durante, è implicito il rapporto spazio/tempo, che è oggetto della mia ricerca già in atto dalle premesse del Gruppo T. Osservare ciò che accade, il divenire verificato dall’interazione dei sensi, il controllare la partecipazione del corpo agli eventi percettivi. Dalle “Tavole magnetiche” agli “Schemi luminosi variabili” agli “Spazi potenziali”, dalle “Extrapagine” agli “Gnomoni”, fino ai più recenti “Quadri comunicanti” e “Risonanza al tocco”, esamino e invito a un controllo delle esperienze che metto in gioco, sulla regolarità, l’anomalia e l’ambiguità. Il processo, così pensato, tende a risolversi in un’operazione attiva e stimolante.
FS: L’intervento del quale parli è anche quello del pubblico, invitato a partecipare direttamente per completare l’opera. Nelle prime esposizioni con il Gruppo T l’invito esplicito a toccare le opere, a modificarle, a spostare gli elementi che le componevano, era addirittura evidenziato dalla dicitura: “si prega di toccare”…
GV: In tutte le esperienze appena nominate è ribadito l’invito alla partecipazione attiva: scorro, sposto, sfoglio, apro e sollecito il tatto anche solo con un tocco.
FS: Chiacchierando del passato e del presente, non posso non pensare a come inizialmente, dalla fine degli anni Cinquanta e per tutti i Sessanta, forse la mancanza di esperienza delle cose della vita ti abbia portato a indagarle con piglio analitico, da ricercatore. Anche i titoli delle opere di allora risentono di questa sorta di schematicismo…
GV: Ne ho accennato prima, parlando del riserbo che con l’età si ammorbidisce, si smussa. I titoli delle opere ne sono una conseguenza: i lavori vecchi, ora considerati storici, hanno titoli molto schematici e tecnici. In seguito e ora più che mai, con disinvoltura, mi concedo il piacere di titoli più evocativi, che tendono a completare l’opera e il pensiero che ha guidato la prova nella sua realizzazione.
FS: I tuoi lavori e le tue sculture hanno spesso a che fare con il vuoto, con l’assenza, la mancanza…
GV: Le mie sculture, che stento a definire tali, per me sono trappole mentali; non vorrei che fossero ingombri nello spazio ma presenze sottratte alla corporeità, che al contrario tendono a ospitare lo spazio fisico e mentale.