A volte è più difficile guardare cosa avviene vicino alla porta di casa, osservare e scoprire ciò che non è stato ancora riconosciuto e condiviso ufficialmente. È una scommessa che il ciclo “Greater Torino”, organizzato dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, fa provando a vedere cosa succede a Torino, invitando giovani artisti a esporre una selezione di opere che raccontino il loro percorso e la loro idea di arte.
Per il secondo appuntamento, curato da Maria Teresa Roberto e Irene Calderoni, sono protagonisti Ludovica Carbotta (che ha appena vinto il Premio Ariane de Rothschild 2011) e Manuele Cerutti. Ambedue ex allievi dell’Accademia di Belle Arti di Torino, la prima classe 1982 il secondo 1976, condividono l’esperienza di un gruppo di artisti chiamato “Diogene”, che da qualche anno ha creato un progetto ambientato nel cuore della città. Un tram in disuso, dipinto d’argento e parcheggiato in una piazza, è diventato una postazione di arrivo e transito per una serie di artisti da tutto il mondo, che nei loro soggiorni dialogano con luoghi e persone della città. Questo approccio di riflessione analitica sulle dinamiche relazionali del singolo con il resto dell’umanità e lo spazio architettonico, sia esso privato o urbano, unisce i loro lavoriCerutti è un pittore che si colloca nel solco della tradizione della storia dell’arte. Espone un gruppo di opere che ruotano attorno al soggetto della pietra, con un segno meticoloso, frutto di velature, ma che aspira all’astrazione, lasciando galleggiare le figure in spazi indefiniti, non terminandone alcune porzioni. Con una tavolozza ridotta, le pietre sono totem simbolici e concettuali di “una pittura che riflette su se stessa, portando avanti parallelamente il linguaggio e la narrazione, a intermittenza” dice l’artista. Ha sviluppato un immaginario intimista e speculativo, che lascia aperte le risposte e libera l’immagine da un unico significante imposto. Succede anche nelle scene in cui alcuni individui appaiono impegnati in azioni irrisolte e oscure, che richiedono allo spettatore un’integrazione partecipativa e dove si vive un’inquieta incertezza. Carbotta, invece, indaga la relazione prima fisica e poi mentale dell’io nei confronti del mondo esterno. Gioca sulle percezioni. In ogni lavoro narra le sue esperienze nella dimensione metropolitana e le ripensa, con traiettorie esistenziali fatte di passeggiate, avvicinamenti, ribaltamenti. In un video, un piano sequenza di un’ora in soggettiva, cammina per le vie, cercando di non proiettare l’ombra di sé, al riparo di quella di altri corpi urbani. Una lunga sagoma in cartone riprende il profilo della superficie di una strada, un ritratto minimale fatto addosso alla pelle della città, che ne esplora pieghe e pori come fosse un corpo vivente. La traccia di una sua impronta, un piede che non c’è più, diventa poi la base per una colonna, dello stesso peso corporeo dell’artista. Sono segni di appartenenza a un luogo, in cui si è cittadini e stranieri contemporaneamente, a causa della labilità dell’esperienza sensibile, influenzata da troppe varianti.