Thomas Houseago: Cominciamo col dire che abbiamo lavorato a due “doppie personali”, la prima al Ballroom Marfa in Texas (29 maggio-13 dicembre 2009) e la seconda al Veneklasen Werner di Berlino (9 ottobre-19 dicembre 2009). Cosa pensi di questa esperienza e che idea ti sei fatto della collaborazione?
Aaron Curry: È stato interessante il modo in cui a Marfa abbiamo dovuto ricreare uno studio all’interno della mostra, lasciando qui a Los Angeles il comfort dei nostri ambienti.
TH: E inoltre siamo stati costretti a lavorare nelle stesse stanze.
AC: Ho sempre pensato al mio studio come a un luogo sacro, per questo motivo adoro lavorare in casa e il Texas era un po’ come ritornarvi perché sono nato lì.
TH: Sì, ma tu sei di San Antonio e noi eravamo molto distanti, a ovest, in pieno deserto.
AC: Hai ragione, ma per noi andava più che bene così poiché eravamo lontano dalle nostre abitudini e ci abbiamo messo un bel po’ a consolidarle a Los Angeles.
TH: Penso che questa situazione ci abbia costretti a essere molto onesti fra di noi, perché ci osservavamo costantemente o al contrario ci ignoravamo, o qualsiasi altra cosa fosse. In certi momenti sembrava quasi una sorta di terapia primitiva e a volte era molto dura; credo infatti che avremmo potuto imboccare un sentiero veramente oscuro o, viceversa, poteva essere un trionfo. Sai, una giorno John Lennon disse che da qualsiasi cosa avrebbe potuto ricavarne o farne un’opera d’arte. Abbiamo cercato di fare la stessa cosa in una situazione potenzialmente avversa, dove non eravamo in grado di procuraci nemmeno una sega o della pittura spray, e così siamo stati costretti a scavare molto in profondità.
AC: Dato che eravamo in un luogo dove nel raggio di 80 chilometri non trovavi nemmeno la lama di una sega, direi che tutto sommato è stato interessante. Pensa a John Lennon o a Paul McCartney seduti nelle loro stanze da letto a improvvisare con le loro chitarre, e a un certo punto si chiedono: “Ho questa nota o questo ritornello, cosa ne pensi? Vuoi aggiungere qualcosa?”. Ho la sensazione che a noi sia successa la stessa cosa a Los Angeles, ma in Texas tutto ciò si è trasformato in modo interessante.
TH: Senza la distanza si crea un vuoto formale.
AC: A Marfa dovevamo lavorare l’uno sull’altro ma senza creare nulla insieme; è stato proprio strano.
TH: Sì, è vero. Penso che la gente ci veda come una coppia che lavora in team; ma non credo che in realtà abbiamo mai fatto qualcosa insieme: forse a causa delle nostre origini, noi non abbiamo il complesso di dover condividere le idee e non avverto il bisogno di trasformare il nostro lavoro in un’unica cosa perché proveniamo dallo stesso senso di vuoto. E il mondo dell’arte probabilmente si stanca di questo tipo di atteggiamento.
AC: Ma tutto ciò cosa ti suggerisce a proposito del presente?
TH: Be’, credo che ogni cosa si sia trasformata in un modello commerciale. Sono molto orgoglioso di Marfa e mi fa piacere che poche persone siano andate a vederla.
AC: Probabilmente Marfa è stata la seduta di registrazione e Berlino l’album.
TH: A ben guardare al di sotto della superficie, Berlino ha rappresentato un’esperienza strana anche se, quando entravi per visitare la mostra, ti accorgevi che era molto elegante. Ciò che penso si può definire abbastanza divertente e, specialmente per quanto riguarda Marfa, questo nostro desiderio ostinato di realizzare una mostra di sculture si è rivelato insano. Ed è stato immediatamente chiaro, nel giro di ventiquattro ore, che fosse impossibile, ma abbiamo deciso di farlo lo stesso.
AC: E lo facciamo ancora. Forse l’alcool aiuta a prendere queste decisioni.
TH: E arrivo così alla domanda: perché ci ficchiamo in situazioni tanto difficili? La scultura è un processo molto complesso e doloroso. Ma poi che cos’è questa scultura?
AC: È interessante perché io provengo dalla pittura; vivevo a Chicago negli anni Novanta, dipingevo in una piccola stanza e lavoravo di giorno. Tornavo a casa alle sei di sera e dipingevo fino alle quattro del mattino. A un certo punto ho cominciato ad aggiungere delle cose alla superficie e, prima che me ne accorgessi, mi sono ritrovato a creare oggetti. Era un procedimento biologico, ma se mi guardo indietro ha un senso, perché questi oggetti hanno sempre esercitato un certo fascino su di me, sia che fossero chitarre sia cose che mi circondano da sempre, come gli skateboard o gli album.
TH: Ti vorrei far notare che ancora oggi collezioni questi oggetti, desideri averli nella tua vita.
AC: Ho sempre collezionato riviste o pupazzetti che raffigurano i personaggi famosi, cose che si potessero toccare e sentire, dunque realizzare collage o sculture per me è stato del tutto naturale. Detto questo, non sapevo cosa stessi facendo finché non sono arrivato a Los Angeles e ho cominciato a lavorare con artisti come Richard Hawkins e Liz Larner, che in un certo senso mi hanno insegnato che la scultura è in grado di “performare” da sola. All’inizio realizzavo oggetti che inserivo nel muro ed emettevano suoni: prendevo chitarre e amplificatori e creavo suoni bizzarri perché pensavo che questi oggetti avessero bisogno di essere messi in moto. Mi ricordo di essere andato al Norton Simon Museum, dove ho visto un lavoro incredibile di Barbara Hepworths, una rivisitazione della Standing Figure: Knife Edge di Henry Moore (1961), e ho capito che quando si cammina intorno a un’opera del genere, essa si anima. È come premere il tasto play di un registratore o qualcosa del genere. Ho pensato quanto tutto ciò fosse fantastico: una scultura può essere collocata in un parco, qualcuno le va incontro e lei vive; in una parola interagisci con lei. Avviene qualcosa che è difficile da esprimere a parole, è meraviglioso, è letteralmente un’esperienza.
TH: Per quanto mi riguarda, quando sono andato al Central Saint Martins agli inizi degli anni Novanta, non pensavo che la scultura fosse parte della tradizione, non c’erano corsi specifici. Io guardavo il mondo in maniera molto caotica, della serie Armageddon, e sentivo sul serio il bisogno di esprimermi nel movimento. La scultura allora rappresentava un atto di energia provocante. Suppongo che all’epoca fossi attirato di più dal fatto che Beuys definiva l’atto del pensare come una forma e la scultura come un’azione diretta. Solo dopo ho iniziato a indagare sulla natura formale della scultura stessa, a cui mi sento legato da una potente relazione. Come hai detto tu, quando ti muovi intorno a una forma si crea una relazione cosmica tra il materiale, l’azione e l’esperienza. E questo mi ha fatto guardare a quei ragazzi che erano Moore, Rodin, Michelangelo e alla storia della scultura. Ed era veramente incredibile.
AC: È vero, a volte mi sorprende sapere che ci sono molti giovani artisti che non sono interessati ad approfondire la storia dell’arte, che si fermano al Minimalismo e alla Picture Generation. Se facessi parte di un gruppo rock o addirittura di uno proto-techno, ascolterei ogni tipo di musica, ogni cosa su cui mi capiterebbe di mettere sopra le mani, da Buddy Holly a Beethoven. Non capisco perché dovrebbe essere diverso in arte. Sembra che la gente stia realizzando di nuovo delle sculture, ma solo come piccoli oggetti che cadono da qualche ombrello concettuale, non in quanto sculture vere e proprie. Voglio dire, va bene avere idee complesse riguardo alla propria pratica artistica e lavorare in modo interdisciplinare, ma perché non potenziare a pieno ogni collage, ogni video, ogni dipinto, ogni minimo spillo?
TH: Mi sono veramente stufato di guardare l’arte che sta diventando una sorta di Disneyland per una certa folla acculturata. Non penso che gli artisti debbano essere giullari di corte, ma forse questo è semplicemente un mio tarlo.
AC: Penso di avere lo stesso tarlo.
TH: Sì, ed è questo che mi ha affascinato quando ti ho conosciuto. Eri uno dei primi artisti che ho incontrato, oltre a Amy Bessone, orgogliosi di ispiararsi a Picasso o Miró. C’era una sorta di freschezza nel modo in cui ti relazionavi alla storia dell’arte.
AC: Sì, lo faccio perché mi affascina, sul serio. È curioso, quando ho visto per la prima volta Immendorff e Penck a Chicago, li ho paragonati a Hairy Who; che cosa bizzarra. Non facevo parte della loro storia e del loro contesto, era tutto un mix.
TH: Sono assolutamente d’accordo. Penso che questo significhi essere artisti nel XXI secolo: il XX ci è arrivato senza un indice stabilito. C’erano Picasso, Bob Dylan, Hanna-Barbera, Guerre Stellari e il Modernismo, ogni tipo di “coesistenza”. Possiamo farne ciò che vogliamo. Se sei cresciuto negli anni Settanta a Leeds o a San Antonio, il mondo da un punto di vista visivo era un posto molto strano, mentre oggi stiamo vivendo di nuovo un momento molto affascinante. Non potrei mai avere a che fare con chi contrappone in modo teatrale Duchamp a Picasso, o l’arte aulica alla cultura di basso livello, perché è totalmente assurdo. Gli anni Sessanta sono tanto lontani quanto vicini a secondo di ciò che voglio. Decido io. Tutto quello che desidero è creare uno spazio destinato all’arte e un modo per guardarla. Mi terrorizza che lo spazio che dedichiamo a questi pensieri possa svanire sotto il peso dell’esigenza di dare un segno a ogni cosa, assumendo così una valenza accademica.
AC: L’arte non dovrebbe mai avere senso, è questa la sua bellezza.