Matthew Day Jackson: Pensi che il tuo lavoro sia la creazione attiva di una struttura formale che nella sua unicità si colloca nel campo della scultura insieme a Brancusi, Giacometti, Bourgeois?
Huma Bhabha: Penso che gli artisti che hai menzionato facciano tutti parte di un’antica tradizione, sono artisti-artigiani che vanno al di là di una prevalenza formale o ideologica. Sono artisti che hanno spinto le cose oltre ciò che è familiare o sicuro. Per me l’arte funziona come un mal di pancia che avvisa il mondo su qualcosa di poco sano che sta accadendo; infatti, se il mondo fosse sano non ci sarebbe bisogno dell’arte.
MDJ: Penso che anche tu stia facendo questo, giusto?
HB: Sì.
MDJ: C’è un piano che segui per capire quando le cose che fai sono finite?
HB: Il piano si rivela mentre lo creo e il primo livello è creare una struttura che stia in piedi. So solo approssimativamente quanto sarà grande l’opera una volta terminata e se sarà un busto, una figura intera o magari un tableaux più complesso. Il tutto è estremamente organico e fluido, dipende dai materiali, da come stanno bene uno con l’altro.
MDJ: Per te realizzare una scultura è un processo leggermente mascherato, visto che sia la struttura che la superficie sono entrambe visibili. Potremmo vedere queste forme come una sorta di purgatorio, uno stato di morte o di ritorno alla vita?
HB: Tutte le tue affermazioni si stanno concretizzando in modi diversi e da differenti punti di vista. L’alchimia dei materiali si crea in spazi che appaiono scuri, cavernosi nell’atto di forgiare corpi monumentali che si evolvono e appassiscono nello stesso momento. Per me vedere la rete di un pollaio non è diverso da ciò che accade in Pierrot Le Fou (1965), di Jean-Luc Godard, quando Jean-Paul Belmondo si gira e parla con il pubblico. La tenda viene tirata e svela che il mago in realtà è una vecchia rete da pollaio.
MDJ: O magari come i monaci alla fine di The Holy Mountain (1973) di Alejandro Jodorowsky? Nel cinema, direzionare lo spettatore verso lo “scheletro che supporta la carne” di ciò che vede è un atto anarchico rispetto al medium. Nella scultura, rendere consapevole del processo significa includere lo spettatore in qualcosa che descriverei come una via generosa e generativa. Pensi mai allo spettatore? Io non ci penso.
HB: Penso che le differenze e le similitudini tra vedere un film e vedere una scultura siano molto interessanti. La grande differenza tra il cinema e la scultura è che nel cinema ci si trova in una stanza buia che incoraggia a lasciare il corpo e a entrare nell’immagine cinematografica. Mentre con la scultura di solito si è in una stanza luminosa e lo spettatore diventa più consapevole del proprio corpo mentre incontra l’opera d’arte. Detto questo entrambe le pratiche comunemente sono radicate nella narrativa ed è per questo che una scultura di Bernini può essere vista appunto come un’opera cinematografica sebbene realizzata prima che il cinema esistesse.
MDJ: Qual è il posto dello spettatore, o piuttosto qual è l’ambiente ideale per le tue sculture?
HB: Il Partenone, all’interno di un cubo di vetro gigante disegnato da I.M. Pei con gli spettatori a bordo di alcuni elicotteri che gli girano attorno.
MDJ: Forse pensi ai tuoi lavori come a delle creature viventi? Come animali dentro una gabbia?
HB: Più come Gargoyle a guardia di un luogo sacro, in attesa di un futuro lontano in cui saranno di nuovo svegli, ma anche come degli animali, nel senso che non possono parlare. In Urdu — la lingua nazionale del Pakistan — abbiamo la parola Bezabaan che significa “senza lingua”.
MDJ: Bezabaan significa senza linguaggio o letteralmente senza lingua? O entrambe le cose? Mi piace pensare a questa possibilità poiché sembra davvero la situazione dell’artista: intrappolato nel dire delle parole ma senza l’immediata facilità di espressione.
HB: Per me Bezabaan si riferisce sia al non avere un linguaggio, sia al non essere in grado di comunicare con quelli che non capiscono la tua lingua. Il film Au Hasard Balthazar (1966) di Robert Bresson racconta la vita di un asino dall’inizio alla fine ed esprime esattamente quello che intendo per Bezabaan. In senso analitico, il lavoro dell’artista è l’equivalente del pianto o lamento (che è poi il vero linguaggio del Bezabaan). Può essere soltanto visto e non udito: qualcuno potrebbe arguire che questo è il modo in cui l’arte funziona nel mondo.
MDJ: Penso che il tuo lavoro dica precisamente quel che tu vuoi che dica. O piuttosto penso che queste figure un tempo siano state vive e che tu le stia rivelando a noi, non creandole bensì ricreandole esattamente come erano. Il tuo non è un progetto di rappresentazione, giusto?
HB: Il lavoro è diretto; non tenta di prendere in giro ma in un certo senso hai ragione, mi piace l’idea di questi giganti che una volta hanno varcato la terra. La rappresentazione non è un mio problema, si tratta più che altro di materiali a cui ridò vita attraverso nuove forme. Le parti delle sculture erano tutte vive in uno stadio precedente, alcune portavano a termine la propria funzionalità all’interno di una macchina o proteggendo del materiale elettrico; altre erano nuove, come l’argilla, la rete da pollaio, ecc.
MDJ: Credo che ci sia una forte componente di anarchia nell’arte e la sua esistenza è misurata da quanto l’arte non è in linea con la società che in realtà riflette. Il tuo lavoro non sembra far parte della scena artistica di New York. Pensi sia vero? E se sì, questa cosa ti fa sentire sola?
HB: Sono molto meno sola di quanto lo fossi in passato. Sin da quando mi sono trasferita, alla fine degli anni Ottanta, ci sono sempre stati artisti a New York con cui ho legato, ma penso che il mio interesse per un certo periodo della storia della scultura europea, rappresentata da artisti come Giacometti, Picasso ecc., mi abbia separato dalla tendenza dominante che si rifà solo alla Pop Art e al Minimalismo.
MDJ: Vedi dell’umorismo nel tuo lavoro? Può essere la dimensione un modo per esprimerlo? O forse una commedia di materiali?
HB: Sì, c’è molto umorismo nel mio lavoro, a cominciare dalla scelta dei materiali come il polistirolo da imballaggio, il legno vecchio, i rifiuti arruginiti e via dicendo, che però una volta assemblati danno vita a una figura interessante come il vagabondo di Charlie Chaplin. E penso che alcune facce o teste siano alquanto buffe. Non si relazionano solo alla storia della scultura, sono il risultato di tante ore spese guardando film dell’orrore o di fantascienza; penso che questo aggiunga della necessaria frivolezza all’insieme.
MDJ: Sebbene tu dica che ci sia della frivolezza, ho sempre preso queste figure molto seriamente. C’è una qualità ammaliante nel lavoro e il modo in cui sono fatte suggerisce che provengono da qui ma sono in uno stato di rovina poiché i materiali utilizzati non si trovano nel luogo in cui siamo abituati a vederli. Mi sono perso l’Apocalisse?
HB: L’Apocalisse è in corso da anni, siamo giusto nell’occhio del ciclone. È per questo che hai bisogno di umorismo per creare dei bassorilievi, altrimenti il tuo lavoro rischierebbe di diventare troppo “dark”. Mi piace quando può essere letto in entrambi i modi. Pensi che l’Apocalisse sia già arrivata? Verrà un giorno? Oppure si tratta della storia umana? Puoi dirmi di più?
MDJ: Penso che il sole si spegnerà e che il nostro universo imploderà. Da ora fino a quel momento la Terra vedrà molte differenti manifestazioni di vita e civiltà. Mi piace fantasticare sull’idea di esserci al momento dell’implosione. In qualche modo credo che entrambi stiamo tentando di vederla ora e di riportare agli altri ciò che abbiamo visto. Il vero artista aiuta il mondo rivelando verità mistiche. Nel fare ciò ti vedi più veggente, medium o profeta?
HB: La verità non è qualcosa che si può dividere facilmente in segmenti o ruoli, è più simile a un circuito di informazioni attraverso le quali l’artista vede degli eventi nel mondo, il modo in cui avvengono e sono di conseguenza ignorati e dimenticati. Per me, quel circuito ha a che fare con la domanda rispetto al purgatorio, diventa un circuito scultoreo che contiene tutti quegli stati e in quel circuito penso di operare come un medium. Detto questo, preferisco pensare a me stessa come a un soggetto neutrale che opera all’interno di determinate aree di interesse: arte, politica, cinema e via dicendo, sebbene sia impossibile mantenere completa neutralità, quindi il circuito è in qualche modo corrotto da elementi personali, il che tuttavia può essere positivo se mantenuto a un livello minimo. Non penso di essere così interessante e come ha detto Duchamp: “Vorrei essere completamente — non so come dire — inesistente”.
MDJ: Sia lode a Duchamp! Però in questo mondo di opere d’arte finemente prodotte, si potrebbe pensare che l’arte contemporanea abbia raggiunto del tutto questo stadio semplicemente mettendo all’opera persone che sanno usare le loro mani meglio dell’autore stesso. Le sculture che fai sono ben diverse da questo. Nel tentativo di non esistere, pensi che l’atto creativo sia simile al suicidio?
HB: Nell’esperire il lavoro di Duchamp ho sempre sentito la sua mano, anche nei ready made: puoi immaginarlo andare nel negozio, scegliere ed esaminare gli oggetti; il suo lavoro è molto diverso da quelli depersonalizzati e fabbricati in Cina che sembrano essere dappertutto oggigiorno. Quando lavoro sono interessata al suicidio dell’io: eliminare la nazionalità, il genere e via dicendo. Non voglio che l’opera sia legata a una specifica identità o ideologia. Quando non sei nulla diventi tutto.