La fotografia è ormai entrata a buon diritto nel mercato dell’arte. E lo ha fatto dalla porta principale. ArtTactit — un centro specializzato nelle ricerche di mercato sull’arte — di Londra ha rilevato (dati di maggio 2012) un incremento pari al 63 % di “fiducia” da parte del pubblico dei collezionisti verso la fotografia cosiddetta artistica, contemporanea e moderna. Si tratta del dato più alto da un anno a questa parte e testimonia come ormai la fotografia sia sentita e vissuta dal mercato come un linguaggio artistico vitale e importante e soprattutto, nonostante il momento di crisi, come un investimento affidabile. Del resto, fioriscono nuove fiere internazionali di fotografia, come Photo Fever o Miami Pulse negli USA e Paris Photo, la più importante fiera di fotografia d’arte in Europa, ha conosciuto nella scorsa edizione un incredibile successo e si avvia ormai verso ancora più ambiziosi traguardi portando il proprio marchio in una nuova fiera a Los Angeles.
Per quel che riguarda la fotografia moderna, artisti come William Eggleston, Robert Mapplethorpe, Josef Sudek, Henri Cartier-Bresson, Edward Weston, Man Ray e altri si sono definitivamente affermati con un gradimento superiore all’85% e con risultati in asta decisamente positivi. La fotografia contemporanea si afferma in modo travolgente grazie al lavoro di numerosi artisti, attivi nei vari paesi del mondo, come Erwin Olaf, Sally Mann, Martin Parr, Sebastião Salgado, Edward Burtynsky. Tra i “perfomers” di lunga data continuano a brillare Andreas Gursky, Cindy Sherman, Jeff Wall e Richard Prince, mentre i risultati degli artisti italiani sono ancora purtroppo assenti tra le venti migliori performance. E se non ci sono grosse novità nei nomi, c’è comunque un grande movimento con continue iniziative, manifestazioni, esposizioni; il mondo della fotografia acquisisce sempre nuovi appassionati mentre la diffusione della fotografia aumenta in maniera esponenziale.
Osserviamo da vicino il lavoro di alcuni di questi autori di maggior successo per comprenderne meglio le caratteristiche e le particolarità. Erwin Olaf è tra gli autori più interessanti e innovativi, in grado di dimostrare una duttilità intelligente e pronta a cogliere le suggestioni, e le occasioni, che il mercato gli offre. Olandese, classe 1959, ha tenuto importanti mostre personali in prestigiose istituzioni in Europa e negli Stati Uniti ma non disdegna lavorare per la pubblicità e passare dalla fotografia all’immagine in movimento per le sue creazioni elaborate ma dall’impatto immediato.“Ho sempre cercato di fare dell’ironia sulla bellezza per provare a offrire una nuova prospettiva sull’intera, stupida, ipervalutata industria della moda”, ha recentemente affermato. Del resto, la moda per Olaf non è solo fashion, ma un’interpretazione passiva dei modelli omologanti proposti dai media. La strategia è la provocazione: nei suoi lavori compaiono sfilate di pin-up ottuagenarie, pagliacci lascivi e violenti, donne e uomini nudi con in testa buste griffate di stilisti famosi. Negli ultimi anni, il suo stile si adegua a nuovi bisogni: “Sia la pubblicità che le fotografie di moda utilizzano l’immagine del corpo “gridando” per attirare l’attenzione. Io credo che questo meccanismo non funzioni più. Mi sento più portato alla ricerca del dettaglio, a una dimensione più intellettuale”. Nella serie “Hope” l’atmosfera silenziosa intende evocare “la dilatazione del momento tra l’azione e la reazione. I personaggi sono sospesi nell’attimo prima di reagire a ciò che gli è appena accaduto. “Il piede inclinato della ragazza con il vestito giallo può lasciare intendere qualcosa della sua relazione con il ragazzo… ma cosa? Nemmeno io sono a conoscenza della storia che sto raccontando e gli indizi si costruiscono nell’immagine spesso in modo indipendente dalla mia volontà o consapevolezza”. Nelle immagini di Erwin Olaf, in scenari anni Cinquanta e Sessanta, si muovono personaggi immobilizzati in un limbo di perfezione e malinconia, in cui la registrazione della realtà lascia spazio alla messinscena dell’immaginario.
Sally Mann, americana, nata nel 1951, è diventata famosa per gli studi sulla fanciullezza e sull’adolescenza. Il suo lavoro ha raggiunto la grande notorietà con il libro At Twelve: Portraits of Young Women (Aperture, 1988). Negli anni successivi ha continuato a indagare il soggetto volgendo l’obiettivo sui suoi tre figli, che avevano tutti meno di dieci anni. Mentre le sue fotografie toccano momenti ordinari della loro vita quotidiana, affrontano anche temi più complessi come la morte e la percezione di un’inquieta sensualità. Il suo lavoro è proseguito spostando lo sguardo sul marito Larry (Proud Flesh) con una serie di ritratti candidi e sinceri di un uomo ritratto nei suoi momenti più fragili. Mann si è poi rivolta verso il paesaggio, realizzando una serie di fotografie come Deep South (Bulfinch, 2005). Aperta anche ad altre tecniche, come la stampa al collodio e l’uso del colore, Sally Mann ha progressivamente conosciuto un successo sempre maggiore. Il suo lavoro è presente in numerose collezioni di musei (tra cui il Metropolitan e il Whitney di New York) e viene costantemente presentato in varie mostre in diverse gallerie del mondo.
Edward Burtynsky, canadese, nato nel 1955, è tra gli artisti che hanno indagato con maggior profondità e attenzione il paesaggio nelle sue trasformazioni generate dall’uomo. Dallo scavo alla penetrazione nel terreno (famose le due serie “Quarries” e “Oil”), fino alle sue fotografie di una Cina in grande fermento, Burtynsky realizza grandi panoramiche della scarnificazione del paesaggio da parte dell’uomo, usando il banco ottico: “Queste immagini — ha detto l’autore — sono per me la metafora del dilemma della nostra esistenza moderna; ricercano un dialogo tra attrazione e repulsione, seduzione e paura. Siamo guidati dal desiderio — la possibilità di una buona vita, mentre, consciamente o inconsciamente, siamo consapevoli della sofferenza del mondo a causa del nostro sviluppo. Si tratta di una contraddizione non facile da risolvere, per me queste fotografie sono un’occasione di riflessione sul nostro tempo”. Lo sguardo di Burtynsky rappresenta senz’altro una delle modalità contemporanee più innovative, e più seguite, nell’utilizzare la fotografia tra registrazione della realtà e interpretazione d’autore. E il mercato sembra senz’altro seguire e approvare questa tendenza.
Una stessa tendenza che si esprime, pur se in modo diverso, nella fotografia di Salgado. Celebre per i suoi affreschi di portata “planetaria”, il lavoro di Sebastião Salgado (1944) brasiliano, va in una direzione simile nella ricerca di una fotografia personalissima nello stile e universale nella possibilità di essere compresa. Dopo aver dedicato due decenni della sua vita di fotografo alle grandi tragedie del nostro tempo, culminate nelle grandi serie “La Mano dell’Uomo” (1993) e “In cammino” (2000), dedicate rispettivamente all’analisi del lavoro umano nei cinque continenti e alle migrazioni forzate che obbligano gli uomini a spostarsi dalla loro patria, Salgado ha completato nella prima decade del XXI secolo un terzo grande affresco dal titolo Genesi, in cui il suo sguardo ha assunto una modalità contemplativa, tesa alla presentazione del nostro pianeta come territorio da salvaguardare. Agendo come gli esploratori di un tempo, Salgado ha affrontato innumerevoli spedizioni nel corso degli ultimi dieci anni, con lunghissimi percorsi a piedi e utilizzando i mezzi necessari per poter raccontare luoghi lontani, la vita degli animali e quella delle comunità nomadi e stanziali che vivono ancora come alle origini con un contatto totale con la natura. Grandi paesaggi, luoghi incontaminati, belli e affascinanti nella loro dimensione spettacolare; animali visti da vicino nei loro habitat naturali (testimoniando in questo modo una “vicinanza” unica e speciale, veramente empatica, che Salgado dimostra anche con gli animali che fotografa); il racconto appassionato, a suo modo malinconico, delle comunità umane cosiddette primitive, come i boscimani in Sudafrica, gli indios dell’Amazzonia, i pigmei o le popolazioni di Irian Jaya del Borneo che vivono costruendo case sugli alberi e nutrendosi di quanto la natura offre. Le immagini di Salgado completano così un ciclo biblico, che insieme a Genesi racconta dell’abbandono del Paradiso Terrestre (La Mano dell’Uomo) e dell’Esodo (In Cammino). Con la sua eccezionale capacità di documentazione, Salgado si conferma così come il più importante testimone di una fotografia impegnata, raddoppiando anche su un piano personale il proprio coinvolgimento in un progetto di riforestazione della foresta atlantica in Brasile, avviato insieme alla moglie Lélia nell’Instituto Terra di Aimorés, nello stato di Minas Gerais. “Quello che voglio è che il mondo ricordi i problemi e la gente che fotografo. Quello che voglio è creare un dibattito intorno a quello che accade nel mondo e provocare qualche discussione con queste immagini. Niente di più di questo. Io non voglio che la gente le osservi e apprezzi la luce e il gusto per le tonalità. Io voglio che loro guardino dentro e vedano ciò che l’immagine rappresenta, e il tipo di persone che fotografo”.
Su un piano diverso, agisce come “fotografo della quotidianità” Martin Parr. Sarà perché ha puntato l’obiettivo sulle abitudini del mondo occidentale, sarà probabilmente perché il suo sguardo è prima di tutto autoironico, ma senza dubbio Parr è il fotografo che oggi rappresenta meglio di chiunque altro i nostri costumi. Anzi, come recita il titolo di una sua celebre e ormai storica mostra, il nostro “senso comune”. Il suo è uno sguardo caustico, implacabile, pieno di arguzia, intelligenza, ma anche di ironia leggera e divertita, pronta a cogliere i particolari trascurabili ma rivelatori di quelle “piccole cose di pessimo gusto” che circondano la nostra quotidianità. Questa è la cifra stilistica di Martin Parr, che con i suoi racconti visivi sulla media borghesia, i suoi vizi, le sue abitudini, la sua preoccupante propensione a un kitch diffuso, ha composto un vero atlante fotografico — antropologico sulla cultura contemporanea della middle class. Nato nel 1952 a Epsom, nella regione inglese del Surrey, Parr studia fotografia al Politecnico di Manchester e si afferma subito per l’intelligenza dei progetti fotografici che realizza. Per ben tre volte consecutive, alla fine degli anni Settanta, ottiene il premio dell’Arts Council della Gran Bretagna. Ormai il suo stile ha fatto scuola e oggi Parr è un fotografo acclamato in tutto il mondo, membro tra i più rappresentativi della prestigiosa agenzia Magnum Photos. Ma non si deve pensare che il suo lavoro sia di denuncia o di derisione. Il suo sguardo sa anche essere tenero e, a suo modo compassionevole. Parr sa benissimo che il principale attore di questa “festa del cattivo gusto” è proprio lui, l’osservatore partecipante, per così dire, della sua antropologia visiva del Ventunesimo secolo.
Cinque diversi autori; cinque modi differenti di pensare la fotografia e di usarla come linguaggio. Cinque modi per continuare a essere fotografi — e fotografi fino in fondo: in grado di raccontare la realtà lasciando una propria indissolubile impronta d’autore. Un’impronta che resta e che viene apprezzata dal mercato dell’arte.