Tra gli scenari obsoleti di Neo Rauch e l’archivio fotografico di Hans-Peter Feldmann, il repertorio di immagini con cui Ian Tweedy lavora appartiene a un passato recente ma di cui sembrano perduti definitivamente coordinate e contesto.
Graffitista e street artist all’inizio, Tweedy — giovanissimo — lascia tracce per le vie di Francoforte, Wiesbaden, Amburgo e Düsseldorf. Il suo territorio d’adozione, dopo l’America, era allora quello tedesco e la sua firma illegale era quella di Dephect, con cui finisce subito nel volume culto delle subculture urbane, Graffiti World.
Ora Ian Tweedy interviene su mappe geografiche della Guerra Fredda, sulle copertine di vecchi libri, su documenti del passato, purché ogni centimetro quadrato di superficie sia la memoria di qualcosa, abbia una storia. Ma, come prima, continua a lavorare sulle strade delle città e sugli spazi pubblici. Adesso però come “muralista”, con immagini sociali rubate alla Storia, ritratti di collettività prese in prestito da riviste popolari come Life, Storia Illustrata o altri rotocalchi: uno sciopero dei lavoratori della Chrysler anni Cinquanta, una manifestazione a Chicago per la liberazione di Sacco e Vanzetti, un sistema fordista di produzione di armi per la guerra del Vietnam, l’ingresso di tank sovietici a Praga. Perché per Tweedy è necessario che ogni immagine sia stata già vista prima da qualcun altro o faccia parte di una memoria condivisa.
Come una sorta di hacker della Storia, Ian Tweedy si inventa ogni volta una propria “macchina del tempo”, un crossover di spazi ed eventi, una serie di associazioni cut-up di geografie e identità. La propria biografia di persona sradicata, di americano nato in una base militare in Germania e passato poi da un campo all’altro, non è altro che un frammento di una più ampia storia sociale che ormai accomuna tutti su scala globale. Come per molti artisti contemporanei — da Deimantas Narkevicius a Michaël Borremans — la grande quantità di materiale fotografico che Tweedy ha raccolto negli ultimi anni è la base di tutti i suoi progetti. La serie “Monument”, fatta di wall painting dalle grandi dimensioni, è una costellazione di pittura acrilica, di mappe geografiche, di dettagli fotografici e di segni grafici senza un ordine associativo chiaro. Anche i suoi “Plot” assemblano — in maniera immediata e precaria — informazioni, foto d’archivio, disegni, dentro un unico progetto che mette in scena, ogni volta, più strategie d’intervento sullo spazio pubblico: ipotesi di murales illegali e istruzioni fai-da-te per creare storie tra le maglie del tessuto urbano. “Arrangements of Forgotten Stories” è invece il nome di un ciclo aperto di immagini pittoriche, di formato ridotto, sovrapposte alle copertine rigide di vecchi libri rubati o trovati.
Il lavoro di Ian Tweedy registra sempre un gap tra un passato fatto di storie nazionali, differenti culture o diverse appartenenze sociali e l’amnesia del presente. Come altri artisti delle generazioni emergenti, Tweedy cerca una “radice” nel tempo invece che in uno spazio e in un luogo determinati, ma secondo una biografia immaginata per mezzo di un montaggio facoltativo e non lineare piuttosto che realmente determinata dagli eventi. Uno dei suoi ultimi progetti — “A History Out of Context” — lo vedeva ripreso in un video mentre strappava pagine bianche da vecchi libri che poi sarebbero diventate il supporto per i suoi disegni: pagine come vuoti urbani da occupare e su cui lasciare qualche traccia del proprio passaggio.