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350 AUTUNNO 2020, PROSPETTIVE

18 Novembre 2020, 9:00 am CET

Ian Wilson: There was a discussion di Luca Cerizza

di Luca Cerizza 18 Novembre 2020
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Invito per una Discussion di Ian Wilson al Centre Pompidou, Parigi, 2005. Courtesy Jan Mot, Bruxelles.
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“Perfect”. Veduta della mostra presso Jan Mot, Bruxelles, 2020. Fotografia di Philippe De Gobert. Courtesy Jan Mot, Bruxelles.
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Set of 10 Sections: 431 – 440, 2014. 10 libri numerati individualmente, inchiostro su carta. Certificato di autenticità firmato da Ian Wilson con il seguente testo: “The Set of 10 Sections, 431-440, with the word Perfect, is authorized by Ian Wilson”. 30.2 × 22 x 2.2 cm (ogni libro). Unico. Veduta della mostra “Perfect” presso Jan Mot, Brussels, 2020. Fotografia di Philippe De Gobert. Courtesy Jan Mot, Brussels.
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Sections 1–57, 1971-1990. Collezione di tredici pubblicazioni intitolate Sections, 1982-2005. Veduta della mostra presso KW Institute for Contemporary Art, Berlino, 2017. Fotografia di Frank Sperling. Courtesy KW Institute for Contemporary Art, Berlino.
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There was a discussion with Seth Siegelaub in New York City (Bykert Gallery, West 57th Street) 1968, 1968. Certificato dattiloscritto firmato da Ian Wilson. 27,9 × 21,6 cm. Unico. Courtesy Jan Mot, Bruxelles.

“No, non sapevo di Ian Wilson, la sua vita era per me esemplare, la sua morte non fa che prolungare la sua essenza.” (Tommaso Trini, e-mail all’autore, 7 luglio 2020)

Sembra giusto ricordare il percorso radicale e coerente di Ian Wilson attraverso le parole di chi lo ha seguito fin dal 1970, dalla gestazione di una pratica la cui essenza si sovrappone, verrebbe da dire, all’assenza1.

Il lavoro di Wilson matura nel contesto di quel superamento dell’idealismo modernista e, in parte, ancora minimalista, che ha avuto luogo principalmente dalla seconda metà degli anni Sessanta. Se le pratiche post-minimaliste a lui coeve intendevano superare definitivamente l’autoreferenzialità del modernismo facendovi entrare porzioni più o meno vaste di “vita”, attraverso la presenza di nuovi attori come il tempo, la biografia, la storia, il contesto, Wilson si muove in una direzione per alcuni versi opposta. Più ancora che per altri concettuali a lui coevi, il desiderio di Wilson sarà, infatti, quello di portare ad un grado più assoluto l’astrazione raggiunta dalla pittura modernista, attraverso quella che definirà “nonvisual abstraction”, individuata come un carattere tipico dell’arte concettuale2. In questo sforzo di superamento del “silenzio” dell’arte modernista e minimalista, il linguaggio gioca un ruolo fondamentale.

Se, già un decennio prima, pittori come Gastone Novelli e Gianfranco Baruchello avevano trattato la tela bianca come una superficie su cui “scrivere”3, per gli artisti ascrivibili alla sfera concettuale il linguaggio diventa uno degli strumenti privilegiati per far “parlare” di nuovo l’oggetto artistico. Sulla scorta di quella che, nel dibattito filosofico, venne definita come “svolta linguistica” (Linguistic turn)4 maturata sotto l’influenza della filosofia di Wittgenstein e dello Strutturalismo francese, il linguaggio verrà usato per le sue capacità analitiche (Bruce Nauman, Joseph Kosuth, Art & Language), evocative e immaginative (Robert Barry, Lawrence Weiner), e umoristiche (John Baldessari). Per i concettuali il linguaggio diventa, innanzitutto, strumento privilegiato verso quella “dematerializzazione” invocata da Lucy Lippard e John Chandler al fine di ridurre ai minimi termini la natura oggettuale dell’opera5, per cui “Non tutte le idee devono essere rese fisicamente”, come aveva sostenuto Sol Lewitt6. Il linguaggio diviene anche uno strumento per raggiungere un pubblico più ampio e per comunicare direttamente nella loro testa (“live in your head”, per dirla con Harald Szeemann) riducendo qualunque forma di mediazione, come evidente soprattutto nel lavoro di Barry, in particolare quando arriva a concepire un’opera come trasmissione di pensiero attraverso la telepatia (Telepathic Piece, 1969)7.

Dal canto suo Wilson oltrepassa l’uso che i suoi colleghi fanno del linguaggio scritto, per introdurre nel contesto dell’arte una parola parlata, discussa, che svanisce quando pronunciata. In questo consiste forse il lascito più importante del suo lavoro che mette in questione la stessa natura “visiva” di ciò che è definito come arte: “I present oral communication as an object (…) I have chosen to speak rather than sculpt. (…) I’m diametrically opposite to the precious object. My art is not visual, but visualized”8.

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Untitled (Disc), 1967. Veduta della mostra presso KW Institute for Contemporary Art, Berlino, 2017. Fotografia di Frank Sperling. Courtesy KW Institute for Contemporary Art, Berlino.
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Untitled (Disc) , 1966. Fibra di vetro, vernice. ⌀ 42,5 cm. Unico. Veduta della mostra “Ian Wilson. One Early Sculpture”, presso Jan Mot, Bruxelles, 2002. Courtesy Jan Mot, Bruxelles.
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Circle on the Floor, 1968. Gesso bianco. 183 cm. Edizione illimitata e numerata (fino al 2020). Certificato di autenticità. Veduta dell’installazione presso Jan Mot, Bruxelles, 2019. Courtesy Jan Mot, Bruxelles.
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Set of 10 Sections: 431 – 440, 2014. 10 libri numerati individualmente, inchiostro su carta. Certificato di autenticità firmato da Ian Wilson con il seguente testo: “The Set of 10 Sections, 431-440, with the word Perfect, is authorized by Ian Wilson”. 30.2 × 22 x 2.2 cm (ogni libro). Unico. Veduta della mostra “Perfect” presso Jan Mot, Brussels, 2020. Fotografia di Philippe De Gobert. Courtesy Jan Mot, Brussels.
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Art & Project, Amsterdam, Bulletin 30, 1970. Veduta della mostra presso KW Institute for Contemporary Art, Berlino, 2017. Fotografia di Frank Sperling. Courtesy KW Institute for Contemporary Art, Berlino.

Attraverso la semplice azione di tracciare con il gesso un cerchio di due metri circa di diametro sul pavimento (Circle on the Floor, 1968), Wilson non solo si distanzia dalle sue prime opere di matrice minimalista, che già tendevano a una relazione con il contesto prossima all’invisibilità (i Discs, 1966-67), ma arriva a comprendere che la discussione sull’opera poteva essere più interessante della sua visualità: non più contemplazione ma, attraverso il tempo, azione9. Invece di operare una riflessione di tipo auto-referenziale sulla natura e il linguaggio dell’arte tipica di Kosuth (la serie Investigations) e Art & Language (Index), la parola di Wilson diventa strumento maieutico, applicabile a conversazioni prima del tutto informali e spontanee, poi strutturate su appuntamenti e per un pubblico volontario e partecipante. Dopo aver sperimentato brevi conversazioni non annunciate con diversi interlocutori occasionali che avranno come soggetto la parola “tempo” (dal 1968 per circa un anno), e poi l’oralità (1969-72), a partire dal 1970 Wilson sosterrà, infatti, conversazioni presso gallerie d’arte, musei e case di collezionisti annunciate pubblicamente.

Concentrate su temi di natura speculativa come “the known and the unknown”10 e, a partire dal 1994 fino alla morte, sull’”assoluto”, le conversazioni di Wilson sono “spazi per la discussione e il dibattito”11 attraverso modalità che rimandano all’oralità dialogica socratica e pre-socratica. Mentre le speculazioni di Socrate furono riportate su carta da Platone dopo la sua morte, Wilson impedirà ogni forma di documentazione visiva o scritta delle sue discussioni, per non “allontanare lo spettatore dalla disciplina della ricerca della natura astratta della verità”12. Unicamente a laconici certificati firmati dall’artista è affidata la testimonianza dell’avvenimento e la produzione di un oggetto di valore economico.

Fatto salvo per il “resto” prodotto dai certificati e alcuni rari progetti editoriali (Sections, dal 1971 al 2014), l’opera di Wilson si è data attraverso una parola parlata, discussa, condivisa dall’artista con uno o molti individui. È in questo “coinvolgimento mentale interattivo”13 con i partecipanti alla discussione che l’opera prende corpo. Opera che esiste, quindi, nel suo momento di incontro ed esperienza, in un tempo specifico e delimitato, diverso, però dal “realismo” dell’Happening o dalla frontalità scandalosa della Body Art. Si potrebbe dire che, una volta che le parole siano state tutte pronunciate, l’arte (art) svanisca per lasciare posto all’opera d’arte (art-work). D’altro canto la documentazione dell’opera rimane nel racconto tramandato oralmente da chi ha partecipato alle discussioni. La sollecitazione del paradigma orale, sia a livello di esperienza che di documentazione dell’opera, è uno degli strumenti più radicali con cui Wilson opera questa uscita dalla evoluzione lineare del moderno, per entrare in un tempo senza progresso, circolare, immemore14.

In questo senso già Circle on the Floor (una edizione illimitata che, seppur non prodotta meccanicamente, è sempre uguale a sé stessa) può essere letta come un’anticipazione del nodo tempo-oralità-esperienza nell’opera di Wilson. La sua forma rimanda sia a una possibile rappresentazione del tempo circolare che sembra preludere al suo interesse per il pensiero Induista – cui l’artista si avvicinerà più direttamente entrando in un ashram nel 1986 –, come ad un’azione fatta in un (seppur breve) tempo: quello in cui il cerchio viene eseguito ogni volta nuovo, ogni volta uguale a sé stesso. D’altro canto, il cerchio tracciato sul pavimento rimanda anche a un luogo di incontro, a un perimetro intorno al quale delle persone si ritrovano a conversare. I due temi del tempo e dell’oralità, della parola che svanisce come/con il tempo, di un’arte che si dà solo in un momento determinato15, sembrano già trovare qui una convergenza.

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6 Discussions with Daniel Buren, in Paris, in the Years 1970 to 1980, 1970-1980. 7 certificati stampati su carta firmati da Ian Wilson e Daniel Buren. 27,9 × 21,6 cm (ciascuno). Courtesy Jan Mot, Brussels.
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Invito per una Discussion di Ian Wilson, 1972. Courtesy Jan Mot, Bruxelles.
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There was a discussion with Lucy Lippard in New York City (Grand Street) 1969, 1969. Certificato dattiloscritto firmato da Ian Wilson. 27,9 × 21,6 cm. Unico. Courtesy Jan Mot, Bruxelles.
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Invito per una Discussion di Ian Wilson presso Van Abbemuseum in Eindhoven, 1983. Courtesy Jan Mot, Bruxelles.
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Invito per una Discussion di Ian Wilson presso Van Abbemuseum in Eindhoven, 1983. Courtesy Jan Mot, Bruxelles.

Allora si potrebbe far partire da questo cerchio il raggio d’azione che ha raggiunto un certo numero di artisti che hanno trovato nella pratica discorsiva di Wilson una spinta a mettere in questione la natura oggettuale dell’arte e la sua indipendenza dal fattore temporale. Si potrebbe muovere dalla generazione emersa nei primi anni Novanta, soprattutto in Francia e intorno al lavoro critico e curatoriale di Nicolas Bourriaud e Eric Troncy. Artisti come Liam Gillick, Dominique Gonzalez-Foerster, Rirkrit Tiravanija, ma soprattutto Philippe Parreno, hanno lavorato sulla sollecitazione dell’elemento temporale nello spazio delle loro opere e delle loro mostre, anche come risposta alla nuova realtà tecnologica che stava emergendo con l’uso sempre più diffuso dei personal computer e la nascita del World Wide Web16. Per questi artisti la mostra deve essere una “zona spazio-temporale”, “uno spazio dove il tempo veniva esperito ambiguamente”17, dove le opere esistono in un continuo stato di divenire. In questo senso, soprattutto la pratica di Parreno è stata esemplare. Se, negli ultimi anni, l’artista francese ha superato l’elusività tipica dei suoi primi anni riuscendo a costruire mostre/i-macchine, apparati che sembrano tecnologicamente indipendenti da ogni presenza umana, non possiamo non pensare a Wilson leggendo recenti dichiarazioni come: “Se una mostra non si fonda su oggetti, può essere facilmente trasmessa. Diventa quindi un’idea, e le idee possono essere diffuse e influenzare la gente”18.

L’attitudine maieutica delle Discussions di Wilson, la possibilità di fare della parola parlata una forma d’arte, può essere considerata sicuramente un precedente per quella svolta discorsiva che ha percorso l’arte contemporanea dagli inizi degli anni Duemila. Le lecture-performance di coreografi come Xavier Le Roy (già dal 1999 con Product of Cirmumstances), di artisti-saggisti come Seth Price e di artisti come Benoît Maire e Falke Pisano, le situazioni di artisti-coreografi come Tino Sehgal, non solo hanno un carattere discorsivo e a volte meta-linguistico ma esistono soprattutto, se non esclusivamente, in un momento di incontro dell’artista con un pubblico, in un dialogo-confronto che può essere anche partecipato e può arrivare ad esistere solo nell’esperienza di quel momento in un tempo e luogo specifico. In questo senso le “constructed situations” di Tino Sehgal19, proseguono e addirittura radicalizzano l’eredità di Wilson in almeno in due direzioni. Da una parte, nel carattere di speculazione filosofica in forma dialogica che attraversa soprattutto alcune delle prime opere di Sehgal: in This is About (2003) l’interprete dell’opera racconta al pubblico la pratica artistica dello stesso Sehgal, mentre in This Objective of That Object (2004) gli interpreti ripetono la frase “The objective of this work is to become the object of a discussion” e, se il visitatore non risponde alla sollecitazione di avviare una discussione, crollano a terra, come esangui. Dall’altra, il lavoro di Sehgal, con la volontà dell’artista di non documentarlo fotograficamente, sembra continuare Wilson nell’enfasi posta sull’unicità di quel momento di incontro tra opera e pubblico, sulla possibilità di un’esperienza che, come le Discussions di quest’ultimo, può essere trasmessa solo oralmente, nella catena di racconti di chi l’ha vissuta20.

Insomma, un’arte che si manifesta solo attraverso un momento “live”, nel contesto della mostra ha, seppur in forme oggi ben più espanse e anche spettacolari, un precedente fondamentale nelle discussioni di Wilson. Se alcuni artisti, forse anche come reazione alla facilità e pervasività della documentazione per immagini nell’era digitale, hanno sviluppato negli ultimi anni una sempre maggiore attenzione al formato della mostra piuttosto che all’opera, alla costruzione di un momento esperienziale in un “qui e ora” imprescindibile, devono a Wilson quella idea di un’opera che esiste solo nella sua forma di incontro tra individui, il meno possibile mediato da forme di documentazione tecnologica.

 

La personale “Perfect” di Ian Wilson sarà visitabile presso la galleria Jan Mot, Bruxelles fino al 10 Ottobre 2020.

Luca Cerizza è curatore e critico d’arte. Insegna curatela e museologia alla NABA (Nuova Accademia di Belle Arti) di Milano. Vive a Torino e Milano.

Ha partecipato a una discussione collettiva (2008) e una individuale (2009) di Ian Wilson.

1 A questo proposito vedi: “Intervista con Ian Wilson”, DATA, n. 1, settembre 1971, pp. 32-34.

2 A questo proposito vedi: Ian Wilson, “Conceptual Art”, in Artforum, volume 22, n. 6, febbraio 1984, pp. 60-61.

3 Luca Cerizza, “Scrivere la fine del moderno: Gianfranco Baruchello, Giorgio Griffa, Gastone Novelli”, Flash Art Italia, n. 245, Vol. 52, luglio-settembre 2019.

4 A questo proposito vedi: Richard M. Rorty, The Linguistic Turn: Essays in Philosophical Method, 1967.

5 Lucy R. Lippard e John Chandler, “The dematerialization of art”, Art International, volume 22, n. 2, febbraio 1968, pp. 31-36.

6 “Sentences on Conceptual Art”, in 0-9, n. 5, gennaio 1969.

7 Il critico e curatore Jack Burnham ha sostenuto che la telepatia fosse il medium ideale dell’arte concettuale, forse proprio perché è pura trasmissione di informazioni o sensazioni tra individui senza bisogno di alcuna mediazione.

8 Ian Wilson, Conceptual Art and Conceptual Aspects, catalogo della mostra, The New York Cultural Centre, New York, 1970, p. 33.

9 In questo senso il titolo che diede Daniela Palazzoli alla mostra “Con temp l’azione” (Torino, dicembre 1967-gennaio 1968) è veramente la sintesi perfetta di un’epoca.

10 Il retro di una cartolina d’invito del Van Abbemuseum di Eindhoven (3 giugno 1983) recita: “that which is both known and unknown is what is known. that which is both known and unknown is not known as both known and unknown whatever is known is just known”.

11 Anne Rorimer, “Ian Wilson-The Object of Thought”, in Ian Wilson. Discussions, Van Abbemuseum, Eindhoven; MACBA, Museu d’Art Contemporani de Barcelona; Mamco, Musée d’art moderne et contemporain de Genéve, 2008.

12 Ian Wilson in conversazione con Hans Ulrich Obrist, Mousse n. 31, dicembre 2011 – gennaio 2012, p. 207.

13 Anne Rorimer, Idem, p. 16.

14 Nel suo libro Preface to Plato (1963), il classicista inglese Eric A. Havelock, ha analizzato la dicotomia tra il carattere orale e musicale della poesia omerica e quello sistematico e astratto del pensiero platonico. Il libro di Havelock influenzerà gli studi di Walter J. Ong sull’oralità e quelli sulle comunicazioni di massa di Marshall McLuhan. Tommaso Trini ha citato più volte, direttamente o indirettamente, il testo di Havelock come conferma di un paradigma orale implicito in certa arte post-minimalista. Vedi: Tommaso Trini, Mezzo secolo di arte intera. Scritti 1964-2014, a cura di Luca Cerizza, Johan & Levi, Monza 2016.

15 Seppur sia una edizione illimitata, l’intenzione dell’artista era quella che la stessa edizione dell’opera non venisse installata più di una volta simultaneamente. Differenti edizioni potevano essere installate allo stesso tempo.

16 A questo proposito vedi: Jörn Schafaff, “Challenging Institutional Standard Time”, in Timing. On the Temporal Dimension of Exhibiting, edito da Beatrice von Bismarck, Rike Frank, Benjamin Meyer-Krahmer, Jörn Schafaff, Thomas Weski, Stenberg Press, Berlino 2014.

17 Ibidem.

18 “Vague Presence. Philippe Parreno in Conversation with Jörn Shafaff”, in Idem, p. 154.

19 Già Robert Barry definiva quella di Wilson “situational art”: Robert Barry Presents a Work by Ian Wilson, luglio 1970, in Lucy Lippard, Six Years: Dematerialization of the Art Object, University of California Press, Berkeley, CA 1973, p. 182.

20 La mostra Don’t Expect Anything, curata dal sottoscritto presso la galleria Massimo Minini (11 marzo – 17aprile 2004), voleva tracciare una parabola, seppur estremamente sintetica, sull’uso del linguaggio e della parola come strumento alternativo all’oggettualità dell’opera, seguendo una linea che andava dal concettuale storico (Robert Barry e Ian Wilson), fino a un giovane Tino Sehgal, visto come il raggiungimento di una completa smaterializzazione dell’opera. La pubblicazione che accompagnava la mostra non riportava nessuna immagine di questa, ma affidava la sua documentazione a un testo che riprendeva quello pronunciato dalle guide che accompagnavano gli spettatori della mostra stessa, al cui interno veniva “performata” l’opera di Sehgal.

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