Scrivo guardando fuori dalla finestra un angolo del quartiere Isola, a Milano. Sullo sfondo, le sagome rossastre dei grattacieli che chiudono la vista verso la Stazione Garibaldi. Sono le sentinelle a guardia del “bosco verticale”, della città nuova e si suppone trionfante che prenderà il posto dei terreni incolti trasformati in “Biblioteca degli alberi”, secondo le fantasiose definizioni che si leggono in giro¹. È una postazione ideale per scrivere dell’arte e della contemporaneità a Roma, e per diversi motivi.
Vista da qui, dalla prospettiva accelerata che Milano offre sulla situazione artistica internazionale, Roma perde i tratti di una realtà troppo familiare per acquistare invece contorni sfumati e problematici, mentre la tentazione a tratteggiarne un’identità, un’essenza in qualche modo, evapora presto se messa a confronto con la diversità che ho sotto gli occhi e con quella che si affaccia dal browser aperto sullo schermo del mio portatile. I vecchi luoghi comuni poi, quando si discute dell’Italia contemporanea, non reggono, non sono più neppure scusabili, e raccontare la vicenda dell’arte nella capitale, più o meno negli ultimi dieci anni, è possibile solo partendo da una specie di tabula rasa, di preventiva disattivazione dei cliché. Anche perché quel che si vorrebbe descrivere riguarda alla fine tutta la condizione culturale del nostro paese: la crisi del sostrato storico-umanistico, delle mediazioni sociali, la fine delle divisioni politiche tradizionali, il rigetto dell’eredità come fattore di costruzione identitaria, la monocultura televisiva, la frammentazione utilitaristica delle città…
Insomma, tutti i temi delle perenni discussioni sulla crisi italiana, sui suoi caratteri locali e/o globali, a cui il mondo dell’arte, pur con la sua tipica resilienza, non riesce completamente a sottrarsi. Direi però che proprio la trasmissione di un patrimonio condiviso, di una visione, di una sensibilità comune tra diverse generazioni di artisti, che era poi ciò che nutriva a Milano o Torino come ovunque il concetto di “città”, è entrato in crisi a Roma in modo più violento e netto forse che in altri luoghi. La rottura, all’inizio degli anni Novanta, non ha trovato chi sapesse interpretarla, né d’altro canto il sistema dell’arte dell’epoca è apparso in grado di rinnovarsi come avvenuto in altri centri. Di qui l’inquietante sensazione, per chi ha memoria di quegli anni, di una città paradossalmente desertificata, sempre più compiaciuta di assomigliare alla sua caricatura.
Ma anche a Roma alla fine qualcosa si è mosso. Il senso di distacco, di latitanza, la necessità di fare i conti con condizioni radicalmente nuove hanno giocato a favore di un mutamento, già peraltro leggibile in ambito editoriale, con la fioritura di case editrici innovative (Einaudi Stile Libero, Minimum Fax, Fazi, Fandango, Meltemi, Luca Sossella, ecc.) e di una diversificata e vivace comunità di giovani poeti, narratori e critici. Un sintomo di cambiamento (e non solo locale, ovviamente) è stato certamente, dal decennio scorso in poi, l’entrata in scena di una generazione di artisti nel cui lavoro è leggibile in egual misura la capacità di dialogare con l’attualità e di riattivare il sostrato simbolico e politico, di essere dentro la città e di guardare criticamente da un’altra parte, di fare i conti con l’atomizzazione dell’esperienza nel mondo globale.
C’è soprattutto un “ritorno del reale”, del conflitto, della differenza, nell’arte a Roma degli anni Duemila, e penso ad esempio — senza trascurare una figura appartata come quella di Bruna Esposito — a Gea Casolaro e alle sue rigorose esplorazioni del paesaggio urbano contemporaneo, a Elisabetta Benassi, il cui lavoro si è da subito confrontato con l’immaginario storico e la densità antropologica, a Micol Assaël e ai suoi meccanismi di cui viene esposta l’inquietante valenza psichica, e quindi a Rä di Martino, con il suo lavoro intorno ai nodi dell’identità, del desiderio, dell’istinto e della memoria, a Marinella Senatore e ai suoi sorprendenti sconfinamenti, dall’architettura ai generi televisivi, allo humour nero e alla verve provocatoria del duo goldiechiari, sino alle mappature emotive, sottilmente perturbanti, allestite da Carola Bonfili. E poi ancora a Carola Spadoni, Alessandro Piangiamore, Nicoletta Agostini, e la lista è naturalmente incompleta e parzialissima.
Dunque Roma non subisce un fato, un anatema, una proscrizione dall’attualità. Per ragioni diverse, insieme economiche, sociali e geopolitiche, Milano è risultata dagli anni Novanta in avanti un terreno senza dubbio più favorevole al mercato (tanto da giustificare la sua posizione di terminale del sistema dell’arte internazionale) e al mecenatismo privato, e dunque una meta più attraente per gli artisti più giovani. Ma se si passa a esaminare altri fattori il discorso cambia ancora. La capitale è ormai da un quindicennio l’epicentro di una politica di segno nuovo che se ha come obiettivo primario, secondo quanto già avvenuto a Parigi o a Londra, quello di incrementare il turismo e i “consumi” culturali (il MACRO, le Scuderie del Quirinale, il Palazzo delle Esposizioni, il Parco della Musica, sono altrettanti esempi in questa direzione), e come conseguenza un sempre più evidente uso spettacolare della città, ha certamente anche il merito di proporre un diverso rapporto tra presente e passato, di stimolare l’uscita da quella immobile visione archeologica che è stata spesso a torto identificata con la sensibilità “romana”. In questo senso, la creazione di una direzione ministeriale dedicata all’arte contemporanea (DARC) e la fondazione di un grande museo come il MAXXI sono eventi destinati a mutare, ci si augura, in maniera positiva e permanente lo scenario della produzione, dello studio, della valorizzazione della creazione artistica più recente del nostro paese.
L’attività di spazi indipendenti, non profit, così come la presenza delle accademie straniere, è stato un altro fattore chiave nel ristabilire in questi anni a Roma termini di confronto aggiornati; a un’istituzione storica come Zerynthia (e alla sua più recente incarnazione, RAM/Sound Art Museum), a lungo uno dei pochi osservatori aperti alla scena internazionale, si sono affiancati più di recente alcuni spazi indipendenti dotati ognuno di una propria fisionomia — dalla Fondazione Adriano Olivetti, che ha inaugurato una nuova attenzione nei confronti dell’arte attuale, a Fondazione Volume!, con il suo approccio eclettico, sino a 1:1 projects, un interessante esperimento di autogestione animato da un gruppo di giovani curatori. Proprio questa è in effetti una delle novità più promettenti che Roma abbia offerto in questi ultimissimi anni: la crescita di una generazione di critici che per formazione, apertura mentale, esperienza, sensibilità, appare pienamente integrata in una dimensione internazionale ma che ha scelto di mettersi in gioco e agire su un terreno spesso impervio come quello romano; il caso di Nero, un free magazine in cui si sviluppa un serrato dialogo tra parola e immagine, non fa che confermare questa ipotesi.
Culturalmente, la forza di Roma è sempre stata la sua dimensione meticcia, impastata di antichità e di moderno, di apertura e riflessività, e anche la sua sensibilità onnivora, imprevedibile, trasversale nei gusti, nelle predilezioni, nei campi di attività. Il cinema, la letteratura, il teatro, il tessuto storico e le urgenze politiche sono sempre stati un terreno di confronto e di incontro per gli artisti che si stabilivano nella città, la ragione di un’attrazione che occorre oggi ritrovare e rinnovare. È questa la dimensione che il trionfo del mercato tende a far dimenticare, e ciò di cui invece Roma, come Milano e l’Italia in genere, torna a prendere coscienza in questi anni: la necessità per artisti, critici, curatori di un radicamento, di una presa di responsabilità reale, di una impietosa lucidità su se stessi e sul proprio spazio sociale, come premessa per un dialogo senza riserve, e senza complessi, con la vertiginosa varietà di esperienze del mondo contemporaneo.