Appare appropriata la scelta di allestire a Venezia una mostra dedicata a Rousseau il Doganiere. La città immaginifica e teatrale per eccellenza, porta e porto di quell’Europa che si rivolge all’Oriente, mette in scena uno dei casi più affascinanti nella storia della pittura.
L’analfabetismo visionario di Henri Rousseau irruppe nella platea parigina agli esordi del Novecento, ponendo una questione critica ed estetica destinata a mutare il corso dell’arte e con esso anche un certo immaginario collettivo. Seppure inizialmente non compresa dai cattedratici e dall’accademia, la sua pittura semplificata, antiprospettica e sognata iniziò a riscuotere ammirazione da parte di quegli artisti che stavano cercando nuove dimensioni al visibile.
Dovettero essere alcuni dipinti secenteschi, che illustravano il Nuovo Mondo e le lussureggianti vegetazioni delle Americhe, a suggestionare la fantasia di un modesto impiegato delle gabellerie francesi, che iniziò a dipingere senza passare da scuole o botteghe, quasi per occupare il tempo che il lavoro gli concedeva. Riuscì da solo a scoprire che non era necessario assecondare il verosimile per narrare il mondo, che era possibile tradurre in pittura la forza simbolica delle carte da gioco, l’efficacia immediata delle illustrazioni popolari. Forse vide qualche opera polinesiana di Paul Gauguin, ma arrivò per proprio tragitto a quella sintesi cromatica e cartacea che fa dei suoi quadri un mirabile collage di ritagli, affastellati sul primo piano di una mente solo in apparenza ingenua.
Come in tutte le mitologie che si rispettino ci volle anche un efficace soprannome per fornire una cornice adeguata al personaggio e il sostantivo di “Doganiere” riesce ancora oggi a evocare frontiere e spedizioni, esplorazioni e viaggi che il sedentario Rousseau non fece mai. Una Guyana postale che assomigliava al paradiso terrestre immaginato da un bambino.
Le giungle domestiche di Henri dispiegano un ventaglio di foglie, un repertorio di geometrie botaniche che sembra nato per decorare un fondale da pionieri della fotografia turistica. Un esotismo fatto in casa che riesce a entrare al centro dei più reconditi sogni di ognuno di noi. Attraverso uno stile da teatro dei burattini Rousseau allestì una inedita e perfetta scatola cranica, che nemmeno i più colti sperimentatori erano riusciti a elaborare.
Henri Julien Félix Rousseau detto il Doganiere, scritto per intero il nome stesso assomiglia a una delle sue tele affastellate di fogliame e animali tropicali, ricche di tutte le sfumature del verde e dominate da un horror vacui che diverrà, suo malgrado, un modello per un’intera corrente dell’arte novecentesca. La classificazione estetica di naïf è cosa postuma per il pittore francese e le derive del genere, spesso posticce e fasulle, non vanno a intaccare la primogenitura che resta un forte e potente richiamo alle origini dell’immaginazione.
Ora, a distanza di un secolo, sappiamo che anche senza le elucubrazioni del cubismo, senza le teorie dell’astrazione, un artista della domenica riuscì a scardinare altrettanti limiti linguistici nella complessa grammatica della pittura.