La complessa impresa d’inventariare le infinite forme di archivio adottate dagli artisti negli ultimi vent’anni è il fulcro de “L’Institut des archives sauvages”, in mostra presso il Centro d’Arte Contemporanea Villa Arson di Nizza fino a fine maggio. Frutto di un progetto di ricerca accademico sulle pratiche artistiche dell’archivio, e curata da Jean-Michel Baconnier, Christophe Kihm, Eric Mangion, Florence Ostende e Marie Sacconi, la mostra riunisce le opere di una trentina di artisti accomunati dall’impiego di sistemi di archiviazione del tutto personali che rompono gli argini di quello che più comunemente s’intende per archivio, ovvero un sistema di classificazione che raccoglie, inventaria e conserva atti e documenti e ne assicura la fruibilità. Già nel 2008, la mostra “Archive Fever: Uses of the Document in Contemporary Art”, curata da Okwui Enwezor all’International Center of Photography di New York gettò luce sul tema, focalizzandosi in particolare sull’uso del film e della fotografia. Qui sono i molteplici modi di archiviare a essere presi in esame. L’artista Ian Simms inventa un registro creando, con i fondi di un archivio di un’associazione di lavoratori andato perduto, un wall painting su scala reale il cui motivo ordinato e quasi ripetitivo è appunto il materiale che ne rimane. Materiale che nell’installazione di Mike Kelley — l’ufficio di cui disponeva quando insegnava alla Cal Arts di Los Angeles — è lasciato incustodito e disordinato al suolo senza traccia alcuna di catalogazione evidenziando il carattere perverso dell’archivio.
Interesse sul quale si muove l’intervento del collettivo Abake che trasforma lo spazio dedicato solitamente alla mediazione e alla documentazione in un’associazione non profit che si occupa di costituire una collezione degli errori legata alle ricerche dell’“Institut des archives sauvages”. Se la mostra ci dice molto sulle varietà di tecniche e proposte, poco sappiamo invece sul criterio della selezione degli artisti.