“Our white rectangle is not ‘nothing at all’.
In fact, it is, in the end, all we have.
That is one of the limits of the art of film”
Hollis Frampton, A Lecture, 1968
Monocromo reloaded
Il monocromo non ha segreti per noi. Spingendo agli estremi le tendenze più rivoluzionarie della prima metà del XX secolo, il monocromo rappresenta la spina dorsale dell’astrazione pittorica, senza dubbio la forma più emblematica della vicenda modernista. Del monocromo conosciamo le origini, le opere chiave, le occasioni espositive, la ricezione, lo sviluppo storico, l’agenda e i messaggi veicolati, gli scritti programmatici degli artisti, così come il declino e l’esaurimento una volta venute meno le condizioni storiche che ne hanno segnato l’emergenza. Il monocromo è stato protagonista di mostre coraggiose (esporre nient’altro che monocromi è un azzardo per un museo) come “La couleur seule. L’expérience du monochrome” di Lione (1988), così come di studi ben documentati come quello di Denys Riout (La peinture monochrome. Histoire et archéologie d’un genre, 1996).
In grande sintesi, una delle peculiarità del monocromo è di aver conosciuto due distinte occorrenze storiche: quella delle avanguardie e quella del dopoguerra (da Yves Klein agli espressionisti astratti alla Minimal Art e così via). Misurare le relazioni che intercorrono tra le due non è facile. Artisti come Rodchenko si erano serviti del monocromo per dichiarare la fine della pittura e la sua ultima riduzione ai colori puri, senza più significati trascendentali né associazioni psicologiche o spirituali. Cosa mai potevano aggiungere gli artisti degli anni Cinquanta e Sessanta? La neo-avanguardia fu quindi sottovalutata e sostanzialmente incompresa, ridotta a una mera riproduzione dell’originale. Una rottura con la tradizione ripetuta una seconda volta che aveva avuto, come conseguenza, quella d’istituzionalizzare quel gesto originale ed eversivo, di aver contribuito insomma a trasformare l’avanguardia in un’arte da museo. Criticando questo parti pris proprio tra gli altri di Peter Bürger (Teoria dell’avanguardia), Benjamin Buchloh è tornato a riflettere sull’incontro della produzione pittorica con l’industria culturale tipico delle neo-avanguardie, opponendo al concetto di autenticità quello di serialità e di ripetizione, all’esperienza auratica dell’opera d’arte il modello del readymade e la demistificazione dell’esperienza estetica.
Ci sono tuttavia altre ragioni per riconsiderare il secondo tempo del monocromo, ad esempio la necessità di sradicare l’idea dominante, propria della storia dell’arte, secondo cui il monocromo non è altro che un sottogenere della pittura, al pari del paesaggio o della natura morta, del ritratto o del nudo. Nello specifico, questa lettura ha impedito di considerare i rapporti tra il monocromo e il cinema. Ora, quale affinità vi sarà mai tra la superficie più iconoclasta che la storia della pittura abbia concepito e l’abilità del cinema a mettere in immagine le storie più stravaganti, tra la spinta alla sottrazione, al venir meno, al silenzio da una parte e la spinta a combinare elementi eterogenei quali suoni e immagini in movimento dall’altra? Nondimeno, la storia del monocromo pittorico corre parallela a quella dello schermo bianco della proiezione cinematografica. Non solo, queste due figure si sono incontrate diverse volte, dando vita a quello che, faute de mieux, chiamerò monocromo proiettato.
Del cinema senza attori. Malevič
Cominciamo — come potrebbe essere altrimenti? — da Malevič . Un caso cruciale in quanto vive in un periodo in cui i rapporti tra pittura e cinema sono ancora sottoposti al sistema delle belle arti, in un mondo che non ha ancora pienamente realizzato la rivoluzione dello sguardo di cui il cinema era portatore — quella dinamite dei decimi di secondo che manda a pezzi il mondo, secondo l’espressione di Walter Benjamin.
Da una ventina d’anni è in corso una profonda revisione dei quadrati neri e bianchi del pittore suprematista. Per lo più sono ancora considerati, non solo nei manuali scolastici, come i primissimi dipinti astratti o — in modo più sottile che tradisce la formazione e l’orizzonte d’attese dei nostri storici dell’arte — come icone astratte del XX secolo. Ma alcune studiose di Malevič quali Alexandra Shatskikh, Oksana Bulgakowa e Margarita Tupitsyn concordano ormai nel riconoscere l’influenza che lo schermo cinematografico ha esercitato su questi dipinti aniconici. Questi non sono, o meglio non funzionano più, come superfici pittoriche ma come schermi; è il caso, ad esempio, del quadrato nero animato dai raggi di luce nella scenografia dello spettacolo teatrale Vittoria sul sole (1913).
Parallelamente ci si è rivolti ai quattro scritti che Malevič ha consacrato al cinema negli anni venti e in cui non esita a criticare i film di Ejzenštejn (che gli rispose per le rime) per il loro residuo pittorialista, per quell’insistenza sui primi piani dei volti degli attori. Un’inclinazione lontana da quel cinema “non-obiettivo” — corrispettivo della pittura post-cubista — nel cui solco Malevič inscriveva la sua produzione, tesa a polverizzare gli oggetti residui della realtà.
Ignorata in Unione Sovietica, quest’intuizione trovò una prima realizzazione con Hans Richter, il cui ruolo è cruciale. Installati nel 2010 nelle stesse sale della retrospettiva su Mondrian al Pompidou di Parigi, i suoi film sono uno dei prototipi del monocromo proiettato. Malevič incontrò Richter a Berlino nel 1927 e restò così colpito da abbozzare poco dopo la sceneggiatura per un film i cui protagonisti non erano attori ma forme geometriche (quadrati, cerchi, croci, rettangoli sfumati). Programmatico il titolo: Un film artistico e scientifico: la pittura e i problemi dell’approccio architettonico al nuovo sistema classico architettonico. Sebbene Malevič non lo realizzò mai e il progetto, scomparso dalla circolazione, riemerse solo negli anni Cinquanta, ci spinge a riconsiderare il ruolo che le immagini in movimento hanno svolto in quella parabola storica che va dall’Impressionismo al Suprematismo. Nello stesso solco s’inscrivono altre opere come la Storia suprematista di due quadrati, un capolavoro avanguardista di graphic design realizzato da El Lissitzky nel 1920 (e pubblicato nel 1922 da Van Doesburg). Ambientata in un cerchio rosso (la terra), racconta la storia simbolica di un quadrato rosso e uno nero in lotta contro il caos.
Il monocromo proiettato è impensabile senza il pieno raggiungimento di quel cinema non-oggettivo e senza attori vagheggiato da Malevič. Curiosamente, questa tendenza fu impugnata con intenti anti-modernisti da T.W. Adorno, che rimproverava al cinema il suo realismo fotografico e la resistenza a sciogliere totalmente il suo residuo rappresentativo.
Dello schermo cromatico. Nam June Paik
Azzardo una prima definizione: il monocromo proiettato si produce all’intersezione tra un monocromo che ha abbandonato il campo esclusivo della pittura e un cinema che ha abbandonato quello della figurazione. Riguardo al primo tempo della storia del monocromo, i nomi di Malevič e Richter s’impongono. Ma è nel secondo tempo — che va grosso modo dal secondo dopoguerra in poi con un’apice tra gli anni Sessanta e Settanta, in controtendenza rispetto all’accelerazione ipertrofica nella circolazione dell’informazione e della comunicazione — che le sue manifestazioni si moltiplicano. Il lavoro di Nam June Paik s’impone, da Zen for Film (1964) a TV-Buddha (1974), fino ai tubi catodici della televisione che emanano luce e producono una sorta di pittorialismo smaterializzato. Questo trova una brillante descrizione in un testo del 1969, Versatile Color TV Synthesizer. Traducendo impulsi elettrici in segnali ottici, lo schermo televisivo viene modellato:
as precisely as Leonardo
as freely as Picasso
as colourfully as Renoir
as profoundly as Mondrian
as violently as Pollock and
as lyrically as Jasper Johns.
Poche righe che mostrano bene la necessità di affinare i nostri strumenti d’analisi, all’altezza di quelli della storia dell’arte che permettono di spiegare, ad esempio, perché un monocromo di Robert Ryman non è un monocromo di Olivier Mosset. Finché storici dell’arte e storici del cinema lavoreranno ognuno per conto proprio, secondo un’agenda propria alla loro disciplina e solo a quella, questo salto qualitativo non sarà possibile. Al proposito mi viene in mente un aneddoto sulla critica americana Annette Michelson: nel 1974, doveva scegliere un’immagine emblematica di un regista indipendente contemporaneo per la copertina di un libro. Qualcuno le suggerì che uno schermo vuoto avrebbe fatto l’affare, al ché Michelson rispose: “Ma quale schermo vuoto? Quello di Frampton, di Sharits, di Brakhage, di Breer, di Conrad o di Kubelka?”.
Del lento divenire del giallo. Tony Conrad
Già, Tony Conrad. Chissà se aveva letto il testo di Paik prima di realizzare i suoi Yellow Movies. Filmmaker sperimentale americano, pioniere della musica minimalista, membro attivo della scena musicale underground newyorkese assieme a LaMonte Young e John Cale, in campo cinematografico è conosciuto soprattuto per The Flicker (1965). Gli Yellow Movies furono esposti al Millennium, uno spazio alternativo multi-funzionale di New York, nel marzo 1973 per una sola giornata o, come scrive elegantemente l’artista, “the only time the Yellow Movies were shown in the twentieth century”. Riguardo al XXI secolo, dieci sono stati installati alla Biennale di Lyon nel 2005 (“Expérience de la durée”), altri a Colonia e New York nel 2007 e infine alla biennale veneziana del 2009. Queste occasioni espositive rivelano bene la complessità del lavoro di Conrad: la prima volta, nel 1973 sono esposti come schermi cinematografici, davanti a un pubblico composto in gran parte di registi d’avanguardia. Presero lo screening per un divertissement, a eccezione di Jonas Mekas, per cui l’installazione dei dipinti-schermi era meno una mostra di venti quadri che la proiezione simultanea di venti film. Tuttavia in seguito gli Yellow Movies sono stati esposti in istituzioni museali e davanti al pubblico dell’arte contemporanea, ovvero, sostanzialmente, come quadri.
Gli Yellow Movies sono costituiti da uno o più quadrati colorati trattenuti da una spessa cornice nera, simili a fotogrammi di una pellicola cinematografica. Una vicinanza suggerita tra l’altro dal fatto che a volte il supporto continua a terra, come una bobina srotolata. I quadrati sono ricoperti con una vernice per interni a buon mercato, che crea una patina brillante e biancastra che evolve lentamente col tempo. Conrad ha l’idea quando, disteso a letto, fissa il soffitto dipinto l’anno precedente e si rende conto che stava già ingiallendo. O quando scopre il segno fantasmatico lasciato da un mobile sul muro retrostante. Nella pittura a emulsione Conrad trova finalmente la proprietà di cui andava alla ricerca, un “environmental responsiveness over a very, very long scale of time”.
Ma quanto lentamente l’immagine dipinta cambiava colore? Molto lentamente, più di quanto Conrad immaginasse, al punto che quando gli Yellow Movies furono esposti nel 2007 dichiarò che erano “pretty white for movies that are supposed to turn yellow”. Non troppo lentamente pertanto, tenuto conto delle sue intenzioni, ovvero la produzione di un film che durasse una vita intera — un’estensione che copra precisamente la nostra esistenza, in cui arte e vita siano in scala 1:1. Chiamandoli “movies” e non “paintings”, Conrad insisteva sul movimento e sulla durata, non importa quanto impercettibile fosse la loro sensibilità alla luce. Recensendo gli Yellow Movies, un giornalista notò ironicamente che capitava di rado di recensire un film nel momento stesso in cui la sua prima proiezione era ancora in corso. Siamo agli antipodi delle sale cinematografiche americane fotografate da Hiroshi Sugimoto, in cui lo svolgimento del film viene catturato in un singolo scatto, con l’otturatore della macchina fotografica lasciato aperto per tutta la lunghezza del film. Sugimoto fu il primo a essere sorpreso dal risultato: di tutte le immagini del film, non restava altro che un’abbagliante emanazione di luce — nient’altro che un monocromo proiettato.
Gli Yellow Movies sono film realizzati senza macchina da presa, senza proiettore, senza pellicola ma non senza trama, sebbene elementare: la storia di un rettangolo (e non di due quadrati come in El Lissitzky) che diventa giallo. Solo che il processo d’ingiallimento — segno inequivocabile del trascorrere del tempo — è invisibile. O perlomeno è di natura più concettuale che cromatica. Non è accessibile all’esperienza, non su un piano fisico, non nel corso di una singola visita né della durata media di una mostra temporanea. Davanti all’accelerazione del tempo dei dispositivi tecnologici, gli Yellow Movies sfidano la nostra illusione di catturare, controllare, misurare, registrare, “customizzare” il tempo. E sfidano le definizioni legnose del monocromo e del cinema. Non dimentichiamo la rabbia di Conrad quando realizzò che, a Documenta 5 del 1972 cui era stato invitato, gli artisti erano ben esposti “in the palace” (ovvero al Friedericianum), mentre i filmmakers erano relegati nel cinema locale.
Della proiezione in quanto esposizione
La rabbia di Conrad è comprensibile: ancora negli anni Settanta s’ignorava che un monocromo proiettato è anzitutto un monocromo esposto. Installato in uno spazio museale, assume una presenza scultorea, che sia quella dello schermo stesso o del proiettore. Entrambe queste tipologie sono state sperimentate di recente da Rosa Barba. La prima, ad esempio, in Stating the Real Sublime (2009), costituita da un proiettore sospeso al soffitto dalla pellicola 16 mm, e da una proiezione di luce sul muro. La seconda in Is it a two-dimensional analogy of a metaphor? (2010), un’opera impressionante che richiederebbe una riflessione a parte, in cui è il museo stesso con la sua struttura oblunga (il Centre internationale “art paysage” dell’Ile Vassivière) a servire da proiettore. In uno sviluppo parossistico del film-scultura — con cui s’indicano generalmente i video degli anni Settanta di Richard Serra — l’architettura diventa un’immensa macchina di visione.
Risultato di un’ibridazione tra pittura e cinema, tra quadro e schermo, di una superficie che funziona all’interno di un dispositivo specifico, il monocromo proiettato mette direttamente in causa il ruolo dello spettatore, la sua agency (per utilizzare un termine difficilmente traducibile), piuttosto che la rappresentazione formale che si dispiega sulla superficie. Si compie così appieno quella rotazione che nessuno meglio di Ad Reinhard ha suggerito in una vignetta del 1946: un visitatore punta il dito contro un quadro astratto esclamando “Ha Ha. What does this represent?”; di colpo i segni dipinti prendono le fattezze di un volto malevolo prospiciente lo spazio della tela che si ritorce così contro lo spettatore: “What do you represent?” (How to Look At Modern Art). Non sorprenderà che nel suo ultimo anno di vita, il 1967, Reinhard confessava a Lucy Lippard l’intenzione di abbandonare la pittura per realizzare dei film, costruiti come una sequenza di fotogrammi monocromi e di effetti cromatici. Se gli mancò il tempo di abbozzare questo progetto, sono certo che farebbe parte integrante di una genealogia del monocromo proiettato che resta da scrivere.
In questa vi sarà spazio per le opere e gli scritti di Fernand Léger e Moholy-Nagy; per il cinema strutturale americano degli anni Settanta; per le atmosfere cromatiche che invadono lo spazio architettonico, da James Turrell a Veronica Jenssens; per un film come Blue (1993) di Derek Jarman; per il bianco accecante degli schermi traumatici di Alfredo Jaar (Lament of the images, 2002 o The Sound of Silence, 2006); per quelli che David Batchelor — autore del fortunato Cromofobia — ha chiamato “found monochromes”, mostrando a che punto lo spazio urbano delle nostre metropoli rigurgiti di monocromi. La lista è in continuo aggiornamento.