27 maggio 2013, sul treno Roma-Venezia, ammazzo il tempo studiando le fisionomie e gli stili degli altri passeggeri, cercando di individuare quelli che, come me, si stanno recando all’apertura della 55ma Biennale. Per tutta la durata del viaggio, oltre al dondolio della Freccia d’Argento, siamo accompagnati dal suono continuo del cliccare di una macchina fotografica; come in un film di Michelangelo Antonioni aggiornato, un giovane uomo asiatico non smette di documentare il suo arrivo in laguna: sicuramente un tipo da biennale, probabilmente alla sua prima volta. “La Biennale di Venezia è la madre di tutte le biennali” e “l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”: queste due frasi mi girano in testa suonando come lingua morta. All’inizio era la Biennale di Venezia, poi San Paolo, dopo la seconda guerra mondiale Documenta, che aiuta la Germania a superare il trauma dell’olocausto…infine arrivarono gli anni Novanta e il brulicare impazzito delle biennali d’arte contemporanea, soprattutto nei paesi emergenti dell’Est europeo e del Sud Est asiatico. Le tribù dell’arte incominciano a spostarsi di continente in continente con gaio spirito da gita scolastica. Il senso di queste grandi mostre onnicomprensive inizia a sfuggire, intanto l’audience dell’arte contemporanea si allarga, ma all’interno del sistema inizia il gioco al massacro: inclusione o esclusione, biennale o oblio. Per un giovane artista mettere in curriculum qualche presenza alle varie biennali diventa essenziale per trovare un riconoscimento di critica e un riscontro di mercato.
Massimiliano Gioni è un giovane curatore brillante e ambizioso, che ha iniziato la sua carriera proprio sulle pagine di Flash Art, e ha vissuto una lunga relazione intellettuale quasi simbiotica con uno degli artisti italiani più riconosciuti degli ultimi vent’anni, Maurizio Cattelan. Proprio con Maurizio e Ali Subotnik, Massimiliano ha curato, nel 2006, un’interessantissima Biennale di Berlino. Dal 2010 Gioni ha assunto la posizione di Associate Director al New Museum di New York ed è molto vicino al collezionista e magnate greco Dakis Joannou, uno dei finanziatori della Biennale. Si dice che quest’anno le date di inaugurazione della 55ma Biennale di Venezia siano state anticipate all’ultimo week end di maggio, per permettere poi ai nomadi di lusso, zoccolo duro del sistema dell’arte contemporanea, di spostarsi in seguito tutti nell’isola d’Idra per festeggiare Dakis e la sua roboante collezione anni Ottanta. Massimiliano abita il cuore del sistema ed è tutto quello che un giovane curatore in carriera vorrebbe essere, ma la mostra che ha fatto è stata definita la biennale degli outsider. Ho visto giovani colleghi della stessa generazione di Gioni aggirarsi in laguna con aria afflitta sentendosi un po’ depredati, artisti della stessa età entusiasti… tutto questo a significare che in qualche modo Massimiliano ha saputo bene interpretare lo Zeitgeist.
Io sono un po’ più anziana, appartengo all’ultima generazione d’italiani che ha creduto di poter cambiare il mondo, mi sono formata politicamente e culturalmente con il movimento del Settantasette, che dal Sessantotto aveva ereditato soprattutto uno slogan, “Immaginazione al potere”.
Arriviamo in una Venezia piovosa e dopo una breve sosta in albergo, il consueto balletto degli accrediti con un’esperienza decennale nel fare entrare gli amici che ne sono sprovvisti, facciamo il nostro ingresso all’Arsenale. La mostra si apre con Marino Auriti e il suo Palazzo Enciclopedico che da il titolo a tutta la Biennale. Marino Auriti fu un visionario che, emigrato negli Stati Uniti negli anni Venti, lavorò tutta la vita al progetto utopico di raccogliere in un edificio tutto il sapere umano. Penso ad altre grandi figure d’immigrati italiani che in epoche diverse, arrivati in quella che doveva essere la terra promessa, si rifugiarono nell’utopia, come Paolo Soleri che ha costruito la città di Arcosanti in Arizona o Simon Rodia che a Los Angeles ha costruito le Watts Towers.
Il colpo d’occhio sull’allestimento dell’Arsenale è più che soddisfacente, il migliore visto finora. Le officine dell’Arsenale sono uno spazio difficilissimo per installare opere, ma per questa edizione Massimiliano si è avvalso della sapiente collaborazione di Annabelle Selldorf, nota architetta dell’arte newyorchese, che ha disegnato e rinnovato tra l’altro gli spazi di David Zwirner, Barbara Gladstone e Hauser and Wirth. Selldorff tratta gli spazi dell’Arsenale neutralizzandoli e facendoli diventare una sorta di white box, reinterpretato attraverso un classicismo palladiano, con moduli ricorrenti di aperture e chiusure in stanze circolari.
In corrispondenza spaziale con il Palazzo Enciclopedico di Auriti, incontriamo Belinda, una scultura verticale, informe e vagamente spiraliforme di Roberto Cuoghi, che anticipa un po’ questa sensazione tra l’essere e il nulla che ci accompagnerà nella visita alla Biennale. Intorno al Palazzo Enciclopedico di Auriti lo spazio si apre in una forma circolare, dove sono esposte le belle foto in bianco e nero di J.D. Ojeikere, fotografo nigeriano nato degli anni Trenta, la cui opera omnia è costituita da una meticolosa catalogazione di acconciature delle donne nigeriane, durata quarant’anni. A questo punto il passo della mostra è segnato. L’artista come etnografo, scriveva e definiva Hal Foster nel 1996, mettendo in guardia sul pericolo di narcisismo e onnipotenza nascosti nell’alterizzazione del sé. Il curatore come etnografo dell’artista etnografo, dichiara Gioni nella sua Biennale.
Dagli anni Sessanta in poi, l’antropologia come studio dell’altro è progressivamente diventata lingua franca della storia dell’arte e della pratica artistica in generale.
Di questo è ben consapevole Camille Henrot con il video Grosse Fatigue, vincitore del Leone d’argento, in cui l’artista francese analizza in maniera poetica il processo di accumulazione della conoscenza e l’impossibilità di un sapere oggettivo. La mostra scorre con fluidità, i disegni di Lin Xue colpiscono per la perizia calligrafica, in una dimensione atemporale che rimanda all’automatismo surrealista. Ci si parano davanti i grossi blobs di Phyllida Barlow che pendono dal soffitto goffi e vagamente minacciosi. Il cuore mi si scalda alla vista di qualcosa di estremamente familiare, la stanza dedicata a Eugene Von Breunchenhein. Da molti anni uno dei suoi quadri di esplosioni psichedeliche è appeso nel mio salotto a South Pasadena; pochissimi sono gli eletti che arrivano sulle mie pareti, infatti ho delle resistenze psicologiche ad appendere quadri sui muri degli spazi che abito. Von Breunchenein, nato all’inizio del secolo scorso e morto negli anni Ottanta, è uno di quegli artisti che in vita ha avuto pochissimo riconoscimento, ma che ha continuato a lavorare senza sosta, spinto da magnifiche ossessioni libere dalla gogna del consenso, così come Auriti e molti altri degli artisti selezionati per questa edizione della Biennale. Ai grandi outsider Gioni ha affiancato artisti rappresentati da gallerie di punta in un’operazione onnivora, che legittima il tutto e niente.
Il discorso della catalogazione, dell’archivio e della costruzione di genealogie personali, è quasi implicito in qualsiasi pratica artistica di qualche interesse. Un artista è per definizione un collezionista d’immagini. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, The Mnemosyne Atlas di Aby Warburg del 1929 conosce una rinnovata fortuna critica.
Nel 1989 viene pubblicata la prima edizione di Atlas, l’impressionante raccolta d’immagini del pittore tedesco Gerhard Richter. Queste raccolte personali d’immagini influenzano pesantemente l’arte prodotta da artisti emergenti nei primi anni Novanta, per cui l’archivio, il materiale documentario, diventa uno stile nel discorso artistico e non più solo una fonte. Personalmente nel “Palazzo Enciclopedico” di Massimiliano ho sentito la mancanza di artisti che per primi hanno affrontato questo tipo di discorso agli inizi degli anni Novanta, come ad esempio Renée Green o Mark Dion.
Avanziamo verso il centro nelle gallerie dell’Arsenale per arrivare al cuore della mostra, la sezione curata da Massimiliano con Cindy Sherman. Avvicinandomi alle tre sculture figurative di Jimmy Durham, Paul McCarthy e John De Andrea, che aprono questa sezione, provo un sentimento perturbante di fronte a qualcosa di familiare eppure alieno. Massimiliano è un grande ammiratore del lavoro di Mike Kelley e a ragione, visto il contesto, avrebbe voluto includere nella mostra gli Harems, il lavoro forse più “personale” di Kelley. Negli Harems sono raccolti tutti gli oggetti collezionati dall’artista, dall’infanzia alla maturità, divisi in diciotto categorie: dalla collezione di minerali a quella di dischi. Il proprietario del lavoro, Kourush Larizadeh di Los Angeles, è stato molto legato a Mike a livello personale e infine non ha acconsentito al prestito. Gli Harems facevano parte della mostra “Uncanny” curata da Mike Kelley stesso, e riproposta nella sua versione più aggiornata alla Tate Liverpool nel 2004 e al Mumok di Vienna nello stesso anno. Il termine Uncanny in italiano si traduce con perturbante e fa riferimento a un concetto freudiano: perturbante è qualcosa che ci è familiare e ignoto allo stesso tempo. Massimiliano nella sua Biennale di Gwangju del 2010 aveva presentato una versione non autorizzata di Uncanny come omaggio, per altro non gradito, a Mike Kelley.
Che questa Biennale sia alla fine una storia di collezionismo? Che Massimiliano sia un collezionista che si nasconde tra le collezioni degli artisti? Si sa che il collezionismo è un meccanismo compulsivo. Il pezzo più importante per un collezionista è sempre quello mancante…
Poter vedere gli album, scovati da Cindy Sherman nei mercatini dell’usato, che raccontano le vite anonime della periferia americana, e costatare che siano stati inspirazione di uno dei lavori più iconici della contemporaneità è sicuramente un’esperienza unica e autentica per i visitatori di questa Biennale. Forti, emotivamente accattivanti e rappresentativi del lavoro dell’artista sono i lavori di Rosemarie Trockel sempre nella stessa sezione. Proseguendo, il cuore mi si stringe di fronte al lavoro di Shinichi Sawada e un senso di disagio mi sale allo stomaco leggendo l’incipit dell’etichetta che l’accompagna: “Affetto da una grave forma di autismo, Shinichi Sawada, parla a stento…”. La sanità mentale, l’equilibrio psicologico non sono parametri attraverso cui normalmente si giudica il lavoro di un artista. Gli esempi di artisti affermati affetti da grossi disagi psichici sono molteplici, ma le loro etichette non recitano, ad esempio “Affetto da bipolarismo da molti anni si è affidato a cure psichiche e fa uso regolare di psicofarmaci” oppure “Una depressione cronica lo accompagna dalla nascita e l’ha portato negli anni ad auto-medicarsi con vodka e cocaina” tanto per fare degli esempi. A questo punto, a partire dal suo centro, la mostra inizia a sfaldarsi e frammentarsi, indipendentemente dalla qualità dei lavori esposti. Il video di Mark Leckey riprende la posizione curatoriale, il ritorno al magico in epoca post-tecnologica, attraverso la frammentazione d’informazioni e conoscenza.
Nell’ultima parte della mostra, Massimiliano invoca la benedizione dei padri, Dieter Roth, Walter De Maria e Bruce Nauman. Purtroppo il ricorso a una genealogia maschile non basta, non si capisce perché questi artisti siano lì, a parte che per la loro indiscutibile grandezza, ma forse proprio per questo, chiamati a legittimare la situazione… e così, scivolone sul finale.
E con un’infilata di altri tre grandi padri si apre l’altra sezione della mostra nel Padiglione Centrale dei Giardini.
Ecco il Libro rosso, di Carl Jung, grande padre della psicoterapia moderna. Un’opera a lungo resa inaccessibile dagli eredi. Jung iniziò la compilazione di questo diario dell’inconscio nel 1913, l’anno della sua rottura con Freud, in un momento in cui lui stesso temeva di essere sull’orlo della follia. Usciti dal cerchio magico del Libro rosso o Liber Novus come originariamente si chiamava, ci troviamo davanti al calco del volto di André Breton, padre del Surrealismo, realizzato da René Iché. Furono i surrealisti, un decennio dopo Paul Klee, a invocare il ricorso alla follia come mezzo per liberare il linguaggio delle convenzioni borghesi della logica e del pensiero lineare. Con il movimento surrealista si assiste alla rivalutazione del potenziale creativo racchiuso nelle espressioni artistiche dei folli. Niente di nuovo quindi sotto la pioggia, nelle giornate d’inaugurazione della 55ma Biennale.
Dopo è il momento di Rudolph Steiner e i suoi disegni/lavagna. Steiner, fondatore del movimento antroposofico, era un conferenziere ispirato e prolifico: si dice che tenesse conferenze a tutti inclusi il lattaio o l’idraulico che gli arrivavano in casa. Penso a Joseph Beyus che non è nella mostra. Nel Padiglione Centrale dei Giardini, eccezionali chicche come il colore dei cieli di KP Brehmer o i tarocchi di Aleister Crowley e Frieda Harris; scusate il salto temporale e stilistico, ma è ciò che accade nel Palazzo di Massimiliano, che ha costruito la sua cosmologia personale: super potere del curatore? Curatore di mostre per curare mondi. Inizio a sentirmi sopraffatta da tutti quei materiali.
Alla fine del giro resto con quell’impressione che si ha dopo una notte insonne passata a ricercare su Internet; non ci ricordiamo più da dove siamo partiti. È il sapere ai tempi del digitale, una mostra avida e bulimica, che salta molti passaggi.
I materiali interessanti e frammentati, i contenuti sono in qualche modo già acquisiti.
La Biennale di Massimiliano Gioni è in fondo un po’ retrò, eppure schizzata come un personaggio di Ryan Trecartin.