Massimiliano Gioni: Cominciamo dall’inizio, dalla tua prima mostra, nella quale avevi presentato un libro che elencava tutto ciò che avevi mangiato dal 1985 al 1993. Ho sempre pensato che le ragazze delle tue performance avessero qualcosa a che fare con quel libro: un’armata di sante anoressiche. Che relazione c’era fra le ragazze, la scrittura e il disegno?
Vanessa Beecroft: Forse il comune denominatore sono io. Nel libro c’è una componente visiva del cibo: i colori, le categorie degli alimenti e i commenti sugli stati d’animo. Non era stato concepito come opera ma si è sviluppato negli anni come personale ossessione, terminata il giorno in cui è stato esposto in una galleria. I disegni appartengono allo stesso periodo, privi di intenzione artistica e accomunati dalla stessa ossessione. Quando Giacinto Di Pietrantonio e Laura Cherubini mi invitano nel 1993 a esporre i disegni alla mostra di fine anno all’Accademia di Brera, decido di dattilografare in modo scientifico il libro del cibo in un volume a forma di mattone; idea che manca di una componente visiva più contemporanea dei disegni e del mattone. Così invito alla mostra le ragazze più belle dell’Accademia e le vesto con il mio guardaroba. E da pubblico speciale diventano il materiale di VB01, la mia prima performance. Agli occhi dei visitatori, le ragazze sono in quel momento il pubblico ideale per il libro e l’elemento pittorico delle regole che stanno scritte nel libro.
MG: Poi come sono cambiate le cose? Le prime ragazze sembravano uscite da Alice nel paese delle meraviglie. A poco a poco sono state soppiantate da modelle perfette ma in qualche modo ancora più trasparenti, diafane…
VB: Il lavoro, come doveva essere sin dall’inizio, è molto più vicino a quello attuale, e questo è dovuto a un incremento del budget delle performance e da un maggior sostegno da parte dei galleristi che mi rappresentano. Dalla necessità di usare parrucche per omologare le ragazze e renderle meno reali sono passata al lusso della scelta di ragazze con capelli veri, tutti dello stesso colore, o modelle professioniste, più facili da recuperare e usare come materiale. Le modelle professioniste comunque non costituiscono mai il cento per cento delle ragazze delle performance, ma sono sempre bilanciate da ragazze vere, per motivi realistici.
MG: Sono cambiati anche i titoli: dai riferimenti letterari sei passata a numeri più asettici con cui hai schedato tutte le performance.
VB: Ho finalmente capito che i titoli vanno usati solo quando sono necessari e che per sceglierli ci vuole un talento che io non ho, per cui li ho sostituiti con la numerazione del mio database molto più facile da memorizzare.
MG: Come scegli le ragazze?
VB: In base a somiglianze con ritratti familiari o immagini preferite, ma anche in base alle caratteristiche dello Stato in cui si svolge la performance o a esigenze formali. All’inizio raccoglievo le ragazze a una a una per strada, o incaricavo i musei di farlo per me, secondo istruzioni. Adesso scelgo le modelle tramite fotografie che il casting agent mi manda un mese prima dell’evento.
MG: Come funziona il casting?
VB: Il casting lo fa un agente basandosi sulle specificazioni della performance. Io seleziono le candidate in base alle fotografie e alle loro misure. I musei mi mandano un portfolio con il numero richiesto di fotografie delle ragazze. Fronte, fianco e ritratto, nude contro un muro bianco; immagini crude con nome, cognome e dati personali al fianco della pagina.
MG: Che cosa le accomuna?
VB: Altezza, dimensioni, età. E la specie. Molto spesso anche la razza e la provenienza.
MG: Ne parli come se fossero oggetti. Cosa sono per te queste ragazze?
VB: Materiale. Un materiale carico di “additional concept” e un materiale soggetto a cambiamenti propri, indipendenti dal mio lavoro, con caratteristiche specifiche che interferiscono con il lavoro o che lo completano. Un materiale usato pressoché allo stato puro.
MG: E i militari? Sono semplicemente un’altra forma di materiale?
VB: Il progetto con la Navy americana è un progetto speciale, parallelo al lavoro con le ragazze ma ispirato al potere che rappresenta. Il mio interesse nel coinvolgere formalmente i militari di un continente diverso dal mio e nel ricevere la loro approvazione a partecipare è di capire qual è il limite di rappresentazione e tolleranza che ha un artista. E poi dell’influenza delle regole nell’estetica.
MG: L’altro giorno, su una qualche rivista di moda, ho visto un servizio che era praticamente un plagio delle tue immagini: era come se la moda si riappropriasse del tuo sguardo, che a sua volta si è plasmato sulla fotografia di moda… Cosa ti affascina della moda?
VB: Della moda mi servo degli accessori e di certe idee. L’uso delle modelle e i limiti a cui vengono sottoposte sono un soggetto comune. La moda non mi interessa concettualmente ma la osservo, chiedo la collaborazione di designer che ammiro. Gli accessori di moda sono più fotogenici e vicini al mondo delle immagini degli oggetti ordinari.
MG: Come scegli ciò che devono indossare le ragazze?
VB: Mi sveglio una mattina e penso: 45 ragazze con stivali neri come la Gestapo a Vienna, 20 ragazze rosse come la regina Elisabetta I a Londra, 25 ragazze bianche e omosessuali a Los Angeles, mia sorella calendario Pirelli come multiplo. Poi sfoglio riviste, cerco gli accessori o chiedo aiuto a un consulente. Ciò che le modelle indossano è solo un elemento della composizione: 20 punti rossi, 15 beige, un monocromo, un policromo.
MG: Che cosa chiedi di fare alle ragazze?
VB: Distribuisco le ragazze nello spazio espositivo secondo una determinata configurazione. Studio la pianta dello spazio prima di pensare alla disposizione del gruppo; solitamente il gruppo ha una disposizione geometrica di tipo militare. Alle modelle sono date delle regole che devono seguire dall’inizio alla fine della performance. Le regole ammettono movimenti e la rottura della composizione, ma non il dialogo o l’interazione con il pubblico o tra le perfomer: non parlare, non sorridere, non muoverti teatralmente, non muoverti troppo lentamente, sii semplice, sii naturale, sii distaccata, non stabilire contatti con gli occhi, mantieni la tua posizione, non fate gli stessi movimenti allo stesso momento, alternate una posizione di riposo a una posizione di attenti, se devi andartene, fallo in silenzio, sii concentrata, non guardare nella macchina fotografica, resisti fino alla fine della performance, non toglierti le scarpe, non essere rigida, sii alta, non essere sexy, comportati come se nessuno fosse nella stanza, non rompere le regole, sei l’elemento essenziale della composizione, il tuo comportamento influenza quello delle altre, verso la fine ti puoi sdraiare, prima della fine stai in piedi dritta.
MG: C’è qualcosa di sadico nel modo in cui tratti le modelle, anche in questo elenco di regole. In fondo, tutto il tuo lavoro sembra una riflessione sul potere: il potere che eserciti sulle ragazze, il potere che la bellezza esercita su di noi, il potere che gli spettatori hanno sulle ragazze… Cos’è il potere per te?
VB: Ci sono diversi tipi di potere. Mi interessa il potere di influenzare l’opinione e la cultura, a costo di creare una rivoluzione.
MG: La geometria del potere si è fatta ancora più ovvia nelle performance con i militari. Sono corpi prodotti in serie, come le tue modelle. Che cosa lega questi due mondi?
VB: Le regole di comportamento su cui è basata la vita militare determinano un’estetica particolare. Mi interessano le regole di una composizione e la rottura delle regole di una composizione. L’esempio della rottura delle regole è rappresentato dalle performance con le ragazze. Le regole di un disegno politico: i militari e le regole nella genesi di una immagine: la performance nel mio lavoro.
MG: E come è avvenuto il passaggio dalle ragazze ai militari?
VB: Non è un passaggio, è semplicemente un progetto parallelo che informa il lavoro principale sulle ragazze attraverso regole di composizione. Le performance con le ragazze, paragonate alle performance coi militari, sembrano un Jackson Pollock vicino a un Donald Judd.
MG: Se penso al tuo lavoro, oltre che al potere penso a una specie di feticismo dello sguardo. Dove vuoi che guardi il pubblico durante le tue performance? Cosa vuoi che veda?
VB: Voglio che il pubblico guardi delle ragazze nude oggi con il riferimento artistico al nudo e alla bellezza del passato e sia costretto a riattualizzarlo. Che si imbarazzi o forzi i propri limiti. Che il pubblico applichi all’immagine uno sguardo generale e non voyeuristico; che perda lo sguardo intellettuale, lo sguardo innocente e lo sguardo personale, ma che tutti questi sguardi si sovrappongano e separino allo stesso tempo. La performance non va solo guardata ma è sufficiente prenderne atto; ha una certa durata ma il pubblico è libero di andarsene in ogni momento, come per un quadro appeso in un museo. Mi interessa la distanza che abbiamo dalle sculture greche una volta che hanno perso il loro colore e volgarità.
MG: Cosa vuoi che si veda invece nei tuoi disegni e nelle foto?
VB: I disegni sono lo spirito brutto delle ragazze, quello demente. Preferirei eliminarlo con il tempo. Le fotografie rispondono all’esigenza del museo, della collezione, della Storia, all’ambizione di lasciare una traccia del lavoro, presentabile non solo come documento ma come oggetto e immagine a sé stante.
MG: Continui a ripetere la parola immagine. Cosa cerchi nelle immagini?
VB: Unicità, non nel senso di non riproducibilità. E violenza, intesa in senso vago. Mi interessano immagini universali e drammatiche. Drammatica è anche una cosa demente, o ridicola, ma che genera pietà o simpatia, come la commedia o la tragedia.
MG: Dal diario che riporta i tuoi pasti al tuo matrimonio in mondo visione, l’autobiografia sembra tornare spesso nel tuo lavoro. Il tuo lavoro è autobiografico? Nel caso del tuo matrimonio, si tratta quasi di spettacolarizzare la tua vita privata: cos’è lo spettacolo per te?
VB: Non applico il concetto di personale o privato a me stessa, ma mi considero un’entità pubblica. Certi gesti o rituali privati sono temi principali della vita di tutti e diventano illustrazioni popolari. Comportamenti da intendere in modo dialettico o da guardare come si vuole. È dentro l’immagine che c’è il virus. L’interesse puramente personale non è soddisfacente se non va oltre il sé. Lo spettacolo è per me una still life, un’immagine unica e monumentale ma statica come un episodio solo e risultante di tutti i momenti significativi e non.
MG: C’è anche una forma di divismo e autocelebrazione nel tuo lavoro. È un aspetto che ti interessa affrontare? Per questo hai spesso lavorato con le riviste di moda, come per il calendario che hai progettato per tua sorella?
VB: Il calendario non è stato concepito per una rivista. i-D di Londra ha chiesto di pubblicare questo multiplo su invito del guest editor e fashion designer Raf Simmons. I media mi contattano e io li uso per ciò che mi servono. Il matrimonio è stato un progetto speciale concepito e realizzato con Vogue.
MG: Quanto importanti sono gli altri nel tuo lavoro? C’è sempre questo scontro tra la tua icona e il ruolo degli altri, che siano il pubblico, le ragazze, i militari, i diversi fotografi che di volta in volta coinvolgi nel tuo lavoro…
VB: Fondamentali. Gli altri in senso qualitativo, coloro che mi aiutano a realizzare una performance; e gli altri in senso quantitativo, che aiutano a costruirla fisicamente. Senza gli altri mi limiterei probabilmente a disegnare.
MG: È una forma di alleanza o una forma di sfruttamento?
VB: Nessuna delle due, è semplicemente un lavoro.