Quando i dipinti di John Currin vennero esposti per la prima volta da Andrea Rosen a New York nel 1990, il pubblico fu, secondo la gallerista, “disgustato e perplesso”, a eccezione di “una piccola società segreta di ammiratori”. Io non abitavo ancora a New York né conoscevo quel lavoro, ma se fossi stata presente sarei stata un membro convinto di quella società. Ero ancora studentessa a Londra, un’artista in erba che non si era ancora misurata con il dilemma del dipingere, pur avvertendo l’ignominia di essere una pittrice figurativa l’anno dopo “Freeze”. Chi continuava a dipingere era tacciato di ignoranza o di un ostinato rifiuto nel prendere nota del fatto che il mondo dell’arte era cambiato. Mi vergognavo del mio piacere nel dipingere, della mia predilezione per soggetti emotivamente carichi e del mio amore per i pittori defunti. Alla fine smisi: incapace di dare un buon motivo per farlo o solo per giustificarlo, mi congelai. Mi ci volle tempo per capire che, se non avevo una buona ragione per dipingere non ne avevo neanche una per non farlo. La pittura era vista come l’attività più indulgente verso se stessi, al limite dell’immoralità. Currin dice: “Il mondo dell’arte si sentiva così in colpa, imbarazzato, dopo il Neoespressionismo. La pittura era diventata una cosa ridicola, guardata con grande sospetto, per essere troppo inebriante e religiosa”. Adesso il pubblico dell’arte sembra pronto a fare un passo avanti. A New York, infatti, c’è un clima stimolante, ed è la prima volta che sento un’affinità con il lavoro realizzato da artisti della mia generazione come John Currin, Giles Lyon, Damian Loeb, Michael Bevilacqua, Matthew Ritchie, Rita Ackermann, Christian Schumann. La doppia mostra “Project Painting” dello scorso autunno (Basilico Fine Arts e Lehmann Maupin) rivolgeva uno sguardo sulla pittura di oggi, soprattutto a New York, dimostrando come sia viva e piena di energie. Peter Schjeldahl, nella sua recensione per il Village Voice sulla mostra di Ackermann da Andrea Rosen, dichiara: “L’ironia è out. Il senso dell’umorismo è in. La sincerità è un dato di fatto e non c’è molto da preoccuparsi”. È anche qualcosa che non chiede scusa. Personale. Edonistico e sexy. Abbraccia l’artificio. Crea dei documentari fantastici in cui tutto può accadere. È ligio alla disciplina ma non nostalgico. Per citare Matthew Ritchie — un giovane pittore figurativo che sta raccogliendo molte attenzioni — “Il lavoro di Elizabeth Peyton suggerisce che è possibile innamorarsi di nuovo. Può essere rischioso, ma è possibile”. Ritchie individua come caratteristiche della nuova pittura un senso di generosità e di non chiusura, il porsi domande. “Appropriazione è una parola morta”, dice Damien Loeb.“Noi non stiamo saccheggiando: ci hanno sottoposti a un’alimentazione forzata”. “Non stiamo assaggiando, stiamo digerendo”, aggiunge Giles Lyon, definendo l’appropriazione “una strada senza uscita, una cosa nichilista”. Ritchie prosegue: “Negli anni Ottanta gli artisti stavano giocando una specie di gioco terminale. Ora sembra esserci un numero qualunque di esiti possibili, o nessun esito. La Storia va avanti: gli artisti pongono delle domande molto diverse, e c’è un intero mondo di esiti diversi”. Il che si può dire non solo della pittura. Questi pittori non si sentono in opposizione ad artisti come Matthew Barney o Jeff Koons, benché sembri che la pittura sia al momento in una posizione felice. Ritengo che uno dei vantaggi che abbiamo è la distanza da ogni grande movimento della storia della pittura. Noi siamo la prima generazione a non avere figure titaniche che ci coprono con le loro ombre; quello con cui dobbiamo confrontarci, rispetto al passato recente, sono i resti dei ponti bruciati negli anni Ottanta.
La morte di de Kooning può avere una qualche relazione col fatto che questa influenza è molto più visibile nella pittura odierna che in qualunque altra epoca. La morte di Bacon ha reso più facile (per me) dipingere solo i soggetti che valgano la pena di essere dipinti: nascita, copulazione e naturalmente morte. Forse il fatto che Bacon sia morto solo pochi anni fa, e che Freud, Auerbach e Kossoff siano tutti attivi a Londra, è la ragione per cui in questa città è più difficile essere pittori. Come “pittori di figure” ci si sente avvolti dall’ombra di un recente, limaccioso realismo: il tarlo dell’eredità di Bacon. Questo non per dire che non ci sia stata negli ultimi anni della buona pittura negli Stati Uniti (c’è sempre stato lo zoccolo duro di Johns, Close, Katz e Winters che hanno mantenuto vivo il gioco), ma l’Espressionismo Astratto, la Pop Art e il Minimalismo sembrano lontanissimi, e buona parte della pittura degli anni Ottanta è così lontana quanto a sensibilità che è facile dimenticarsene. Penso che nessuno dei giovani pittori di cui parlo si senta appertenente a un movimento, ma che ci sia un senso comune di sorpresa, perché non ci si aspettava una fine così piena di salute per questo secolo.Nonostante le numerose differenze, ci si potrebbe dividere, a grandi linee, in base al modo in cui ci misuriamo con lo spazio pittorico. Lyon, Ritchie e io siamo vicini agli spazi aperti dall’Espressionismo Astratto, così come a quelli della pittura barocca. Currin e Loeb non lo sono. Bevilacqua è un caso a sé. C’è una sua citazione che potrebbe descriverci tutti: “Sto prendendo quello che ho imparato al liceo portandolo a un altro livello”. Loeb dice di non essere un pittore, “Io mi limito a usare la pittura per dire quello che ho da dire, perché so dipingere. Per me è il modo più semplice di comunicare”. Ho chiesto a Currin, Loeb, Lyon e Ritchie quale fosse stato per loro l’artista più significativo. Sia Lyon che Ritchie hanno nominato Guston come chi probabilmente li aveva influenzati di più. Currin dice che a scuola faceva degli pseudo-de Kooning. Loeb tralascia quasi del tutto gli artisti di questo secolo, ma cita Degas e Ingres, e Bacon: “Amo Bacon. Vederlo da giovane ti faceva venire una paura fottuta. Era come un mostro che non potevi distinguere e non potevi mettere da parte. Ho visto de Kooning e non mi ha detto niente. Non so come chi non sa niente di arte possa relazionarsi con questo. I critici scrivono sempre come se fosse scontato che l’arte sia un dialogo con altra arte. Come un cane con un pedigree troppo lungo”. L’arte di Currin dialoga con altra arte ma va ben oltre tutto ciò. Cita i film di Fassbinder: l’uso della lentezza e il rischio della noia, uno sfondo e una figura, con “un trucco troppo pesante per l’opacità della situazione”. Descrive la fotografia come la passione di una notte rispetto al lungo coinvolgimento, quasi un matrimonio con la pittura, ed estende la metafora quando chiama i miei dipinti “promiscui”. Io vedo sia amore che lussuria nei suoi quadri, tenere scene che evocano i fantasmi di Fragonard, Van Gogh e insieme di un locale da spogliarello come il Baby Doll Lounge. Currin è superficiale e profondo. Autentico e falso. C’entrano il desiderio, il possesso e l’incapacità di possedere, l’espressione di quell’avido poppare dall’apparenza, e l’amore, e il sentimento, e come renderli più veri e più falsi, e persino più intimi, pur sapendo che non sarà mai vicino abbastanza.