Fino a pochi mesi fa, alla domanda “chi sono le artiste femministe in Italia?” molti fra gli addetti ai lavori dell’arte sarebbero riusciti a nominarne una manciata al massimo. Una volta ho sentito un gallerista dire che non lavora con artiste perché non ne conosce di brave. Come dargli torto? La rappresentazione delle donne artiste nelle mostre istituzionali italiane oscilla attorno al 20%. Fino al 2017 il record all’asta di un’opera d’arte contemporanea di una donna l’ha ottenuto Oggetto Ottico Dinamico (1964) di Dadamaino, venduto per € 76.800. Questa cifra è irrilevante paragonata ai € 2.576.250 pagati per Sofa (1968) di Domenico Gnoli lo stesso anno.i Questi dati sconcertanti riflettono il vuoto d’informazione attorno a centinaia di artiste che hanno continuato a lavorare, seppure marginalizzate dalla storia e dal mercato in Italia. La mostra “Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia”, nasce grazie all’iniziativa di Raffaella Perna e Marco Scotini i quali, anche grazie a una rete di curatrici e ricercatrici, sono riusciti a creare un mosaico complesso e sfaccettato: il punto di partenza per una narrazione dell’arte femminista del nostro paese. L’allestimento è ampio e diversificato – fedele all’idea di presentare come il femminismo fosse piuttosto un insieme di femminismi eterogenei. Un fondamentale punto di partenza della mostra è la 38a Biennale di Venezia del 1978, edizione che dedica una retrospettiva a Ketty La Rocca, scomparsa prematuramente due anni prima. Inoltre, Mirella Bentivoglio organizza la paradigmatica mostra “Materializzazione del Linguaggio” ai Magazzini del Sale, che ospita anche mostre del Gruppo Femminista Immagine Varese e del gruppo Donne/Immagine/Creatività di Napoli. Mentre all’epoca era lampante la marginalizzazione delle artiste donne collocate al di fuori dei Giardini della Biennale, in “Il Soggetto Imprevisto” la storia di queste donne viene riproposta come punto nevralgico di una narrativa da riscrivere e celebrare. Da una simbolica ricreazione di “Materializzazione del Linguaggio”, cuore del percorso espositivo, si diramano sale che approfondiscono l’opera di artiste italiane e internazionali che si incontrarono in quel fatidico 1978. Tra queste l’installazione Mail Art di Betty Danon Io & Gli Altri (1979). L’opera è collettiva e composta di oltre 200 cartoncini appesi con fili di nailon dal soffitto – un allestimento che ricrea l’originale del 1979 alla Galleria Apollinarie. Ciascun cartoncino presenta l’intervento di un artista internazionale a cui Danon aveva inviato per posta un biglietto stampato con un doppio pentagramma disegnato a mano con l’invito a intervenirvi. L’opera testimonia l’ampiezza del circuito di Mail Art internazionale a cui partecipavano anche artiste quali Bentivoglio, Maria Lai, Amelia Etlinger e Tomaso Binga. Vicino all’installazione di Danon, le opere di Diane Bond si presentano come pudica biancheria intima appesa ad asciugare, che invece è decorata con merletti, sete e dipinta con immagini quasi fumettistiche raffiguranti genitali e masturbazioni. Bond lavora a queste opere mentre aderisce al gruppo femminista milanese Le Pezze, che nel 1978 pubblica il libro Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo, un’opera collettiva e sperimentale, “autoritratto del femminile.”ii Protagonista è anche Ketty La Rocca, a cui vengono dedicate più sale con opere inedite – tra cui il suo Autoritratto (1972–73) –, in memoria della retrospettiva dedicatale a Venezia. Risultano sempre più contemporanei i suoi collage che accostano immagini di donne ritagliate da giornali e rotocalchi con frasi provocatorie. Come i memes attuali, quei collage parodizzano gli stereotipi di una visione tradizionalista del femminile. Infine, Alfabetiere murale (1976) di Binga punteggia la mostra quale immagine indicativa di una vera e propria materializzazione corporea del linguaggio. In quest’opera l’artista viene fotografata da Verita Monselles mentre si piega innaturalmente per comporre e per conformarsi all’alfabeto maschile.iii Il fil rouge che collega le opere sembra risiedere nella volontà di mettere in discussione le strutture del linguaggio per distaccarlo da una tradizione patriarcale e logo-centrica, in cui il soggetto implicito è sempre maschile.
La mostra, scrive Scotini, è “un’indagine archeologica del più ampio dibattito contemporaneo sul concetto di genere.”iv È stata senz’altro un’impresa archeologica, in quanto riporta alla luce molteplici “archivi ribelli”v di artiste le cui opere sono state omesse o deliberatamente rimosse dalle narrative storico-artistiche ufficiali. Il maggiore contributo della mostra, però, è quello di delineare finalmente un campo d’indagine che possa costituire le basi per una genealogia della storia femminile e femminista italiana. Una storia, che oggi sostiene la pluralità delle identità sessuali al di fuori del binario maschile/femminile. Perna denota come movimenti internazionali quali “#metoo” hanno avuto importanti “ricadute” sulla cultura italiana.vi Riconosce anche i movimenti nostrani “Se non ora quando” e “Non una di meno” che scendono in piazza per combattere la disparità salariale, per proteggere il diritto di famiglia e il diritto all’aborto (ottenuto appunto nel 1978) tra molte altre cause, comuni con i gruppi attivisti degli anni Settanta come Rivolta Femminile, Gruppo del Mercoledì, Cooperativa Beato Angelico, Gruppo XXX, oltre a quelli già nominati. Oggi, ai vertici del governo ci sono magistrati che propongono emendamenti quali il Disegno di Legge n. 735 (noto come ddl Pillon), che avrebbero un gravissimo impatto sulla vita delle donne italiane, il 50% delle quali non ha un impiego ufficiale al di fuori di quello domestico.vii In altre parole, il futuro che viene immaginato sembra puntare a un concetto ristretto di famiglia cosiddetta tradizionale.viii In questo contesto politico, il soggetto imprevisto che la mostra mette in luce attiva una narrazione che racconta l’operato delle donne, e che consolida le basi storiche di un futuro aperto ad accogliere la diversità. Infatti, il titolo della mostra invoca l’idea di una soggettività, che oppone resistenza alle strutture della società odierna. Carla Lonzi, grande teorica i cui testi e contributi sono valorizzati nella mostra, scrive che il soggetto imprevisto è ciò a cui si arriva quando si evade la dialettica servo-padrone che mantiene le donne (e tutte le soggettività non previste dalla società eteronormativa) in una condizione subalterna rispetto all’uomo. Lonzi vede la possibilità di cambiare completamente lo status quo prendendo coscienza della propria imprevedibilità. Usando questo concetto come punto di partenza metodologico, la mostra apre un campo d’indagine finora rimasto in secondo piano e, raccontando i progetti politici intrapresi dalle eroine di quei decenni, ci svela come molte delle battaglie che combattiamo oggi siano ancora la continuazione degli stessi.