Stefano Graziani: Ad un certo punto dobbiamo assolutamente iniziare a scrivere, mi piacerebbe immaginare una conversazione a più voci su alcuni argomenti che riguardano il linguaggio della fotografia. Non so se commenteremo qualche immagine, preferirei rimanere su un livello più generico. Come abbiamo detto prima, mentre parlavamo fra noi, un buon punto di partenza potrebbe essere The Unreasonable Apple (http://www.paulgrahamarchive.com/writings_by.html), la trascrizione della conferenza di Paul Graham al MoMA del febbraio 2010. Vorrei iniziare chiedendoti in che modo ti rapporti al concetto di “mondo fotografico post-documentario”. I miei pensieri vanno subito alla definizione di “stile documentario” di Walker Evans.
Francesco Zanot: Sì, certo, anche io ho pensato immediatamente a Walker Evans che, lavorando sulla scia della tradizione documentaria, ne ha messo in luce il paradosso. Il suo approccio era del tutto consapevole e non ingenuo. La stessa cosa è successa alcuni anni fa quando i fotografi che hanno partecipato alla mostra “The New Topographics” (1975) hanno affermato che l’Oggettività e la Neutralità erano i pilastri dei loro lavori e del loro linguaggio, ma nonostante ciò erano assolutamente consci del fatto che la fotografia non potesse essere considerata in generale un medium oggettivo. Walker Evans e i “nuovi topografi” si riferiscono al paradigma entro cui operano. In ogni branca della matematica, d’altra parte, vengono utilizzati dei modelli per descrivere e spiegare alcuni aspetti specifici del mondo reale. Ecco perché non amo parlare di fotografia documentaria, si crea sempre una sorta di fraintendimento. Andrebbero sempre fatti i dovuti riferimenti allo specifico della fotografia, mentre non ha senso parlare in generale di “fotografia documentaria”. La fotografia non può provare nulla se non siamo sempre consapevoli del fatto che è un’immagine bidimensionale fondata sulla prospettiva, estratta da una porzione più ampia di tempo e di spazio, selezionata da un singolo autore e così via… In generale si può solo affermare che si tratta di un’astrazione.
Bas Princen: Mi piacerebbe parlare di Luigi Ghirri e del suo Atlante (Charta 2000). Adoro l’ambiguità del medium e la sua mancanza di certezza. In senso letterale sappiamo, se lo teorizzassimo, che la fotografia è un’astrazione, ma allo stesso tempo ha il potere intrinsecamente affascinante di rappresentare la realtà stessa. Questa incertezza senza fine, e quindi la discussione dell’interpretazione contro la documentazione della realtà, è uno dei campi su cui possiamo lavorare e parlare, ed è l’elemento più significativo del nostro tipo di scienza. Gran parte del nostro lavoro (quello di Stefano e il mio) è diverso, nonostante si possa chiamare, senza sbagliarsi molto, straight photography. Penso che entrambi siamo consapevoli del fatto che solo se una fotografia riesce ad avere più interpretazioni, e dunque passa dall’essere il documento di un’unica scena, descrizione di un luogo, a un documento che viene percepito in modi diversi da diversi osservatori, non appena questo slittamento si verifica la fotografia prende distanza dalla realtà.
SG: Ciò che penso possa ampliare e forse complicare questa discussione è qualcosa che trovo molto interessante nel lavoro di Jeff Wall. Però, invece di esplorare la sua peculiarità in quanto artista visivo che produce immagini, che sono composizioni messe in scena e costruite con tecniche cinematografiche, e che molto spesso sono state paragonate alla pittura, penso sia interessante sottolineare la sua posizione chiaramente fotografica, consapevole della specificità del linguaggio. Inoltre credo sia notevole considerare la capacità di affrontare la divisione del lavoro come autore di opere sia scritte che visive; sono certo sia una posizione interessante e che aiuti a fare maggiore chiarezza sulla strutturale ambiguità della fotografia in quanto arte. L’aspetto maggiormente fuorviante è la classificazione accademica di un linguaggio, senza che vi sia una chiara relazione all’autore e al suo lavoro; torno alle parole di Paul Graham quando considera le immagini di Robert Adams, Lee Friedlaender, Walker Evans, Diane Arbus, i loro importanti lavori e il mondo dell’arte, oggi nebuloso e cacofonico, che sembra respingere le peculiarità della materia e il linguaggio della fotografia. Così, nonostante il lavoro di Jeff Wall possa essere apprezzato da una certa critica d’arte per la sua “distanza” dalla fotografia diretta, penso debba essere apprezzato per l’esatto opposto, e cioè per l’uso chiaro e semplice del linguaggio serio e conscio della fotografia, con le sue radici topografiche, paesaggistiche, sociali e “documentarie”.
FZ: La fotografia ha sempre intrattenuto una relazione complessa con il tempo. Non soltanto con il tempo che si ferma sul supporto, ma con le epoche che ha attraversato. All’inizio era troppo “moderna”per essere considerata una forma d’arte, troppo legata a una tecnica che si andava sviluppando e alle scoperte industriali… ora la “fotografia pura” sembra essere troppo vecchia come linguaggio artistico. L’approccio comune alla straight photography rimanda alla generica concezione dell’archeologia: entrambe sono prese in considerazione più come antichità che come opere d’arte. Il fatto è che entrambe hanno lo stesso problema, ovvero una stessa caratteristica fondamentale: la molteplicità delle loro funzioni. Lo sappiamo, la straight photography è stata utilizzata come strumento scientifico per effettuare ogni tipo di misurazione, i fotogiornalisti hanno realizzato reportage per raccontare fatti e storie, le famiglie l’hanno sfruttata per fissare le loro memorie e stabilire una linea di discendenza, e così via. Questo è il motivo irragionevole per il quale credo che una parte del mondo dell’arte non sia interessata alla “fotografia pura”, alla cosiddetta “candid photography”. Perché i suoi rappresentanti la vedono quotidianamente sui giornali e la ritrovano nei propri cassetti. Non comprendono che la natura (o il programma) della fotografia preveda che possa assolvere diverse funzioni, e l’arte è solo una di esse: probabilmente non si sono mai resi conto di cosa abbia fatto Duchamp con un orinatoio.
BP: Il tempo è qualcosa di cruciale, un’immagine fotografica documentaria è in grado di determinare il livello di “realtà”, quanto più velocemente è realizzata. Oppure, quanto più velocemente può essere rappresentato, tanto più convincente sembra essere in quanto documento, forse è questo il motivo perché fin dalle origini della fotografia, quando i tempi di sviluppo e stampa erano notevolmente più lunghi era più facile vedere e interpretare il risultato finale come qualcosa di nuovo, come qualcosa che si aggiungeva alla realtà piuttosto che rappresentarla. L’idea di aggiungere ai giorni nostri potrebbe risultare un po’ problematica perché sembra esserci una sovraproduzione di immagini, dunque forse è meglio o più logico “solo” rappresentare o documentare, piuttosto che aggiungere.
SG: Oltre a tutto questo penso sia necessario essere consapevoli dell’autorialità, credo che comprendere perché uno specifico autore utilizzi uno specifico linguaggio, o “stile” sia un passaggio cruciale, per conoscerne il lavoro e per uscire da classificazioni accademiche e disciplinari.
BP: Aggiungerei che, se si considera la macchina fotografica come uno degli strumenti che ti aiutano a vedere, a ricercare e interpretare la realtà sconosciuta, e che la fotografia come primo risultato rivela il dettaglio di una storia più grande ancora ignota, allora penso che si possa provare a iniziare da un certo punto indefinito che si situa fra un documento e un’interpretazione.
SG: Guardando agli anni Settanta, sembra siano stati anni in cui si sono raggiunte posizioni ancora oggi tra le più avanzate. Walker Evans ha lavorato fino al 1975, Lewis Baltz (The New Industrial Parks Near Irvine, 1974; Park City, 1981; San Quentin Point, 1986) e Stephen Shore, penso siano stati tra gli autori più influenti per le generazioni seguenti. Spesso penso che per una generale mancanza di futuro a cui oggi assistiamo, la tendenza a rivolgersi al passato non sia altro che la trasformazione in nostalgia del desiderio vivo in quegli anni.
BP: Effettivamente possiamo tornare su questo punto, il futuro è qualcosa di nuovo, qualcosa di aggiunto, ma attualmente siamo più interessati a consolidare e documentare.
FZ: Sono assolutamente d’accordo con te, Stefano. Tra l’altro mi spaventa questo continuo rivolgersi al passato, ma non estenderei un discorso simile a tutto il mondo. Credo che si tratti di un approccio maggiormente riscontrabile in Occidente, diciamo all’interno del bacino della cultura contemporanea euro-americana. Non fraintendiamoci, è certamente fondamentale guardare al passato, e io stesso lo faccio ogni giorno come studioso, insegnante, curatore e in quanto individuo che vive in un contesto risultante da un’interminabile sovrapposizione di strati di storia. Ma ho la sensazione che la differenza stia nel fatto che le ultime generazioni non considerino questa esperienza come un punto di partenza che deve essere studiato e superato, ma come un idolo da contemplare. Spesso non si fa nessuno sforzo per andare avanti, né per mettere in discussione il passato. Penso che si tratti prima di tutto di un problema sociale e politico, il quale poi naturalmente si riflette nel modo in cui la nostra cultura produce e consuma le opere d’arte. È una sorta di cortocircuito, ma credo che ci siano alcuni artisti che stanno interpretando questo momento e scavando intorno alle sue radici con notevoli risultati. Paul Graham durante la sua conferenza al MoMA ha parlato del lavoro di Thomas Demand, che mette tutto in discussione; il soggetto, l’osservatore (la sua percezione) e il mezzo fotografico stesso. Ma nonostante ciò utilizza la fotografia in maniera perfettamente convenzionale, rientrando a pieno diritto all’interno della pratica documentaria di questo linguaggio. È un classico. E per questo motivo concordo con Graham, ma nuovamente penso sia fondamentale essere chiari sulla natura del processo fotografico: Baltz e Demand lavorano nello stesso modo; entrambi utilizzano il mezzo fotografico per documentare alcuni tipi di soggetti di fronte all’obiettivo, non ha importanza se siano strade, edifici o modelli di carta, ed entrambi ci consegnano le loro interpretazioni del mondo.
SG: Sono d’accordo con la tua idea di classico in fotografia e come ne hai appena parlato, e nell’ambito di ciò che dici mi piace provare a confondere le cose, pensare che l’inizio e la fine non abbiano un significato specifico o che questo significato possa essere capovolto. Abbiamo citato pochi dei capolavori che fra gli altri hanno gettato le fondamenta della fotografia contemporanea, alcuni punti di riferimento grazie ai quali ci stiamo muovendo e andiamo avanti; anche il noto testo di Paul Graham, per quanto sostenga una posizione molto particolare, può essere l’inizio di una conversazione. Detto ciò vorrei aggiungere che potrebbe valere la pena e lavorare su quello che non conosciamo e contemplare il fallimento e gli errori fra i risultati possibili e fra i non risultati, come parte di una ricerca e di un progressivo processo.
FZ: Stefano, le tue parole mi fanno venire in mente un paio di argomenti, ma non so se sono troppo distanti dal punto di partenza. Ad ogni modo, è una tavola rotonda, dunque ti dico quello che penso e lascio circolare le idee. Per prima cosa credo che la fotografia sia il medium dell’errore per eccellenza. Gli errori sono di gran lunga i soggetti più frequenti delle fotografie. Basta pensare all’enorme quantità di immagini che vengono realizzate e poi scartate. Ovviamente non mi riferisco soltanto alla fotografia di ricerca, quella che finisce nei musei e nelle gallerie d’arte, ma anche ai molteplici altri utilizzi di questo linguaggio, spesso infarciti di errori e imperfezioni, esattamente come la lingua parlata se la si mette a confronto con la pagina di un libro. La porzione di fotografie che vengono scelte per essere incluse in un album di famiglia, un libro, una mostra o un profilo su Facebook è minima se la paragoniamo alla quantità di quelle che vengono effettivamente registrare sulle pellicole o le memorie digitali.
In secondo luogo credo che la fotografia sia un mezzo assolutamente imperfetto per raccontare delle storie. Non riesco a considerarla come un dispositivo narrativo. In fotografia, che si tratti di una singola immagine o di una serie, lo spettatore è sempre coinvolto in un processo di ricostruzione: deve mettere in sequenza un certo numero di elementi che gli vengono forniti tutti insieme (nel caso di una singola immagine) o riempire gli spazi vuoti fra i diversi fotogrammi (altrimenti si tratterebbe di un film). Si direbbe quindi che la fotografia abbia molto più a che fare con la creazione di un simbolo piuttosto che di una storia. Stefano, Bas, cosa ne dite? Cosa accade in questo senso nel vostro lavoro?
BP: Penso sia difficile narrare una storia senza creare dei simboli che ti guidino o catturino la tua attenzione, che rappresentino gli elementi da cui si può iniziare a ricostruire il soggetto di una fotografia (per intenderci, è la stessa cosa che avviene in archeologia). Non sono certo di dire la cosa giusta, forse è più importante che ci siano le soluzioni oppure i punti di concentrazione. Con ciò sei in grado di orchestrare il modo in cui un’immagine può essere letta (letteralmente, il modo in cui si muovono i tuoi occhi, dove si fermano, e da dove ripartono, tutto ciò ovviamente accade in un millesimo di secondo). E questo penso abbia una grande influenza sulla capacità di comprensione della fotografia, e sul suo eventuale significato. Ci sono ovviamente diverse modalità per recepire tale processo, per esempio Winogrand ne scatta moltissime e poi sceglie la migliore, oppure coscientemente si costruisce questo processo fin dall’inizio.
SG: È difficile e forse è una domanda ambigua, ma penso che l’ambiguità sia parte del linguaggio, comunque ci potrebbero essere posizioni differenti. Potrei immaginare una sola fotografia che potrebbe contenere, da sola, una narrazione, la descrizione di una scena, di un’azione o di un paesaggio; devo dire che questo è qualcosa cui ho sempre aspirato, nonostante non sia ancora mai stato capace di affrontare. Penso, infine, che un libro o una mostra sia la risposta da parte dell’autore alle diverse domande che si è posto mentre lavorava a un determinato progetto: lo spettatore potrebbe trovare una risposta differente o ancora meglio delle domande diverse.