I musei nostrani?
Costretti alle nozze con i fichi
Pierluigi Sacco: Caro Giancarlo, proseguiamo il nostro dialogo sull’arte contemporanea oggi, e ripartiamo dall’Italia. Dopo tanti anni di relativa stasi, in questo momento su tutto il nostro territorio nascono sempre nuovi musei di arte contemporanea. Cosa pensi di questo fenomeno? E quali sono secondo te i musei più interessanti?
Giancarlo Politi: Purtroppo di musei di arte contemporanea in Italia non ne vedo. Quelli che noi eufemisticamente chiamiamo musei (GAM di Bologna — oggi MAMbo, Castello di Rivoli, MACRO, MAXXI, GAMeC di Bergamo) sono degli ottimi spazi espositivi cittadini (come le Kunsthalle tedesche) ma, a parte Rivoli, con una collezione di nicchia (Arte Povera, Transavanguardia e affini, che però esclude tutta la ricerca di oggi), dove poter ammirare i protagonisti del nostro tempo? All’estero, o meglio, sulle pagine di Flash Art. Caro Pierluigi, dimentichiamo che noi siamo abituati a far le nozze con i fichi. E non illudiamoci oltre misura. Il budget relativo alle acquisizioni dei nostri “musei” si volatilizzerebbe con un multiplo di Jeff Koons o un’opera minore di Damien Hirst.
Accontentiamoci dunque dei buoni o discreti programmi nostrani. Giacinto Di Pietrantonio con la sua GAMeC a Bergamo è riuscito, sempre con mezzi relativi, a mediare un ottimo programma che concilia la relativa disinformazione territoriale con le esigenze più “colte” e raffinate. Interessanti le sue riletture di Alighiero Boetti e di Getulio Alviani. Gianfranco Maraniello invece è colui che ha maggiori ambizioni (e forse risorse) e dunque potenzialità e a Bologna sta realizzando un programma di alto profilo. Anche se sono spaventato dalle sue mire onnivore: troppi spazi e troppo grandi. Per far cosa? Già è difficile mantenere un profilo alto di un piccolo spazio. Il MAXXI a Roma si sta rinterrogando sul suo futuro, ma senza una conduzione efficientista e ambiziosa non vedo grandi sbocchi. L’ottimo Paolo Colombo non ha mai avuto una vocazione anche manageriale, senza cui oggi puoi fare solo il receptionist in un museo serio. E il MACRO, che sino a qui ha lavorato bene, se il MAXXI decollerà avrà qualche ulteriore difficoltà. Oppure dovranno accordarsi sulla programmazione.
I nuovi artisti?
Giovani, belli, fortunati
PS: Un altro fenomeno in costante crescita nel nostro Paese è quello dei premi, soprattutto per i giovani artisti. Cosa ne pensi? Perché in Italia non riusciamo a dare vita a premi di livello internazionale come il Turner Prize, l’Hugo Boss Prize o il Preis der Nationalgalerie (che tra l’altro è stato vinto nel 2005 dalla nostra Monica Bonvicini che, pure avendo ricevuto molto più supporto dalla Germania che dall’Italia, andrebbe forse considerata un’artista tedesca)? E non pensi infine che invece di concentrarci sempre e solo sui giovani in Italia sarebbe anche importante sostenere gli artisti mid-career? In fondo, tutti i premi che ho citato prima si rivolgono ad artisti già maturi, non ai giovani…
GP: Si sa, da oltre trent’anni i giovani belli, sexy e bravi la fanno da padroni. Ma non è così in tutte le categorie e discipline? A un uomo politico si richiede fotogenia più che preparazione. Dunque, largo ai giovani come e più di sempre. E mai così tanti artisti e artiste bellissimi, scamiciati, scollate come in questi ultimi trent’anni, pronti per un bellissimo reality. Addio volti emaciati e barbe truculente che avete lasciato il posto a tante veline e ad altrettanti beautiful! Un giorno vorrei fare una hit parade dei più belli e ne vedremo delle belle, ti assicuro. Giovanotti da oscurare il bel tenebroso Costantino e giovanette da mettere in crisi Elisabetta Canalis. Però da qualche tempo ho notato una forte attenzione (anche se cinicamente ritengo che si stia raschiando il fondo del barile) ad artisti attempati. Insomma, con il mercato con il vento in poppa, ora c’è posto per tutti. I premi? Ma chi vuoi che si preoccupi dei nostri premi con un sistema dell’arte così debole e sgangherato? E poi i nostri critici in commissione nei vari premi si portano dietro il loro gruppetto di protetti. Purtroppo (quasi) tutti i nostri critici e curatori tengono famiglia.
Le Biennali di oggi?
Group show per i compagni di merenda
PS: E parlando di fenomeni in crescita, non si può oggi non pensare alle Biennali. Ce ne sono di molto istituzionali e ricche, ma anche altre che nascono dal territorio hanno budget limitati e contano soprattutto sull’innovazione e sulle idee. La Biennale di Praga che tu ed Helena portate avanti ne è un ottimo esempio. Pensi che questa moltiplicazione delle Biennali continuerà nei prossimi anni oppure è arrivato il momento della selezione? Tutta questa abbondanza di iniziative non finirà per sminuirne il valore e il significato? Ed è vero secondo te che, come si sente dire spesso, tutte le Biennali in fondo si rassomigliano nei formati e nella scelta degli artisti?
GP: Hai ragione. Ormai tutte le Biennali sono dei group show. Gli amici e i protetti dei curatori. Un esempio tipico, la nostra Biennale di Venezia che quest’anno ha raggiunto il culmine (però mai dire mai. Da venti anni mi era sembrato di aver toccato il fondo, invece eravamo agli inizi). Il Direttore, il pessimo Robert Storr, che guarda caso fu individuato da Sgarbi quando era vice ministro, chi ha invitato? Gli amici che incontra nei suoi week end newyorchesi e quei quattro o cinque italiani che sanno preparare bene i bucatini all’amatriciana, di cui pare il nostro Storr vada matto. Insomma, ha invitato i suoi compagni di merenda e vorrebbe farci credere che siano i migliori al mondo. Ed è triste che nessuno in Italia lo rilevi e che il buon Davide Croff, per la sua ignoranza nell’arte, non si accorga di questi misfatti. Ma come mai affidare la direzione della Biennale a questo giornalista, Storr, arrogante, pretenzioso e ignorante? Nel Consiglio direttivo della Biennale si seguono ancora le indicazioni di Sgarbi? Mamma mia! E le scelte di Ida Gianelli? Ma come si può realizzare il Padiglione Italia con due artisti arcinoti? Perché perdere l’occasione di invitare dieci-venti giovani artisti a Venezia e farli affacciare sulla scena internazionale? A me pare che tutti siano fuori di testa.
Caro Pierluigi, quasi tutte (o tutte?) le Biennali sono ormai un group show per i compagni di merenda. Anche la Biennale di Praga poteva correre questo rischio che io però ho subito evitato con la scelta di temi forti e poco praticati da altri (“Expanded Painting”, la pittura, che tutti odiano, detestano e snobbano, l’Arte come ribellione sociale di Marco Scotini ma anche alcune grandi rassegne sull’Europa continentale e dell’Est). Dunque, chi è incuriosito sia dalla pittura sia dalle (grandi) riserve dell’ex Impero austro-ungarico, deve venire a Praga.
Però credo che queste grandi feste dell’arte che raccolgono amici e amici degli amici, artisti buoni e cattivi, collezionisti e curiosi appassionati siano utili per socializzare, per incontrare e conoscere gli artisti, i critici e i curatori. Un po’ come la Festa dell’Unità dei tempi d’oro, dove per un giorno potevi stringere la mano a Berlinguer, Ingrao, o al giovanissimo D’Alema o al mio compagno di scuola di Foligno, Claudio Petruccioli. Insomma, grandi mangiate di impepata di cozze, rimpatriate tra amici e conoscenti. Le Biennali sono proprio questo. E poi capita che qualche artista, notato da chissà chi, incontri la propria fortuna.
Il ruolo delle gallerie italiane nel mondo
PS: Nella scorsa puntata hai detto, e io sono d’accordo, che contrariamente a un certo masochistico senso comune, contando sulle buone idee, sul fiuto, sul coraggio e sulla competenza, anche una galleria con pochi mezzi economici può conquistare un grande rilievo internazionale. Anche le migliori gallerie italiane però, pur avendo ottenuto buoni risultati, non sono ancora riuscite a entrare nel top circle più esclusivo. Pensi che nei prossimi quattro o cinque anni qualche galleria italiana potrà fare il grande salto? Tu su chi scommetteresti?
GP: Ma come no! La Galleria Zero… è sempre al top delle nostre (serissime) graduatorie e apprezzata in tutto il mondo. Poi Franco Noero, Sonia Rosso o Francesca Kaufmann (ma anche Monitor, T293), gallerie che hanno iniziato con molta fatica (e talvolta anche oggi annaspano), ma tanto di cappello alla loro capacità di stringere i denti e soffrire in nome della qualità del prodotto. Ma certo, nessuna di queste gallerie riuscirà a essere Gagosian o Jay Jopling. Quelle forti (Cardi che con un programma di qualità anche verso i giovani poteva fare sconquassi o Christian Stein, con le sue grandi relazioni internazionali) sono votate esclusivamente al mercato e ormai non hanno più interessi né occhi né sensibilità per le nuove proposte. E quando lo fanno, meglio non parlarne. Ma onore a loro che sono stati così bravi a crearsi un forte mercato locale.
Il grande salto? Nessuna galleria italiana. Quelle sopra citate sono entrate in un giro di gallerie giovani molto apprezzate e stimate ma non penso potranno, a parte un maggior riscontro di mercato, arrivare agli alti vertici che tutti vorremmo. Le ultime gallerie giovani che sono riuscite ad agganciarsi al gotha internazionale sono state le americane Gavin Brown, Anton Kern, Andrew Kreps, il berlinese Johann König, il francese Emmanuel Perrotin, l’inglese Herald St…
Caro Pierluigi, il sistema dell’arte di un Paese, e tu come economista me lo dovresti insegnare, è quasi sempre l’espressione della sua politica culturale ed economica. Dunque…
I pionieri storici delle nuove frontiere
PS: Ma c’è qualche mercante o galleria italiana che a tuo avviso ha aperto nuove frontiere ad artisti e collezionisti?
GP: Mi piace a questo proposito ricordare un grande pioniere dell’arte contemporanea, Carlo Catelani, prematuramente scomparso, sconosciuto ai più giovani ma grande idealista e mecenate, dalla cui “scuola” sono nati Emilio Mazzoli, Giordano Raffaelli, e decine di collezionisti. A lui deve qualcosa anche Pio Monti, viaggiatore curioso e instancabile che oltre a essere stato compagno di strada di Gino De Dominicis, Emilio Prini, Alighiero Boetti ma anche Sol LeWitt e Ben Vautier, ha fatto strage di collezionisti, inventandoli a ogni casello autostradale. Indubbiamente Pio Monti ha contribuito a svecchiare la provincia italiana, da Lecce a Bolzano, creando una miriade di collezionisti con opere di Boetti e De Dominicis (è stato certamente il mercante più vicino a Gino di cui ha gestito centinaia di opere, contribuendo, io testimone, alla sua sopravvivenza e a quella di altri artisti negli anni Settanta. Ricordo che Pio era riuscito a vendere almeno venti opere di GDD a un’avvenente proprietaria di una pizzeria a Modena).
Gli italiani all’estero?
Quasi un miraggio
PS: Dalle gallerie agli artisti. Non ci sono più soltanto Maurizio Cattelan e Vanessa Beecroft a far parlare italiano all’arte internazionale. Anche Francesco Vezzoli e la già citata Monica Bonvicini stanno ad esempio ottenendo un successo crescente. Pensi che nei prossimi quattro o cinque anni qualche altro artista italiano ce la possa fare? Ancora una volta, tu su chi scommetteresti?
GP: Mi hai citato tre artisti, a cui aggiungerei (più timidamente) Paola Pivi, che hanno operato e si sono mossi soprattutto all’estero. Maurizio e Vanessa erano solo dei promettenti giovani artisti italiani che poi New York ha svezzato e premiato. E ora all’orizzonte non vedo altri. Potrei dire Pietro Roccasalva, ma mi sembra molto stanziale e, come Gino De Dominicis, non ama avventure transoceaniche. E dal punto di vista umano gli dò perfettamente ragione anche se, ahilui, forse si perde qualche spaghettata con Robert Storr…