“Vivere un’esperienza comune significa condividere uno spazio, un tempo, ma soprattutto spartire con altri il proprio pensiero e il proprio agire nel quotidiano. Lo spazio pubblico si costruisce con il dialogo e con il ‘fare insieme’. Lo spazio/tempo pubblico è niente di più che pensare a ciò che facciamo”1
Liliana Moro.
“Siamo davvero liberi? ‘Il tesoro della libertà dell’agire è impossibile da trasmettere in un mondo che non attribuisce senso all’agire in pubblico’”2
Hannah Arendt.
Liliana Moro nel 2012 è Visiting Professor del corso annuale organizzato dalla Fondazione Ratti a Como. Le parole riportate poco sopra sono rivolte ai giovani artisti che vi prendono parte. Le riprendo perché in quelle poche righe credo ci sia molto di più di una possibile direzione di lavoro. La disponibilità alla condivisione, all’ascolto, al dialogo così come il rimando reiterato alla sfera pubblica sono veri e propri cardini della sua ricerca. Queste parole hanno un riscontro diretto nel suo percorso artistico, sono collegate con l’esperienza, generano azioni, le orientano, risuonano concretamente nei suoi lavori, aprono possibilità. Sempre alla Fondazione Ratti è consuetudine che l’artista che guida il corso esponga un proprio lavoro pensato ad hoc. In questo contesto Liliana Moro ha presentato Moi (2012), un’installazione sonora dove la sua voce era trasmessa da una serie di microfoni disposti in cerchio. Era possibile avvicinarsi, muoversi, fermarsi ad ascoltare. Era facile accedere al cerchio, più difficile uscirne… non perché qualcuno o qualcosa lo impedisse, ma per l’energia prodotta dalla voce registrata dell’artista: le sospensioni e le accelerazioni, il collegamento tra il ritmo della voce e del respiro. Si avvertiva la concretezza dell’azione: la presenza si manifestava, per dirla alla Roland Barthes, attraverso la “grana della voce”. Intervistata da Marcello Maloberti su Flash Art 3, a proposito di questo lavoro, l’artista parla di Moi aggiungendo dei particolari rilevanti: “(…) La mia voce parla di un movimento, di un’azione performativa da me eseguita diversi anni fa, Studio per un probabile equilibrio in movimento (1997). Il testo che recito è stato estratto dal testo di un critico, Hubert Besacier, che allora scrisse di quel lavoro: la riscrittura del testo è l’azione, mi interessava riprendere il movimento. Realizzando Moi, ho pensato anche molto al mio lavoro Nessuno del 1993, era un lavoro che nasceva dal pensiero del “nessuno” di Beckett”. In una conversazione tenutasi presso il Centro Studi e Archivio della Comunicazione di Parma (2016) 4, Liliana Moro racconta come un gruppo di ex studenti di cui lei stessa era parte, poco dopo avere terminato gli studi all’Accademia di Belle Arti di Brera con Luciano Fabro, sia riuscito a “inventare” una mostra, concepita e realizzata in diversi luoghi nello spazio pubblico di Novi Ligure.
“Politica del per o riguardante il cittadino” (1988) è il titolo di una mostra autogestita che per molti partecipanti ha effettivamente segnato l’inizio del loro percorso artistico. In quel contesto Liliana ha esposto due lavori di grande efficacia visiva e simbolica: La passeggiata e Casa Circondariale (entrambi del 1988). La passeggiata era esposta in un giardino con un cerchio di cemento al centro ricoperto di linoleum. Lì ha costruito una sorta di pista di pattinaggio dove ha collocato 140 pattini a rotelle collegati da una catena ancorata a terra. Questa disposizione faceva sì che ogni giorno il lavoro assumesse una connotazione differente. Per Casa circondariale (1988) riparto ancora dalle parole dell’artista riportate nel catalogo Spazio Libero. Al di là di un effimero accertamento di propositi: “per un lavoro ho chiesto il permesso di collocare l’opera su quattro finestre del piccolo carcere circondariale nel centro di Novi Ligure. Con l’aiuto dell’artista Mario Airò ho posizionato quattro specchietti retrovisori espandendo le finestre del carcere. Gli specchietti si potevano muovere, erano un po’ basculanti, e questo ha consentito di creare una relazione tra interno ed esterno, i detenuti potevano orientarli. La cosa più bella accadde un giorno in cui li trovai puntati tutti nella stessa direzione che era il cielo. Si vede che si erano messi d’accordo, si erano parlati” 5. Quel “si erano parlati” era come dire “missione compiuta”. Pochissime parole in cui si percepisce la felicità per avere innescato uno scambio tra due detenuti, grazie all’uso di un oggetto solitamente destinato ad altro come lo specchietto della macchina. Credo che la vicinanza di Luciano Fabro, suo docente di riferimento all’Accademia di Brera, abbia contribuito alla formazione del suo atteggiamento radicale, dove per radicale intendo l’attitudine ad andare a fondo alle questioni da lei stessa messe in gioco. In questa logica ogni gesto è un atto, ogni atto artistico è un atto pubblico. Per Liliana Moro il lavoro dell’arte è costante e nasce in relazione: con le immagini, gli oggetti, con il mondo, con “tutti gli altri”, tenendo conto delle situazioni. Se nella fase di progettazione le strade possibili sono tante, ogni volta che l’artista arriva a definire una sintesi la regola cambia: è il corpo del lavoro che deve crescere e dare le “sue” regole per arrivare a una forma compiuta, è così che le potenzialità si trasformano in opera. Negli anni Settanta si sarebbe detto che il personale è politico. Quelle parole oggi non sono molto di moda ma a maggior ragione continuano ad avere un valore profondo. Sottolineo l’importanza del partire da sé, perché non si esaurisce nell’uno ma è già una relazione. Liliana non concede nulla all’ambiguità, non teme di prendere posizione, senza enfasi, senza retorica espone e si espone ed è in questo esporsi che apre agli altri lo spazio per l’incontro con il suo lavoro. In apertura ho sottolineato quanto sia rilevante, a partire dalla prima mostra, la pratica dell’ascolto intesa come punto di partenza per sviluppare il suo lavoro. Non si tratta né di un atteggiamento, né di un metodo ma di una sorta di DNA. Proseguendo con questa riflessione mi sono messa sulle tracce di un segno specifico, il lampione, che Liliana ha esposto in diversi contesti, la cui unica funzione è illuminare. Il lampione non emana luce per portare l’attenzione su di sé, ma per dare visibilità a ciò che ha intorno e in questo senso è riconducibile all’ascolto. Trovare la prima applicazione del lampione non è facile ma grazie al MoRE (A museum of refused and unrealised art projects, Università di Parma) è documentata la mancata realizzazione, per motivi logistici e organizzativi, di un progetto di cui Liliana era la vincitrice e avrebbe dovuto realizzare un’opera destinata ad una rotonda a Torino (2005). L’opera prevedeva due gruppi di sette lampioni ciascuno, uno giallo e uno bianco a luce fissa, al centro dei quali era prevista la presenza di due lampioni a luce intermittente, idealmente riferiti a fari che segnalano la terra ai marinai e quindi metafore di accoglienza e sicurezza.
Nel 2011 Moro partecipa alla sesta edizione della mostra Arte in Memoria, curata da Adachiara Zevi, alla Sinagoga di Ostia Antica e così presenta il suo lavoro: “Un palo di tubi innocenti alla cui sommità, a cinque metri di altezza, un globo in polietilene di 40-50 cm emette luce gialla continua, di giorno e di notte. Non si volge chi è a stella fisso (Leonardo da Vinci). Una luce gialla montata su un alto sostegno in ferro accesa giorno e notte, una presenza silenziosa, visibile a tutti, intensa come una stella polare in cielo”. Scrive la curatrice 6: “Stella polare di Liliana Moro riconduce la sinagoga a una dimensione domestica: dove vivere, ospitare, accendere la luce. Più che concentrarsi sul lavoro simbolico del luogo sacro o estetico di rovina di pregio, Moro ne coglie l’aspetto contemporaneo, la sua visibilità istantanea e fuggitiva delle auto in corsa verso Fiumicino… Non va del resto dimenticato che il merito della scoperta della sinagoga nel 1961 è proprio di quell’autostrada. L’ipotesi di Moro è oltremodo sottile: gioca infatti sull’ambiguità tra un banale lampione stradale e la sua luce gialla, come quella di una stella, anzi, avverte il titolo, della stella di riferimento per antonomasia. Accesa giorno e notte, segnala ovunque, dal sito archeologico lontano non meno che dalla strada contigua, la centralità del luogo”. Alla Galleria Pantaleone di Palermo. nel 2015 Liliana Moro espone una mostra personale. Il titolo, “Àncóra”, attraverso la disposizione degli accenti segnala la coesistenza di tensioni opposte: “l’àncora, una possibilità di salvezza, ancòra, il rimando ad azioni che si ripetono, ad esempio il tragico ripetersi del rituale a cui è sottoposto chi cerca di sottrarsi a situazioni senza scampo, i vani tentativi di chi cerca di salvarsi… A terra sono disposti dei salvagenti di cemento che non possono aiutare, alle pareti una serie di collage: migranti che aspettano il momento per provare a oltrepassare la frontiera, migranti avvolti nella tela termica dorata. Anche in questa mostra c’è un lampione: i segni viaggiano; il contesto in cui sono inseriti e il posizionamento nello spazio contribuiscono alla costruzione del significato…”. Così scrive Agata Polizzi, curatrice della mostra: “Incertezza che ritorna nell’installazione decentrata e solitaria del lampione capovolto, luce rimanda al pavimento, luce non diffusa, fredda che guarda in basso, una sorgente luminosa poco trascendentale. Una luce che ha senso nel contatto con la terra, che illumina là dove serve, per non cadere, per non perdersi. Una luce non eclatante, che nella sua semplicità, indica una possibile via (…)”.
Sempre nel 2015 Liliana Moro è stata invitata dalla Fondazione Zegna a realizzare un’opera d’arte pubblica. Il titolo 29,88 KM corrisponde alla superficie del territorio comunale. L’artista è intervenuta in due luoghi: in una rotonda ha ideato un info point pentagonale cinto da LED e coronato da un lampione giallo che, dopo il tramonto, si trasforma in una lanterna magica; negli spazi della Pro Loco una mappa tridimensionale dell’area e ciascuno può ascoltare la sua voce che racconta al pubblico i lavori degli altri artisti che hanno preso parte a “All’Aperto”. Come nell’altro info point, anche qui c’è un lampione. Infine, il recente lampione in quel di Bolzano e, anche in questa situazione, la disposizione all’ascolto ha avuto un ruolo centrale. Nel dicembre 2018 l’artista ha realizzato un lavoro nella sede decentrata del Museion, più noto come Cubo Garutti, dove ha esposto un lampione a testa in giù e al Museion, in centro città, un lampione con la testa in su. Le due sedi non sono lontane, ma la distanza percepita è maggiore di quella reale. A Bolzano il peso della storia è vivo e l’architettura della città parla un linguaggio chiaro. In questo contesto ancora una volta Liliana ha scelto di incontrare e soprattutto fare incontrare gli altri 7. Non è un caso che i lampioni collocati nei due contesti più problematici, la mostra “Àncóra” a Palermo e “On Air” a Bolzano, siano entrambi a testa in giù. Entrambi ci chiedono di abbassarci e questa richiesta rievoca alcuni importanti lavori degli esordi. Abbassamento (1992) è una parata di migliaia di bamboline di carta di fronte a un conglomerato di costruzioni medioevali di carta anch’esse in miniatura: una richiesta di attenzione, un invito a portare lo sguardo lì dove troppo spesso non vogliamo vedere.