Ho incontrato Alighiero Boetti nel 1990 alla Biennale di Venezia, nel padiglione americano, accanto a una pila di poster di Jenny Holzer. Abbiamo chiacchierato un po’ e prima che lo salutassi, Boetti ha preso un poster, ha aggiunto un nuovo truismo alla lista della Holzer — “Non scrivere mai cazzate” —, l’ha firmato e me l’ha regalato. Ho sempre pensato ci fosse una strana, irrequieta gentilezza in quel gesto. Finalmente posso restituirgli il regalo.
Maurizio Cattelan: La prima volta che ho visto una tua opera era firmata Alighiero e Boetti. Per non so quanto tempo ho pensato che tu fossi due persone diverse. E poi c’era quella foto, con due gemelli che si tenevano per mano… Mi piaceva questa confusione. Eri tu ed eri un altro. Adesso è un po’ strano sedersi a parlare solo con Boetti. È come se mancasse qualcosa. Dov’è Alighiero?
Alighiero e Boetti: Io sono io, lui è lui. Alighiero sono io e Alighiero è me. Boetti è metà Alighiero e metà me. Alighiero è la parte più infantile, più esterna, che domina le cose familiari. Boetti è più astratto, appunto perché il cognome rientra nella categoria. È una gerarchia. L’ordine delle cose mi ha sempre affascinato, il modo in cui le nostre società si fondano su strutture irremovibili. Pensa anche solo all’ordine alfabetico.
MC: A me ha sempre sconvolto la precisione dell’elenco del telefono, con tutti quei nomi e quelle vie…
A e B: Sì, appunto. Alcune strutture fondamentali, gigantesche della società verrebbero a crollare se mancassero alcuni piccoli elementi, come l’ordine alfabetico. Pensa alla guida telefonica di Torino. Potremmo riorganizzarla con i nomi propri: Agata, Alighiero, Antonio, Amelia, Anna, Annamaria, Antonella, e poi Caterina, Diletta, Donatella, Francesco, Giordano, Matteo… Potremmo inventarci un ordine che si ribalta nel suo opposto. Comunque, per tornare alla tua prima domanda, per qualche ragione, quando sono nato, mi hanno messo nella casella Boetti. La burocrazia è sempre alfabetica, ordinata. Oggi, se vedono uno dei miei lavori dicono “È un Boetti” e non “È un Alighiero”. Nessuno chiede mai di Alighiero, perché è Boetti che è famoso, professionale. “Hai un Boetti da vendermi? Quanto lo hai grande?” chiedono. Alighiero invece è quello che fa grandi casini, le cose più banali. Se devono lavare i piatti chiamano Alighiero. Ma gli assegni li firma Boetti.
MC: Quando hai deciso di sdoppiarti?
A e B: Non lo so. Non mi ricordo, e forse non è nemmeno importante. Potremmo scegliere una data qualsiasi. Le date, sai perché sono importanti? Perché se scrivi sul muro 1970 sembra niente, proprio niente, ma fra trent’anni… Ogni giorno che passa questa data diventa più bella: è il tempo che lavora, è soltanto quello che lavora. Le date hanno proprio questa bellezza: più passa il tempo e più divengono belle. Così potremmo far finta che il 16 dicembre del 1970 è il giorno in cui Alighiero e Boetti vennero e videro la luce a Torino. Un giorno avevo fatto un disegno e l’avevo firmato Alighiero e Boetti, quando è arrivata in studio una signora che non sapeva niente e mi dice: “Chi sono questi due?”. Io ero a posto, capisci. Sono piccole conferme di realtà, come un segno. Da allora penso di essere diventato bravo a inventare i rebus, ma poi non sono capace di risolverli.
MC: Sei superstizioso?
A e B: No, ma amo le coincidenze, perché ti portano altrove. Basta un nome o un numero e tu puoi essere un poco come me e io un poco come te. Forse questa mia attrazione per le felici coincidenze nasce da un’idea schizofrenica, dal fatto che non riesco a stare sempre nello stesso posto, che sono poi le tante braccia di Shiva, credo. E poi sono sicurissimo che esistono delle sequenze numeriche che, se pronunciate, potrebbero aprire il mondo. Accelerazioni estreme insomma… Ad esempio, ho lavorato molto sulla serie del raddoppio. Forse è la serie più pazzesca che esista. Supera la tua capacità sensibile. È una velocità incredibile: prendi un millimetro e dopo venti volte è un chilometro, no? L’uno si divide in due. Il due in quattro. E poi prolifera secondo quantità che sfuggono alla nostra capacità di controllo. Il più debole può trasformarsi nel più forte, come Davide e Golia. Al momento sto cercando un modo per raddoppiare le energie senza fare niente, senza sforzi: diluirsi disperdendosi. Ho trovato un sistema per cui qualsiasi realtà va bene. Cioè non faccio delle scelte. Anche questo è un grosso risultato, riuscire a non fare delle scelte.
MC: È pigrizia o ascetismo?
A e B: Nessuno dei due. Delego agli altri quello che piacerebbe fare a me, come andare in una casa di campagna con ago e filo e fare un lavoro per mesi. Direi che si tratta di frazionare il lavoro, come si fa con il cinema. Il regista ha lo sceneggiatore, il fotografo, il musicista, il montatore… Ogni mio lavoro nasce da un tipo diverso di collaborazione. A me interessano le cose primarie, anche per la molla che fanno scattare tra ordine e disordine. In ogni cosa c’è un ordine preciso, anche se trascritto in maniera disordinata. E a me piace questo equilibrio tra struttura e spreco. Il concetto dello spreco poi mi fa impazzire, come il sole che si dà gratis. Oggi non sopporto più certi miei lati borghesi: noi abbiamo sempre questo senso di industria e di realizzazione, di fare la riga retta, invece tutte le avventure hanno tracciato una specie di greca. È come quando lavori con gli altri: per collaborare con qualcuno devi saperti dare via, completamente, senza paura. Ma allo stesso tempo devi avere le idee chiarissime. Devi andare con la corrente, non scegliere mai. Il mio problema infatti è di non fare scelte secondo il mio gusto, ma di inventare sistemi che poi scelgano per me.
MC: Hai scelto di diventare artista o è l’arte che ti ha scelto?
A e B: Mi sembra una cosa assurda la tradizione dell’artista. Io non ho fatto scuole artistiche e mi sembra assurdo che uno debba andare al Liceo Artistico. Il problema è di sopravvivere, di vivere in modo decente, di riuscire a soddisfare tutte le cose. Il problema nuovo di essere artisti oggi è di avere una base, che non sia il prodotto artistico ma l’idea. L’idea la puoi attuare con tanti mezzi, che puoi prelevare da quelli che esistono già e ti vanno bene. Oppure posso prendere a prestito cose già usate da altri, trasformarle, come i francobolli, i ricami, i quadratini… A volte mi viene la voglia di andare in qualche paese, di prendermi degli operai, di fare una strada di piastrelle bianche e nere, oppure farlo nel deserto, o far stampare qualcosa da vendere per niente nei mercati di Tehran. In Italia preferirei vendere un manifesto inventato a mille lire piuttosto che girare per le gallerie. Alla fine, che il lavoro venga fatto da me, da te, da Picasso o da Ingres non importa. È il livellamento della qualità che mi interessa: lo stravolgimento totale della qualità come si intende di solito. Per me poi conta molto la diffusione di un lavoro. Il problema, allora, non è solo la qualità, perché la Coca Cola possono farla anche meglio di quella americana, ma poi la vendi?
MC: È la comunicazione che ti interessa…
A e B: Sì, moltissimo. Qualsiasi rivista ha una pagina per ogni cosa, la barzelletta, il gioco matematico e anche le pagine dell’arte, ma sbagliate. Non capisco perché non si possa trovare proprio qui uno spazio per la comunicazione. C’è un mio amico, un designer, che quando vede il suo marchio di venti metri per venti al neon su un palazzo di Milano soffre a non sentirlo firmato. Per me il problema è opposto, magari si potrebbe risolverlo con la pubblicazione in giornali sempre più maneggevoli e con l’anonimia… Oggi non riesco più a immaginarmi un Füssli, un Raffaello o un Ingres, anche se li amo molto: non si può restare legati al privilegio della mano.
MC: Hai mai fatto qualcos’altro oltre all’artista? Qualche lavoro?
A e B: Niente che fosse una carriera. Sono sempre stato un isolato. Ho frequentato l’Università, la Facoltà di Economia e Commercio, ma sono venuto via subito. Odiavo l’idea di efficienza che insegnavano lì, ti spiegavano che per andare da A a B devi tirare una riga, che è la cosa più giusta e veloce. Ma a me piace muovermi di lato. Sono fatto così, mi piacciono le avventure. La mia formuletta è che l’umanità si divide in quelli che pensano a tempi brevi e quelli che pensano a tempi lunghi. Se devo andare a New York, prima devo passare per Kabul e aprirci un albergo, il mio One Hotel. Se devo andare a Venezia, prima mi fermo a Roma. È una cosa che ho imparato negli anni Sessanta. In un certo senso gli anni Sessanta erano terribili. Pensavamo di poter fare le mostre in strada e negli stadi. Certamente c’erano più stimoli, però si andava incontro a pericoli terribili: fare delle cose che in fondo non erano tanto importanti. Il senso di essere lo sciamano, un po’ stregone, diveniva lo showman, che prendeva oggetti di uso quotidiano e li riuniva in una situazione un po’ diversa. Purtroppo certi momenti dell’Arte Povera erano proprio da droghiere, come in drogheria si trova tanta, tanta roba. Ci fidavamo degli impulsi. Prima, invece, eravamo calvinisti. Pascali è venuto qui a Torino e ci ha insegnato a ballare lo shake, mentre noi eravamo duri merluzzi. Tutto è venuto da qui. Eravamo felici. Io ho reagito cercando di impormi delle regole, perché la felicità può essere pericolosa.
MC: E ora sei felice?
A e B: Non lo so. Non ci penso poi così tanto. È strano: quanto più faccio cose felici e colorate, tanto più sono infelice. La mia arte è uno spazio dove posso mettere tutto, cose mie, di altri, cartoline, informazioni. È un diario, ma allo stesso tempo è un modo per rappresentare la frammentazione della vita che oggi viviamo. Oggi tutto mi appare simultaneo e contemporaneamente superficiale. L’universo è un quadrato senza angoli: l’informazione è zero perché ce n’è una tale valanga che alla fine sarebbe meglio non comunicare, stare in silenzio. Da due anni e mezzo a questa parte ho ricevuto un quintale e mezzo di corrispondenza da ogni parte del mondo. A volte penso che mi piacerebbe contare quante parole ci sono in tutte quelle lettere.
MC: Ti ricordi quando hai imparato a contare? Io ci sono arrivato molto tardi, quando ero già a scuola. Era una specie di tortura. Ho ancora paura dei numeri.
A e B: No, non si devono temere i numeri. Ognuno ha una sua individualità, una sua presenza. È così che impari a controllarli. I numeri sono complici. 3 è il signor 3, il 2 richiama il concetto di dualismo, di doppio, 1 è l’unità, il 4 la terra, le quattro mura, il 5 il pentagono, e viene in mente il concetto di guerra, terribile; il 6 l’esagono, mi vengono in mente le api: è dolce, ma fa anche pensare al lavoro. I numeri sono come le parole: sono i custodi della differenza. Ci sono parole che uccidono, parole che fanno un male tremendo, parole come sassi, parole leggerissime, parole reali come i numeri. Ma se vuoi veramente qualcosa, mettilo per iscritto.
MC: Non ti stanchi mai di scrivere o di lavorare?
A e B: È una delle cose che so fare. Soprattutto adesso non mi pongo più il problema se quello che faccio è arte o no. A me serve a vivere, a vivere delle avventure, e il tempo lavora per me e non contro di me. Io faccio la ricerca delle felici coincidenze: la felicità, l’abbiamo detto prima, coincide sempre. Lo vedi nei quadratini, nei due gemelli…
MC: Pensi mai alla morte?
A e B: Il problema non è la morte. Il problema è la leggerezza. Dovremmo essere leggeri come gli uccelli, ma pesanti come le piume.