Ispirato dalla rivelazione sul “lato oscuro del lusso” avuta dal regista Vasilis Katsoupis – mentre era ospite nell’appartamento di un amico a Lower Manhattan –, nonché dagli interrogativi che uno spazio così sapientemente decorato pone per la relazione tra arte e sostenibilità della vita, Inside (2023) è un colpo grosso che finisce in naufragio. Il protagonista, Nemo, interpretato da Willem Dafoe, nonché unico personaggio dell’intero film, è un ladro d’arte intrappolato nell’attico iper-tecnologico del collezionista che sta tentando di svaligiare. È una sorta di Robinson Crusoe da cui ci aspetteremmo pratiche d’accumulo primitivo che, invece, si trasformano in privazione e in inesorabile declino. La voce over1 di Nemo all’inizio e alla fine del film difende il potere duraturo dell’arte, ma la storia contrappone invece il valore della sopravvivenza umana al presunto valore intrinseco della stessa: cioè il suo valore in quanto arte.
Una convenzione diffusa vuole che il “colpo grosso” ci spinga a parteggiare per il ladro ed è certamente la forza iconica di Dafoe, insieme alla sua brillante recitazione, a incanalare le nostre simpatie verso la sua intraprendenza, la sua arguzia e la sua determinazione, così come verso la sua creatività decisamente non convenzionale, anche quando arriva a distruggere le opere d’arte che “mal-tratta” per i suoi scopi. L’idea è che, in questo contesto, “l’ecologia della cura” necessaria alla sopravvivenza della collezione d’arte – che include anche un timer d’irrigazione per le piante e un frigorifero che avvisa quando le scorte stanno finendo e suggerisce modi per risparmiare energia – diviene la stessa trappola da cui Nemo deve fuggire. Si tratta della stessa ecologia della cura impiegata dal museo d’arte moderno e teorizzata da Fernando Domínguez Rubio nel suo Still life (2020): il suo fulcro risiede nella connessione tracciata tra un working object (cioè un oggetto la cui “funzione” è di produrre valore estetico) e un working subject (cioè un artista la cui “funzione” è di fornire un’intenzione estetica riconoscibile, assicurando in tal modo la propria connessione al working object e, di conseguenza, il valore di quest’ultimo). Questa, sostiene Domínguez Rubio, è l’unica relazione in grado di garantire la stabilità, e dunque il valore, dell’oggetto d’arte. Una relazione che, in ultima analisi, produce un’identità tra oggetto e soggetto. In effetti, il film sollecita le sensibilità critiche del new materialism: ad esempio, quando Nemo è costretto a raccogliere l’acqua destinata alle piante, a mangiare i pesci crudi dell’acquario o ancora a riconoscere il suo stesso destino nelle sorti di un piccione che, come molti altri animali dello spazio urbano, si era probabilmente scontrato con le gigantesche finestre dell’attico per poi morire assiderato sul terrazzo. Osservato in questa chiave critica Inside sembra sperimentare, pur cautamente, con la possibilità di suggerire “un’ontologia piatta” tra soggetto e oggetti, che tuttavia ancora si aggrappa al valore inalienabile dell’essere umano in difficoltà, come prevedono le nostre aspettative culturali. Girato in sequenza su un set che replica l’attico della storia e con scene create al momento attraverso interazioni improvvisate con le opere d’arte, Inside condivide questa ecologia della cura (dell’arte), chiedendosi se possa essere estesa anche a soggetti diversi dai creatori d’arte stessi. In questo senso, il film può essere considerato un esempio di arte concettuale in forma narrativa: un lavoro sperimentale e speculativo che si dipana in un medium basato sul tempo e sulla durata.
Qui è il termine “speculazione” a offrire la chiave di lettura: come sostiene Marina Vishmidt, quando l’arte trova la sua caratteristica precipua nello speculare sul suo futuro e collude con i processi, anch’essi speculativi, dell’alta finanza essa arriva ad assumerne la forma-valore, quella della “autovalorizzazione”. Ciò significa che l’arte acquisisce valore indipendentemente dal suo destino: che si tratti di una copia o di un originale, che resti intatta o che venga distrutta, che sia nata su commissione o che sia parte di collezioni esistenti.
Del resto, il personaggio della domestica a cui Nemo chiede inutilmente aiuto, mentre attraverso le telecamere a circuito chiuso la osserva nascondersi nei recessi dell’edificio per accaparrarsi preziosi minuti di solitudine, richiama alla mente la critica che Leah Pires muove alle “strutture di parentela del modernismo”, che si può osservare attraverso la videoinstallazione di Carissa Rodriguez The Maid (2018). L’installazione segue sei dei Newborns (1993) di Sherrie Levine (a loro volta riproduzioni delle omonime sculture di Brancusi – Le Nouveau Né, 1915–20) attraverso diversi spazi di “cura”: dalle case dei collezionisti ai depositi delle istituzioni d’arte. Concentrandosi sulle sculture e non sui loro caregivers, Rodriguez estende la critica mossa da Levine contro il diritto patriarcale di autorialità tipico dell’arte moderna. Lo vediamo nelle riprese steadicam oscillanti, nelle lente panoramiche e tilting che seguono questi Newborns come se fossero esseri quasi animati nei loro ambienti (alienati), mentre, silenziosi, attendono cure umane o forse si chiedono se queste arriveranno mai. In Inside questa posizione è occupata da Nemo. Ma, mentre The Maid mette in discussione questa ecologia della cura (dell’arte), Inside si svolge pienamente al suo interno, pur criticandone alcune premesse.
Allo stesso tempo la collezione di opere d’arte – curata con maestria da Leonardo Bigazzi – sembra raccontare una storia diversa, una che solleva una critica immanente proprio all’inesorabile – e innegabile – modalità di produzione speculativa dell’opera d’arte che ha l’abilità di generare costantemente valore anche quando la distruzione o l’incuria verso l’arte vengono spettacolarizzate.
Usando un linguaggio più tradizionale si può affermare che la narrazione del film tenta di turbare la già controversa relazione tra funzione e ornamento: ciò che vediamo appeso alle pareti non ha più nulla di sacro. Persino Untitled (1999) di Maurizio Cattelan – in cui l’artista ha attaccato con nastro adesivo il suo gallerista alla parete della galleria – deve essere “liberato” (in una scena che è venuta in mente a Dafoe mentre stava lavorando sul set). Sebbene in questo caso non sia proprio chiaro chi dovrebbe, metaforicamente, essere lasciato libero di andarsene: se l’opera d’arte o il gallerista…
Nel complesso, le scelte curatoriali di Bigazzi ricusano questa distinzione semplicistica, pur mantenendo intatta la relazione tra i concetti di proprietà e decoro, che sono intrinseci all’idea stessa di oggetto di scena: Bigazzi ha infatti dovuto negoziare separatamente con ciascun artista i termini dell’apparizione in scena delle sue opere, nonché i modi in cui queste sarebbero state “mal-trattate” e forse persino distrutte nel corso delle riprese – anche se alcuni artisti hanno accolto favorevolmente l’idea che tale processo di deterioramento divenisse parte dell’opera stessa. Includendo artisti affermati (i cosiddetti “blue chip” che sono direttamente e pubblicamente legati al modo di produzione speculativo del mondo dell’arte) accanto ad altri emergenti che investono in una critica sociale più acuta (e che quindi avrebbero potuto trovarsi in difficoltà con questi processi speculativi), la collezione d’arte del film ha la capacità di riferirsi al “mondo esterno” ancor più di quanto possa fare Nemo, che arriva letteralmente a scrivere “mondo” con un pennarello indelebile nero. La collezione del set è ricca di opere che, ad esempio, si oppongono alle aspettative di permanenza o al tokenism2 della raffigurazione, come nel caso di lavori di artisti BIPOC [Black, Indigenous, and people of color]. Un esempio è il dipinto di Maxwell Alexandre, Se eu fosse vocês olhava pra mim de novo [If I Were you, I’d Look at Me Again] (2018), realizzato su carta kraft marrone, che nel film appare sullo sfondo di una gigantografia del collezionista, di sua figlia e del loro cane, scattata proprio di fronte al dipinto che, ironicamente, assume qui un formato più durevole. Ci sono poi opere che impiegano il linguaggio dell’astrazione (sociale) per rivendicare il suo collettivismo di fondo, come Memorial for Intersections #15 (2015) di Amalia Pica, che si oppone alla messa al bando dei diagrammi di Ven voluta dalla dittatura argentina per via della loro capacità di mappare linee di azione collettiva. Ancora, la collezione consta di opere che affrontano situazioni di sospensione politica ed esistenziale, come la fotografia di Adrian Paci Centro di permanenza temporanea (2007) in cui dei rifugiati sono rappresentati in uno stato di permanenza temporanea, mentre sono ammassati sulla scala d’imbarco di un aereo che, però, non c’è.
L’intenzione duplice che sottende la scelta curatoriale di Bigazzi si basa, da un lato, sulla capacità della collezione di raccontare qualcosa del suo collezionista (intenzionalità perfettamente motivata da un punto di vista narrativo e che, al tempo stesso, rispecchia alla perfezione l’analisi di Domínguez Rubio sulla dipendenza del mondo dell’arte dal legame tra soggetto e oggetto); dall’altro, su aspetti della trama che possono essere espressi molto meglio da opere d’arte dedicate a temi simili: l’intrappolamento, la sospensione, il trovare rifugio nel luogo chiuso in cui ci si trova (come la serie fotografica “Untitled” di Joanna Piotrowska, 2015-17). L’eco della loro critica sociale continua a risuonare anche dopo che le opere vengono distrutte senza troppe cerimonie. È proprio questa risonanza che serba il potenziale maggiore per la critica immanente elaborata dal film, critica che oscilla tra due poli: da un lato, l’accettazione dell’accumulo di valore nell’immagine (si pensi a Visconti che riempie cassetti e armadi di manufatti originali ne Il Gattopardo, anche se non vengono mai mostrati nel film – dunque, Inside potrebbe essere “ricco” perché contiene opere di valore); dall’altro, una critica di questi processi di accumulazione messa in scena proprio dall’immagine dell’opera d’arte stessa (in questo senso, Inside potrebbe essere un’immagine della ricchezza).
Ecco il paradosso della critica immanente, una forma di immanenza che in Inside si trasforma in un progetto dalle implicazioni architettoniche. L’attico stesso comprende infatti una serie di cripte: una stanza collocata in un luogo imprecisato, dove la videoinstallazione a due canali di Breda Beban I can’t make
you love me (2003) viene trasmessa ininterrottamente anche se nessuno la guarda – un dispendio di risorse contro cui il frigorifero avrebbe forse qualcosa da ridire; ma anche una “crepa” architettonica che Nemo attraversa con una certa riluttanza, finendo per trovare una mummia di gomma del collezionista, un libro – Il matrimonio del cielo e dell’inferno di William Blake – e, soprattutto, l’autoritratto di Schiele, fino a quel momento l’obiettivo principale introvabile del colpo grosso tentato da Nemo. Tutti oggetti che, più o meno seriamente, aspirano all’eternità. C’è anche una sorta di scantinato che Nemo visita in un sogno, scendendo una scala che è una replica della scala d’imbarco del lavoro di Paci. Qui ad accoglierlo calorosamente c’è proprio il collezionista, che gli propina delle banalità tipiche dei vernissage, anche se la mostra in questione ospita opere di artisti “socialmente impegnati” (in questo caso PROTOCOL 90/6, 2018, del duo MASBEDO – Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni).
In sostanza la critica immanente elaborata dal film è criptica: non è imperniata tanto sul tentativo di sopravvivenza e di eventuale fuga di Nemo, piuttosto è incorporata nelle opere d’arte stesse, facendosi spazio al loro interno, come una falena, animale che – come racconta Bigazzi – “si nasconde nella struttura architettonica delle case e grazie a questo comportamento trova il proprio spazio vitale”. Questa allegoria è presente in Inside grazie all’installazione Do you realise there is a rainbow even if it’s night!? (coral) (2020) dell’artista kosovaro Petrit Halilaj e Shurte Halilaj, che Nemo indosserà a un certo punto per proteggersi dalle temperature gelide.
Rispondendo alle necessità concettuali espresse dal regista, Bigazzi ha forse creato uno spazio in cui le opere d’arte della collezione possano prendere le distanze dal progetto di accumulazione primitiva che il collezionista ha, a sua volta, già compiuto. Tuttavia, con l’eccezione di qualche opera riconoscibile, tale critica potrebbe restare opaca, poco comprensibile per gli spettatori che non conoscono le opere d’arte, il loro contesto e valore. Anche se, potrebbero comunque interrogarsi sul valore artistico di tutti gli elementi della messa in scena, mettendo in discussione il loro stesso investimento in questa ostinazione a trovare un valore: fa davvero differenza cosa, nello specifico, Nemo usa per la sua fuga? È questa, in effetti, la critica immanente: l’impossibilità di conciliare i processi di creazione di valore, la storia di sopravvivenza dipanata dal film e i processi speculativi del mercato d’arte. In ultima analisi, quanto detto è inscritto anche nella brillante interpretazione di Dafoe, che sostiene e condivide questa critica immanente rifiutando gli stessi processi di creazione di valore del suo mestiere: ad esempio, la dipendenza del method acting dalla psicologizzazione dei personaggi, la feticizzazione del valore intrinseco della loro storia e della loro “esperienza vissuta”, reale o fittizia. Allontanandosene, Dafoe decide di concentrarsi sull’interazione con gli oggetti del suo ambiente, il set in cui ha vissuto per un mese intero, interpretando il personaggio in modo irriverente, creativo e ingegnoso.
Forse, in tutta la sua immanenza, è la falena a offrire la via d’uscita.