A primavera, di sabato la mattina, i saloni della Galleria Nazionale illuminati dalla luce che piove dai lucernari e entra dalle finestre sono pieni di spettatori che si soffermano davanti a un quadro, passeggiano nelle sale, scattano foto, come è ormai parte del rituale delle visite ai musei. Oltre alla collezione permanente, nelle sale che affacciano su via Gramsci, è possibile anche visitare la mostra “Un presente indicativo. Posizioni e prospettive dell’arte contemporanea a Roma”. Il sottotitolo circoscrive l’indagine alla scena artistica della città e manifesta l’intenzione di rintracciare traiettorie comuni a una generazione di artisti nati negli anni Sessanta e operativi a Roma, per restituire un nuovo, seppur parziale, racconto dell’arte, come afferma il curatore Antonello Tolve nel testo di sala che introduce la mostra.
Non so se a questo capitolo ne seguiranno altri, certamente varrebbe la pena perché questa generazione ha particolarmente sofferto la condizione di insularità che Roma ha avuto negli scorsi trenta anni, e pochissimo delle pratiche e poetiche degli artisti e delle artiste mid career che vivono e lavorano a Roma è stato oggetto di speculazioni teoriche o di esposizioni istituzionali. Da questo punto di vista è davvero importante che proprio la Galleria Nazionale abbia voluto colmare una mancanza: le mostre negli spazi pubblici sono infatti non solamente un riconoscimento, ma anche l’occasione per una verifica del proprio percorso e per un confronto tra artista e pubblico. La contiguità tra la mostra e la collezione offre inoltre una prospettiva storica che può aiutare a riconoscere linee di continuità nell’arte italiana che arrivano alla soglia del presente: la pittura di Andrea Salvino vis à vis il divisionismo italiano, ma anche l’interesse per la cultura di massa che contraddistingue gli anni Sessanta romani; Medardo Rosso come inevitabile termine di confronto nella dialettica tra scultura e immagine, nel lavoro di Andrea Aquilanti; la linea analitica della pittura italiana nel lavoro di Stanislao di Giugno, ad esempio; o ancora – tema che esplicitamente rivela il curatore – una permanenza del barocco inteso come policentralità, illusionismo, meraviglia che si può cogliere nella grande colonna tortile di Paolo Canevari o nei piccoli collage specchianti di Giuseppe Pietroniro, e nell’installazione trompe l’oeil di Marina Paris che era stata pensata per il precedente allestimento della galleria, così rievocato.
È un fatto che le riflessioni sull’arte italiana siano spesso generazionali e tematiche; penso ad alcuni libri più e meno recenti: Luca Cerizza con L’uccello e la piuma, Bartolomeo Pietromarchi con Italia in opera e recentemente Saverio Verini con La stagione incantata, hanno individuato rispettivamente nella categoria calviniana della leggerezza, nella relazione con la storia, nel gioco e nel richiamo all’infanzia, alcune specificità dell’arte italiana di oggi. In questo senso “Un presente indicativo” si potrebbe inscrivere in questo solco e le lacune (che si percepiscono), si spiegherebbero con la volontà di dare una lettura specifica a una scena che si contraddistingue per lo più per un certo (e mi viene da dire antropologico) individualismo. Resta però, a mostra visitata, la sensazione di aver visto troppo e allo stesso tempo troppo poco: moltissimi i lavori in mostra, ma il numero rischia di compromettere la lettura delle singole poetiche (penso al lavoro di Bruna Esposito), il contrappunto tra opere del presente e opere precedenti che potrebbe illuminare i singoli percorsi poetici non è sempre offerto o non è sempre puntuale (e vale lo stesso discorso per il dialogo tra opere di autori diversi, che a volte resta oscuro). Sia chiaro: non era un compito semplice curare questa mostra e forse davvero l’ipotesi di pensarla come l’overture di un percorso da approfondire in successivi episodi, e in successive istituzioni, è il giusto punto di vista con cui guardarla.