«Il sapore della costa è “pantagruelico”». Questa frase, pronunciata da un antropologo della città costiera di Barranquilla in Colombia nel documentario realizzato da Invernomuto Picó: Un parlante de Africa en America (2017), esprime in modo particolarmente efficace le ossessioni del duo formato da Simone Bertuzzi e Simone Trabucchi. I picós, sound-system customizzati e dipinti di colori vivaci usati per le feste in strada, sono emblematici degli incroci di culture che affascinano i due artisti: il picó è colombiano, frutto di una tradizione popolare che si è sviluppata negli anni Sessanta nelle città costiere dell’Atlantico; i ritmi tropicali che diffonde sono rivendicati come “africani” dai suoi promotori; i motivi dipinti con le bombolette spray fanno riferimento a simboli di potere universali – lupi, carri armati, Rambo, Thor, Gheddafi, ecc. – e servono ad affermare una sorta di supremazia mentale e territoriale. Ciò che affascina il duo di artisti è la costruzione di una cultura endogena a partire da elementi esogeni. Nel caso della tradizione dei picós, se il concetto del sound-system compare negli anni Cinquanta in Giamaica, gli altri elementi sono presi in prestito: le radici africane degli abitanti della costa sono state “riscoperte” anche grazie all’arrivo dei vinili di musica soukous, highlife, o rumba provenienti dalla costa ovest del continente africano nel porto di Barranquilla negli anni Sessanta; mentre le figure totemiche riprodotte sono tratte da un repertorio popolare globalizzato. Il risultato finale ha molteplici funzioni: esercita un potere di attrazione non solo grazie alla qualità del suono e al ritmo frenetico della musica del dj di turno, ma anche attraverso il suo aspetto visivo e il suo programma iconografico divulgativo; è un marchio dell’identità della comunità e stimola una narrazione anti-egemonica che ne valorizza la discendenza africana.
È grazie alla musica, ambito in cui operano anche come dj, compositori e produttori (usando svariati pseudonimi, tra cui Dracula Lewis e Still per Trabucchi e Palm Wine per Bertuzzi) che i due hanno cominciato a interessarsi al fenomeno dell’ibridazione culturale. La capacità della musica di circolare, trascendere i luoghi, innescare appropriazioni e trasformarsi in funzione delle sue migrazioni da un campo della cultura all’altro, la rendono una tematica particolarmente feconda sul piano teorico. Come Paul Gilroy ha magistralmente dimostrato per ciò che riguarda la musica nera in The Black Atlantic. Modernity and Double-Consciousness (Harvard University Press, Cambridge 1993), la musica gioca un ruolo preminente nel processo di costruzione identitaria e nei rapporti di potere, al punto da rivelarsi essenziale per tracciare delle contro-storie. Non stupisce, quindi, che la sua natura ibrida sia oggetto di studio delle teorie post-coloniali, uno strumento utile a mettere in discussione alcune convinzioni occidentali riguardo i concetti di originalità, autenticità e identità, largamente percepiti, invece, come ipostatici e naturali.
Sebbene la musica sia onnipresente nei video e nelle installazioni di Invernomuto, essa viene sempre inserita in una riflessione più ampia sulle costruzioni identitarie, gli immaginari e le posizioni che ne risultano. Questo vale anche per l’interesse del duo per la cultura rastafariana, che ha portato Bertuzzi e Trabucchi a realizzare svariate installazioni e film legati al tema. Nel ciclo di opere consacrate al Negus (2011-16), il duo si concentra sul culto nato negli anni Trenta intorno a Hailé Selassié, ultimo imperatore d’Etiopia, visto dai Rastafariani come un Messia portatore di speranza e di liberazione nella diaspora di origine africana. Quest’incursione nel rastafarianesimo ha permesso al duo di esaminare altri aspetti legati al personaggio storico di Selassié e al culto a lui dedicato: da una prospettiva storico-culturale italiana, la demonizzazione di cui Selassié è stato fatto oggetto al tempo della colonizzazione dell’Etiopia; dal punto di vista musicale, la dimensione mistica del reggae e del dub che deriva dallo stretto legame con la religione; in Etiopia, la vicenda della città di Shashamane, dove negli anni Sessanta si è stabilita l’unica colonia rasta di individui (giamaicani, americani ecc.) della diaspora africana; e molto più lontano, in Nuova Zelanda, la strana storia di una comunità Maori che negli anni Ottanta ha adottato il rastafarianesimo. Queste diverse rappresentazioni e percezioni si scontrano negli oggetti, nelle installazioni e nei film di Invernomuto, che rimangono volutamente elusivi nel significato e nella contestualizzazione per lasciare spazio a nuove interpretazioni.
Così nella scultura intitolata Zion, Landscape (2014), composta da una scala a chiocciola autoportante appoggiata a un palo ricoperto da piante tropicali, sulle cui assi di legno sono stampate delle silhouettes di alberi, convergono tutte insieme l’idea della Terra promessa (“zion” nel culto rastafariano), il riferimento al monumento a forma di scala eretto dai fascisti ad Addis Abeba di fronte al palazzo imperiale – poi modificato dall’Imperatore stesso dopo la disfatta italiana – e l’esotismo a buon mercato della destinazione divenuta meta turistica. A Marsèlleria, Milano, nel 2014, la scultura è stata presentata in un’installazione intitolata Ruatoria (dal nome della città dei Maori rastafariani), illuminata da uno spot giallo intenso che ne teatralizzava il carattere enigmatico. In una seconda presentazione alla Quadriennale d’Arte di Roma nel 2016 è stata invece installata davanti a un muro dipinto nella tonalità di verde generalmente usata per le tecnologie d’inserimento d’immagine – come se la promessa di un paradiso futuro venisse aperta a tutte le proiezioni mentali. Ciò che caratterizza l’approccio di Invernomuto è la volontà di non accontentarsi di operare una decostruzione dei simboli e delle narrazioni dominanti alla maniera degli “artisti etnografi” descritti dallo storico dell’arte Hal Foster.[1] Bertuzzi e Trabucchi, attraverso un processo di creazione improntato a sua volta su un principio di ibridazione, cercano piuttosto di rimettere in circolo il potere d’azione, cioè l’agency di questi elementi, resi inoffensivi dall’oblio e dalla disillusione delle battaglie perse.
Nel video Calendoola: UTU (2016), gli artisti affrontano la rocambolesca storia dei Dreads, i Maori diventati rastafariani. Qui ritroviamo l’attenzione per le rivendicazioni identitarie che si affermano paradossalmente grazie all’integrazione di elementi culturali esogeni. La comunità maori di Ruatoria, ispirandosi all’ideologia di riconquista della terra “rubata” veicolata dal culto rastafariano, è nota per le sue rivendicazioni territoriali e gli atti di violenza contro la popolazione bianca, proprietaria delle terre dai tempi della colonizzazione della Nuova Zelanda. Pur aprendosi con un montaggio di fotografie che consentono di inquadrare il contesto storico, Calendoola: UTU si evolve rapidamente verso una forma di narrazione ispirata alle serie televisive. Girato solamente in interni, i rapporti di antagonismo tra i protagonisti vengono enfatizzati grazie al ricorso a personaggi archetipici, dialoghi volutamente grezzi e una messa in scena quasi barocca, condita di effetti speciali grossolani. Tra spaghetti western, telenovela, e film underground occulto, Calendooola mescola i generi e le identità. I personaggi sono tutti impersonati da attori bianchi; i dialoghi passano dall’inglese, all’italiano, allo spagnolo e al francese senza transizioni; fanno la loro comparsa nel film l’Arca dell’Alleanza, così come una figura femminile con vestiti da cerimonia simili a quelli di Selassie e un pollo sacrificale; e l’anello magico della celebre trilogia girata in Nuova Zelanda da Peter Jackson adorna l’homepage del sito internet promozionale della serie televisiva! Calendoola: UTU si può leggere come una specie di ode al sincretismo (estetico, politico, linguistico) che mette in risalto l’universalità della tematica trattata: la ricerca di emancipazione di un popolo e le svariate strategie narrative (religiose, mitologiche, immaginarie) messe in atto per autolegittimarsi.
Tutto sembra capovolgersi nel secondo episodio di Calendoola, che il duo sta realizzando in vista della presentazione al Premio MAXXI Bulgari. Questa volta siamo in esterna. Le scenografie della Roma antica del parco a tema Cinecittà World e il litorale di Sabaudia, reso noto dalle tante pellicole che vi sono state girate e luogo di villeggiatura di attori e registi nel dopoguerra, sembrano essere i protagonisti, mentre gli attori vengono relegati al rango di mere comparse. La presenza anacronistica di un elefante potrebbe voler evocare l’episodio mitico di Annibale che entrò in Italia a cavallo di un elefante durante le guerre puniche. Ma qui non c’è alcuna invasione, il pachiderma è solo, gli spazi deserti, i pochi personaggi sconfitti e smarriti. L’immagine del mare che prende fuoco fa riferimento al verbo arabo haraqa [bruciare] utilizzato sull’altra sponda del Mediterraneo per evocare la sorte di chi ha tentato la traversata a proprio rischio e pericolo per cercare una vita migliore in Europa. Emerge così il racconto latente di una relazione fantasmatica e tumultuosa tra le due sponde del Mare Nostrum, dove l’incubo dell’invasione straniera ha una lunga storia alle spalle. Oggi, nel pieno di un’ennesima crisi migratoria, in ambiente accademico e nel mondo dell’attivismo si utilizza l’espressione “Mediterraneo nero” per far riferimento ad un ampio territorio geografico i cui confini settentrionali (quelli dell’Italia ma anche della Spagna e della Francia) si stanno trasformando in uno spazio di iterazione multiculturale. Ancora una volta Invernomuto indaga i rapporti di dominazione attraverso le loro rappresentazioni archetipiche, qui concentrandosi in particolare su quelle veicolati dal peplum, genere che, insieme allo spaghetti western, ha portato al successo mondiale dell’industria cinematografica italiana.
Il film Vers l’Europa deserta, terra incognita, che precede questa nuova iterazione di Calendoola, affronta il tema da una diversa angolazione. Prodotto in occasione della Notte Bianca di Parigi nel 2017, il film ha per protagonisti due giovani poco più che adolescenti che compaiono negli ultimi video del gruppo rap francese PNL. A partire dal quartiere periferico Les Tarterêts di cui sono originari, i due protagonisti vengono proiettati in contesti “estranei”: li seguiamo mentre si aggirano per musei, teatri e altri luoghi carichi di storia nel centro di Parigi, per poi ritrovarli, grazie alla magia del montaggio, a vagare alla stessa maniera per un decrepito quartiere di periferia di cui riconosciamo l’inconfondibile architettura: le Vele di Scampia, a nord di Napoli, dove PNL ha girato il suo primo videoclip Le monde ou rien (2015). Il vagare senza scopo dei due ragazzi provoca un senso di disagio: non sembrano conoscere i luoghi in cui si trovano, e lo spettatore è messo di fronte alla questione se siano in grado o meno di appropriarsene. L’andirivieni continuo da uno spazio all’altro, da un movimento all’altro, accompagnati dai ritmi ripetitivi e frastornanti della musica elettronica, accentuano la coesistenza di estraneità e osmosi che si instaura tra i due personaggi e l’ambiente in cui si muovono. Il formato verticale dell’immagine, che ci ricorda quello dei telefonini, e il modo in cui i ragazzi prendono la telecamera per filmarsi, dirigono la riflessione sulle modalità di rappresentazione del sé. La telecamera, molto presente, diventa il vettore che evidenzia il processo di relazionalità, sottolineando così le influenze reciproche del contesto e della soggettività nella costruzione dell’identità dei due giovani. Per Invernomuto, la scelta dei PNL di filmarsi in territori estranei (Napoli, l’Islanda, la Namibia, i luoghi simbolici del potere a Parigi, ecc.) va di pari passo con il desiderio di fare a meno del potere dell’industria discografica utilizzando la rete come canale di diffusione principale. L’essere padroni del proprio destino si lega alla scelta di aprirsi all’alterità.