“Coraggio!” gridano due performer all’unisono, in piedi, nell’azione di Italo Zuffi (Imola, 1969; vive a Milano), L’ultimo ruggito (2008). L’incitamento è apparentemente rivolto ad altri performer, che invece perdurano in una singolare coreografia nella quale i due in piedi hanno fallito: inginocchiati a coppie, l’uno di fronte all’altro, i performer afferrano tra i denti un cracker e, a brevi intervalli, battono le mani dietro la schiena. Questo gesto scandisce temporalmente l’azione, ma compromette la staticità della posa – ben presto un altro cracker si rompe e la coppia in questione si alza in piedi e si unisce all’altra nella declamazione: “Coraggio!” Quando però anche l’ultimo cracker si sbriciola e l’ultima coppia si alza in piedi, l’incitamento, gridato oramai da un vero e proprio coro di voci, non ha più un referente diretto e cade nel vuoto – o meglio, cade addosso agli spettatori, che inevitabilmente non possono che declinarlo come un riferimento alle miserie della propria esistenza. Coraggio! L’azione è finita; tornate alle vostre case. Domani è un altro giorno.
Quell’incitamento, tuttavia, pare rivolto soprattutto dall’artista a se stesso – l’azione configurata con lo stesso grado di metodicità e sfuggevolezza che caratterizza una pratica creativa. È necessario farsi coraggio per fare e continuare a fare arte, sembra insinuare Zuffi… Invero tutta la sua parabola artistica è segnata da una certa insofferenza nei confronti della creazione nuda e cruda; un’insofferenza che necessariamente si scontra con le forze sistematizzanti dell’industria dell’arte e che inquadra l’artista come un creatore “con l’affanno”. Zuffi, nonostante la sua opera ventennale, le sue numerose mostre personali e performance e partecipazioni a grandi mostre e kermesse artistiche, rimane agli occhi degli operatori dell’arte un cane sciolto, un autonomo. Con quale galleria lavora? Boh. Con nessuna. Forse… Ma quindi le fa ancora delle mostre?
È singolare che proprio su questa domanda s’imperni un’altra azione dell’artista, Ho difeso il tuo onore (2010), dove un attore recita a uno spettatore un’e-mail inviata da un critico d’arte a Zuffi nella quale il critico sostiene di averlo lodato di fronte a quell’interrogativo, pronunciato con aria beffarda da una terza persona – l’azione condotta alla presenza di una targhetta che riporta il nome dell’artista appesa alla parete in maniera sghemba. A ben guardare, infatti, Zuffi è un artista più che attivo, anzi: prolifico. L’insofferenza di cui sopra non ne ostacola la produzione, ma è piuttosto una zavorra che ne trattiene le opere dal darsi come jouissance, come esternazione assertiva ed energica. Quelle sono invece coagulati di una progettualità che è un fiume in piena ma in cui spesso confluiscono umane-troppo-umane ossessioni. La loro formalizzazione, per impiegare un’espressione accademica, avviene spesso sotto la più “sistemica” delle imposizioni: la deadline, la scadenza. Le opere quindi si danno, ovvero si consegnano. Ma la deadline, come un metronomo che cadenza la pratica dell’artista, produce solo delle aritmie: delle opere che, per quanto concluse, restano sospese nello spettro delle loro potenziali altre forme, e così interrogano intimamente il senso del fare, del mostrare, del diffondere arte.
Ad esempio, la più recente mostra personale di Zuffi, “postura, posa, differita” (2016), ad ar/ge kunst, Bolzano, raccoglie tre corpus di opere accomunati dall’impiego dell’archivio come mezzo per procrastinare nella raccolta e catalogazione dei materiali il momento cruciale della “nascita” dell’opera. Sta meglio la ragazza caduta nel vuoto (2001-2016) si compone di ritagli da quotidiani, ognuno dei quali racconta un episodio di cronaca analogo a quello menzionato in uno strillo trovato dall’artista anni fa: una giovane donna precipitata dall’alto è sopravvissuta alla caduta ed è in via di guarigione. Ai ritagli si accompagna una coppia di lamiere, identiche tra loro, su cui è stato intagliato il testo dello strillo. Laddove Sta meglio la ragazza caduta nel vuoto solleva un dialogo caro a Zuffi, quello tra la mollezza e la rigidità del corpo umano, questo stesso dialogo si astrae a sollevare questioni di esitazione e controllo nella forma dell’opera. Le lamiere, in particolare, paiono avere qui una funzione di contraltare ai ritagli: paralizzano un’informazione, poetica nella resa linguistica e che suggerisce un prodigio – un’informazione, quindi, che fortemente tende all’astrazione. Zuffi se ne appropria, non solo appropriandosi letteralmente della fonte, ma inscrivendola, brutalmente, in un materiale industriale, tenace e pesante. Mostrate accanto ai ritagli, le lamiere diventano una lapidaria barriera alla risonanza dell’informazione: al sentimento di speranza che quella evoca e, allo stesso tempo, alla prospettiva per l’artista di continuare l’archiviazione smarrendosi nella suggestione di questi eventi – incolumi lanci nel vuoto – che hanno del “magico”; come un boomerang, l’incisività delle lamiere rimbalza sull’opera stessa, è un autoimposto tentativo di “chiuderla”.
La stessa mostra include un’altra opera sotto forma di archivio, che tuttavia si rivela un’arma a doppio taglio nella produzione dell’artista: I rigidi (2006-2016) è una collezione di immagini di corpi irrigiditi, spesso documentazioni di performance di altri artisti. A dare avvio all’archiviazione è l’assonanza, affermata in più occasioni da varie persone, tra una delle sue prime opere, The Reminder (1997), un’azione nella quale l’artista si “aggiusta” in una serie di posture, e un’opera di Bruce Nauman. Zuffi, nel tempo, raccoglie immagini di Charles Ray, Klaus Rilke, Bruce McLean, Ugo La Pietra, Valie Export ecc. notando che un interesse nell’irrigidimento del corpo ricorre nelle prime fasi della parabola di molti artisti. I rigidi finisce quindi per invalidare il carattere sperimentale di The Reminder, diluendolo in una sensibilità vaga e al tempo stesso contingente al momento costitutivo di qualsiasi ricerca affine alla Body Art. L’opera traccia così un recinto all’interno del quale la produzione di Zuffi rimane come intrappolata, una costellazione di pratiche artistiche che se presentate tutte insieme comporrebbero la più coerente (e ovvia) mostra collettiva. L’artista non costruisce la propria cosmogonia; piuttosto si annichilisce nella genericità della storia dell’arte.
Zuffi si direbbe un artista che “realizza compiutamente e tradisce sistematicamente”. [Andrea Viliani, “Per un archivio corale dell’arte italiana dell’Autonomia”, in Vincenzo De Bellis, a cura di, L’archivio corale, Mousse Publishing/La Triennale di Milano, Milano, 2015, p. 108.] La sua produzione si articola su due fronti: da una parte un’esplorazione dell’interiorità, spesso condotta attraverso la scultura, dall’altra una ricerca intorno alla figura dell’artista. Rispetto all’industria dell’arte e della creatività in senso più ampio, questo dualismo proietta dei vicoli ciechi, dei cul-de-sac nei quali i modi di fare arte sono inconsapevolmente capitati. Zuffi sembra abbracciare una ad una le strategie creative; e più quelle sono diffuse, testate, sistematizzate, più il suo modo di fare si radicalizza in una riproposizione arida e una sottrazione di ogni spinta proattiva dell’atto del creare. Le sue opere, e in particolare quelle affini alla seconda linea di ricerca, si nutrono della sua partecipazione all’industria dell’arte, nei termini in cui inglobano l’apparato di relazioni che si “appoggia” alla pratica. Quelle però emergono come proiezioni spettrali di tale apparato, “riverberi” dei meccanismi che lo regolano. Zuffi, si direbbe, persegue una strategia di “organizzazione dell’alienazione”, per riprendere un’espressione di Mario Tronti. [Mario Tronti, Operai e capitale, DeriveApprodi, Roma, 2013, pp. 263-64.] Se l’industria dell’arte è in grado di reiterare solo uno scenario normativo, è dovere dell’artista, di riflesso, alienarsi programmaticamente in essa.
Emilio Prini amava affermare: “Non creo, se è possibile”. Ma un rifiuto netto della creazione significherebbe per Zuffi una resa incondizionata all’industria dell’arte. L’atto creativo, invece, ne dovrebbe affermare delle criticità. Esso può quindi emergere come un gesto simulacrale del fare arte; può convogliare, appunto, un certo grado di insofferenza, di fatica, rispetto alle dinamiche di produzione e distribuzione dell’opera; come pure può affermarsi al pari di una vera e propria negazione. Nella produzione di Zuffi si enumerano tante opere che paiono “nate-morte”. Si pensi a Escalation (2012), un’azione mossa da una collezione di “occasioni mancate” nella carriera dell’artista. Zuffi la descrive in questi termini: Un’attrice è a disposizione del pubblico: ha memorizzato il contenuto di tre lettere dall’esito negativo che mi erano state spedite in passato, inerenti la mia pratica artistica. A richiesta, l’attrice recita ciascuna lettera dietro modesta retribuzione: due euro per la prima, tre per la seconda e quattro per la terza. Il compenso richiesto al pubblico è stato stabilito sia in base al grado di aspettativa che aveva preceduto l’arrivo di ogni lettera, sia alle ripercussioni sulla mia pratica che la risposta negativa ha poi determinato. [Italo Zuffi, a cura di, Also a Little Performative, Fortino Editions, Miami, 2013, p. 71.]
Oppure a Esponenti (2010-15), una serie fotografica che ritrae un gallerista milanese, uno dei tanti player che entrano ed escono dalla vita degli artisti generando solo false speranze. Zuffi lo incontra ufficiosamente, ma la conversazione non progredisce in nessuna vera collaborazione professionale. Comincia allora a scattagli delle foto, di nascosto, ogni volta che lo incontra incidentalmente – per strada, a un’inaugurazione, mentre entra ed esce dalla galleria che, anche qui per puro caso, ha sede a poca distanza dall’abitazione dell’artista. Anche questi scatti rubati manifestano altrettante occasioni mancate. O ancora a Zuffi per Bonami (2010), una performance costruita su una coppia di CD contenenti il portfolio dell’artista, uno in lingua italiana, l’altro in inglese, compilati per il critico e curatore Francesco Bonami, ma mai recapitatigli. Zuffi ritrova i CD in una scatola consegnatagli dalla sua ex galleria, la Galleria Continua, e inevitabilmente si domanda come e perché quei materiali siano, in un certo senso, “tornati” al mittente… Nella performance, le copertine dei due CD sono stampate su dei foulard appesi alle pareti dello spazio espositivo; due gruppi di performer entrano nello spazio, indossano al collo i foulard e si posizionano in due ranghi. A turno i gruppi eseguono una coreografia a metà tra una marcia e una danza folcloristica e, uno di risposta all’altro, gridano le frasi riportate sulle copertine dei CD: “Zuffi per Bonami” e “Zuffi per Bonami inglese”: “concitata rincorsa verso la dimensione internazionale”, la definisce l’artista. [Italo Zuffi, op. cit., p. 64.]
Di fronte a queste opere abbandonarsi al pietismo significa comprenderle solo in parte; né leggerle in chiave di un commento espresso con humor nero ne esaurisce il messaggio… Attraverso la sua esplorazione della figura dell’artista, Zuffi, piuttosto, disegna per se stesso un non-ruolo che trascende l’antagonismo e l’anacoresi, per abbracciare una programmatica e partecipativa posizione di “inquietudine” verso meccanismi dell’industria dell’arte; e, anzi, mettere in campo un’abilità di radicalizzare le proprie ossessioni e delusioni perché emergano come disfunzioni di quello stesso sistema. È qui che l’artista richiede un gesto di coraggio: in un atto creativo che, finalmente, interiorizza l’alienazione all’industria dell’arte, come una condizione per ritrovare, paradossalmente, l’arte stessa.