Incontrai James Collins per la prima volta dieci anni fa [nel 1968, ndr], quando entrambi insegnavamo al London College of Printing, una scuola di grafica e fotografia. Fui immediatamente colpita dalla sua notevole energia e dal suo entusiasmo — sembrava pensare e agire con maggiore rapidità di altri, come se la sua velocità metabolica fosse accelerata. Alle 9.30, quando cominciavano le lezioni e gli studenti entravano trascinandosi come in letargo, aveva già trascorso diverse ore nel suo studio a lavorare. E con il passare della mattinata si percepiva la sua crescente agitazione, fino a quando spariva per comprare del materiale, per portare delle fotografie a sviluppare, e così via, tornando poco dopo un po’ più rilassato. Una volta preso dal suo lavoro, il desiderio di portarlo avanti con tutte le forze era così intenso che le altre attività diventavano una specie di forzata pigrizia e gli sembravano una tortura.
In quel periodo in Inghilterra gli artisti erano fortemente influenzati dagli Stati Uniti — ci sentivamo come poveri provinciali rispetto ai nostri fratelli maggiori più colti e avevamo gli occhi completamente puntati agli sviluppi al di là dell’Atlantico. Divoravamo Artforum per avere informazioni e visitavamo religiosamente le gallerie Whitechapel, Kasmin e Robert Fraser per vedere tutte le mostre americane. Gli artisti inglesi adottavano metodi e stile di lavoro americani, così la loro produzione aveva sia l’aspetto sia il sapore di New York.
James Collins, come era tipico, aveva uno studio enorme simile a quelli degli amici di New York, dove realizzava quadri bellissimi, colorati vivacemente, lucidi e opachi, dipinti a macchie e a spruzzo. Una serie di lavori intitolata “Double Language” del 1968 stabiliva “conversazioni” visive fra una parte del quadro e l’altra per mezzo di pannelli di tela inseriti allo stesso livello della superficie che “dicevano al resto del quadro cosa fare!”. Una scatola rossa lucidissima, per esempio, sembrava suggerire alla tela adiacente di diventare rossa, oppure opaca invece che lucida. Ispirati da Jasper Johns, questi quadri ricordavano fortemente anche nella dimensione e nell’aspetto Morris Louis e Clyfford Still — erano assolutamente americani.
Come molti di noi, James Collins aveva visitato New York per l’energia stimolante e la rapidità e per un modo di fare arte serio che mancava in Inghilterra, dove persisteva un approccio amatoriale. Dunque, era difficile riadattarsi al nostro ritmo di vita più lento, specialmente per il veloce James Collins, a cui il suo paese sembrava un buon posto per andare in pensione, ma non un luogo dove respirare un’atmosfera vitale e in cui essere giovane e attivo. Qui la gente rispondeva freddamente e con scetticismo alla sua invadenza e al suo zelo, che erano veramente troppo spiccati per la nostra sensibilità britannica. New York, d’altra parte, sembrava un paradiso di possibilità dove i cambiamenti erano incoraggiati, le nuove idee apprezzate, le iniziative originali e i nuovi volti benvenuti. Molti artisti della nostra generazione, e James Collins era tra questi, si trasferirono là insieme a medici, scienziati e accademici, come parte di quella fuga di cervelli. Molti scoprirono che le loro prime impressioni erano state illusorie, o che non potevano sopravvivere alla competizione del mondo dell’arte di New York, ma altri come Collins ebbero successo in questo nuovo ambiente esilarante.
Prima di lasciare l’Inghilterra, aveva già smesso di dipingere e, influenzato da quanto lo circondava, aveva iniziato a fare esperimenti con la fotografia. Cominciava infatti, nel 1969-70, con il movimento concettuale, una dura reazione contro la pittura e la scultura, e venivano avanzate potenti argomentazioni per metter fine alla pittura, considerata un mezzo di espressione auto-indulgente, infantile e ridicolmente impreciso. Al suo posto si proponeva la chiara logica delle parole come mezzo di comunicazione più rigoroso, adulto e intellegibile. Wittgenstein era il mentore di questo movimento che si allineava alla filosofia, all’estetica e alla critica, in quanto attività della mente in opposizione al brutto mestiere manuale della pittura e della scultura. Improvvisamente ci si sentì imbarazzati nel tenere in mano un pennello, gli studi enormi divennero ridondanti, pistole a spruzzo, compressori, legno e tela furono svenduti a prezzi stracciati per essere rimpiazzati con macchine da scrivere e macchine fotografiche!
Collins cominciò a interessarsi alle convenzioni sociali che in questo paese regolano il nostro comportamento in modo così preciso. Voleva agire direttamente come catalizzatore per smantellare codici ed etichette e realizzò una serie di “Introduction Pieces”, in cui l’atto di presentare l’un l’altro alcuni estranei seduti vicini e senza parlare nelle panchine del parco alludeva a una rottura dei loro educati silenzi. Gli avvenimenti venivano fotografati come lavori d’arte e Collins descriveva il suo ruolo attuale simile a quello dei pittori, in quanto in ogni caso elementi disparati, fossero pigmenti o persone, erano fatti interagire in modo nuovo. Cominciò a scrivere testi esplicativi che gradualmente sarebbero diventati più importanti delle fotografie e degli eventi che testimoniavano. Fu durante questa fase esplicativa, nel 1970, che lasciò definitivamente l’Inghilterra e si stabilì a New York, dove studiò filosofia per rafforzare le basi concettuali del suo lavoro. Si dedicò anche alla critica d’arte e iniziò a scrivere regolarmente per Artforum. Questo fu per lui un importante momento di rivalutazione. Il dover prendere in considerazione il lavoro di altre persone lo portò a rivedere la sua posizione e si rese conto di quanto fosse problematico per un artista dare qualcosa di unicamente proprio a qualsiasi lavoro, ma ciò nondimeno era un passo coraggioso da compiere per capitalizzare i pensieri e i sentimenti personali.
Fino ad allora il lavoro di Collins aveva seguito la corrente generale, ma ora con l’accresciuta fiducia in se stesso si sentiva capace di cambiare orientamento e, invece di prendere spunto dalla storia dell’arte o da altri artisti, cominciò a osservare all’interno del suo mondo privato. Un’ossessione, oltre alla sua arte, lo ha condizionato per anni: il piacere di guardare donne e ragazze bellissime. In molte occasioni ne ha seguita qualcuna che lo aveva particolarmente attratto, lungo tutta la strada fino a destinazione solo per il piacere di osservarla. Ora ha imbrigliato il suo voyeurismo e invece di tenerlo privato e separato, lo utilizza come fonte creativa, come soggetto dei suoi film e delle sue fotografie recenti. Ha rifiutato la sua fase concettuale, rinunciando a scrivere, se non sporadicamente, ed è ritornato a oltranza alle immagini attraverso la realizzazione di grandi e bellissime fotografie che fanno riferimento sia alla pittura sia alla vita quotidiana, e che attingono anche a tutte le fasi del suo lavoro precedente. Questa fusione di interessi e di attività ha dato prova di costituire un matrimonio solido da cui è scaturita una produzione ricca di livelli di significato e di associazioni, e di un futuro potenziale.