Trovandomi a descrivere il lavoro di Jean-Luc Moulène (Francia, 1955; vive a Parigi) molto spesso ho fatto ricorso a parole che indicano la parte più intima di una cosa – midollo, cuore, nucleo ecc. Osservando le opere più recenti dell’artista, si nota infatti come queste non catalizzino solo lo sguardo, ma azzardino una via verso l’interiorità di un altro oggetto, presenza o materiale – un approccio all’essenza della cosa. In questo senso, Moulène è un artista in grado di riflettere sia sulla peculiarità che sulla necessità di espressioni d’empatia, una delle questioni più critiche della nostra epoca. Con ciò non intendo dire che il suo sia un pensiero gentile o altruistico nei confronti di come possa sentirsi un’altra persona. È piuttosto il tentativo di andare in profondità in qualcosa di violento, problematico o alieno, nell’unico modo in cui ci è concesso: ovvero attraverso l’uso della speculazione, dell’immaginazione, dell’esperienza, della logica, o adottando una qualche tecnica Stanislavskiana di personificazione. Non dimentichiamo che tutte le strategie attraverso cui cerchiamo di comprendere gli altri sono brusche, audaci e, per loro natura, imperfette. Eppure, il tentativo è di per sé significativo in un’era di pregiudizi, bolle di consenso, reportage post-fattuali e di una politica guidata dalle emozioni. Le strutture con cui assembliamo politicamente noi stessi – algoritmi, social network, media di click, i mercati – ci isolano da ciò con cui siamo in disaccordo. Siamo entrati in un’era di polarizzazione e fantasticherie, con morali cavernose e divari politici che possono sembrare, a volte, incolmabili.
Alcuni lavori di Moulène offrono una rappresentazione materiale di questo problema, presentando vuoti effettivi che sono genuinamente irraggiungibili. Un esempio è Tronches / Gardiens écorchés (Paris, May 2014) (2014), una scultura prodotta tramite il calco in cemento di una maschera di Halloween. Quando mi sono avvicinata all’opera per osservarla da vicino, mi ha colpito il solo pensare a quanto ermetico potesse risultare un oggetto – una superficie chiusa su se stessa, spesso impenetrabile. Eppure questa testa e la sua presenza si sono fatte strada dentro di me, come se automaticamente la mia mente, in un tentativo di produzione di senso, volesse confrontare la testa-scultura alla mia testa. A ossessionarmi sono state le due file di denti che sporgono in maniera singolare, impresse in negativo. Improvvisamente il mio sguardo è oscillato in maniera contorta verso l’interno dell’oggetto. Ho pensato a un punto di vista idealmente collocato al centro della mio corpo, dal quale fossi in grado di guardare i miei denti dall’interno. Questa sensazione di uno sguardo capovolto sembra essere particolarmente rilevante anche nelle altre maschere mostruose che l’artista ha selezionato per questa serie di sculture. Nella mostra del 2014 “Torture Concrete” alla galleria Miguel Abreu di New York, numerose altre Tronches – realizzate con maschere tra cui un Joker, un dragone e una scimmia volante – giacevano sul pavimento appoggiate su coperte da imballaggio blu, suggerendo una complessa verità sulla natura dell’empatia: ovvero, che non è possibile rovesciare materialmente il proprio sguardo nell’intento di analizzare un altro essere, senza innescare un conflitto con se stessi e con il proprio corpo. (Che quel gardien écorché [una guardia tormentata] sia piuttosto la maschera di un volto scorticato?)
Creare qualcosa che è esplicitamente e direttamente in lotta con se stesso, che soffoca, s’imbavaglia, si denigra, s’interroga sul proprio status come un oggetto, è una parte centrale nella pratica di Moulène. Consideriamo quella che forse è la più nota tra le sue serie fotografiche, Objets de grêve [Oggetti di sciopero] (1999–2000); questa documenta prodotti fabbricati da lavoratori in sciopero, ritratti su uno sfondo neutrale. (Moulène ha lavorato principalmente con la fotografia fino ai primi anni 2000; queste immagini, in particolare, sembrano rimandare all’epoca in cui lavorava nel settore pubblicitario). Ad esempio, un pacchetto di Gauloises è stato realizzato in rosso anziché nel classico blu e riporta al di sotto del logo le parole “ocupée depuis le 23.2.82 pour le redémarrage, contre la fermeture de l’établissement”. L’etichetta di una bottiglia di detergente afferma che il prodotto profuma di “parfum de solidarite” e raffigura il palmo di una mano aperta con le parole “touche pas a mon emploi!”. Il retro di un orologio porta incisi i dettagli di uno scontro dell’ottobre 1974. Mentre sul fondo di una padella si legge la parola “relaxe”, circondato da “emploi”, “solidarité”, “liberté” e “justice.”
Per quanto questi oggetti siano affascinanti da un punto di vista storico e antropologico, essi implicano una strana forma di tautologia che giace al cuore della loro stessa esistenza. Pur “non lavorando”, i lavoratori hanno comunque lavorato, veicolando i segnali di arresto attraverso altri mezzi. La relazione del prodotto con il proprio consumatore è riaffermata attraverso la continuità della produzione e distribuzione del prodotto, ma la natura stessa di queste operazioni è messa in discussione. Il conflitto è alla radice dell’oggetto. Moulène adotta un simile approccio in una serie successiva, Produits de Palestine [Prodotti di Palestina] (2002–04), fotografando prodotti realizzati nei territori occupati della striscia di Gaza e nella Cisgiordania e catalogati come palestinesi. A causa di sanzioni, i beni di consumo di dichiarata origine palestinese non possono abbandonare il luogo in cui sono stati prodotti. Bottiglie di olio d’oliva e pomodori in scatola vengono elegantemente ritratti da Moulène in coppia, nello stile di un’ammiccante fotografia di still-life, sebbene rappresentino una sorta di inviluppo nel sistema circolatorio, un’occlusione, uno strangolamento.
Ma corpi umani e territori non sono le uniche zone di conflitto su cui prendono forma i lavori di Moulène. La Vigie (The Lookout Man) (2004–11), è un monumentale saggio fotografico dedicato a una particolare specie di pianta, la paulownia tomentosa, chiamata a volte “albero della principessa”. L’artista ha dato avvio alla serie quando ha notato una pianta germogliare in una crepa dell’asfalto davanti al Ministero della Finanza di Parigi. Seguendo la diffusione di questo tenace germoglio attraverso la città nei sette anni successivi, Moulène ha realizzato una serie di 299 scatti in cui sia lui che la paulownia rivestono il ruolo di testimoni di un’escalation di terrore che pervade le strade parigine e dell’implementazione di misure di sicurezza anti-terrorismo, come bitte, recinzioni e barricate istituite dal sistema di sicurezza nazionale dell’era del Vigipirate. È di un’ironia minacciosa il fatto che negli anni in cui la serie è stata completata, il rapporto con il terrore a Parigi e in Francia sia effettivamente divenuto sempre più problematico.
Ma cosa significa immaginare che una pianta, così come un artista, assuma il ruolo di osservatore del mondo, da un punto di vista all’altezza delle caviglie? In Pond, un romanzo di Claire Louise Bennett di recente pubblicazione, la protagonista descrive la storia di un libro semi-dimenticato in cui l’ultima donna sopravvissuta realizza di essere equiparabile a qualsiasi altro tipo di oggetto, dal momento in cui non ci sono più né altre specie né comunità intorno a lei, ma solamente il suo corpo.
“In alcuni momenti ho alzato lo sguardo dalle pagine, convincendomi che potesse esserci un’opportunità di provare, anche solo parzialmente, cosa avesse avvertito quando si era guardata in volto con la stessa attenzione che si rivolge alla corteccia di un albero, alla superficie di una roccia, alla pelle di una pesca; in quei pochi momenti era come se le pupille nei miei occhi diventassero un tunnel e io vi fossi improvvisamente risucchiata indietro”. [Riverhead Books, 2016, p. 90]
Questa descrizione di uno sguardo interiorizzato che viene “risucchiato indietro” di fronte alla possibilità di osservare sé stessi e il mondo contemporaneamente, e persino in relazione a animali, oggetti, o rocce, evoca straordinariamente l’esperienza di coinvolgimento innescata dalle opere di Moulène – ad esempio Arthur (2010), una scultura in cui un teschio umano è parzialmente incastonato in un blocco di cemento in modo che solo la corona del cranio emerga. Oppure Tête-à-Cul (Paris, spring 2014) (2014), una scultura sospesa composta dalla mandibola di un cinghiale e dall’osso iliaco di una cerva, assemblati intorno un palloncino che è stato gonfiato tra di loro e tenuti insieme con del lattice. Le protuberanze della scultura sporgono come occhi, guance e altri esempi di rigonfiamenti corporei. In qualche modo è possibile considerare questa testa-corpo come un’entità autonoma dotata di un ipotetico spirito e animo umano, sebbene la sua presenza sia tronca, malforme, costipata e brutale.
L’utilizzo di un materiale flessibile e viscoso che contrasta una struttura rigida si ritrova frequentemente in una delle più importanti produzioni di Moulène, quella ovvero che considera come punto formale di partenza il nodo e l’azione dell’annodare. L’artista, infatti, dichiara esplicitamente il suo interesse per lo studio matematico dei nodi e della teoria dei nodi. Come ha affermato nella nostra corrispondenza via email, “il nodo può essere considerato come uno strumento per descrivere il comportamento della complessità e del caos, persino a un primo sguardo”. In diversi lavori, Moulène realizza reticoli di nodi con sottili lacci di metallo e successivamente soffia una forma colorata di vetro all’interno della struttura. Così facendo, la materia vitrea pare voler infrangere la propria ossatura dall’interno del groviglio. Altri nodi, come rivisitazioni di anelli di Borromeo, sono composti interamente da cerchi di vetro colorato – Blown Knot 63 2, Borromean, Varia 03 (CIRVA, Marseille, 2012) (2012), ad esempio, in cui anelli di color azzurro, giallo e arancio si fondono in quella che sembra una lotta che li mette l’uno contro l’altro attorno a una cavità centrale.
Ritornando alla questione dell’empatia, le sculture “annodate” di Moulène comunicano anche attraverso i materiali un’importante fede nella complessità. “Ciò che mi interessa”, dichiara l’artista, “sono i funzionamenti della trasformazione”. [Jean-Luc Moulène in conversazione con Br,iony Fer, in Jean-Luc Moulène, Verlag der Buchhandlung Walter König, Colonia; Nimes: Carré d’art–Museé d’art contermporain de Nimes, 2009, p. 139]. È per questa ragione che la sua futura mostra al Centre Pompidou di Parigi non sarà una retrospettiva, ma piuttosto “una retrospettiva di protocolli”, ovvero posizioni di rifiuto di qualsiasi risoluzione. Questa attitudine all’instabilità è egregiamente espressa da una serie di raffinate sculture di bronzo, i “Nœuds” (2010–12), in cui steli sottili sorreggono assemblaggi di quelli che sembrano ossa, boccioli, o altre forme introverse. Anche questi lavori partono dalla teoria dei nodi e sono realizzati imprimendo in un blocco di argilla nodi di fil di ferro che vengono successivamente stretti in modo da sformare il centro del blocco. Colando gli spazi ottenuti in bronzo, Moulène crea un calco del cuore di un nodo, ovvero di uno spazio a cui ci è impossibile accedere – questa è forse la più intensa definizione materiale di empatia che io possa immaginare. “Gradualmente, i ‘Nœuds’ hanno occupato i miei pensieri con una chiara complessità che ha ringiovanito il mio mondo”. Questi lavori richiamano certe sculture dell’artista polacca Alina Szapocznikow, che evocano un corpo sensuale e in degradazione, in tutte le sue gioie e i suoi traumi. Le opere di Moulène, tuttavia, approdano a un piano dell’esistenza più alterato ed espanso. Non si fermano al corpo umano, ma toccano i mondi dell’esoterico, del matematico, della flora, della fauna e di altri oggetti del pianeta, suggerendo legami complessi, elaborati con altri materiali e presenze.