È un pomeriggio afoso dei primi di giugno a Londra, e alla Gagosian Gallery c’è un via vai a livelli quasi di King’s Road. Mancano pochi giorni alla grande mostra, con 24 nuovi dipinti di Jeff Koons, e lo stress aumenta. Uomini che sfilano dal camion alla galleria, trasportando le opere in casse luccicanti arancioni, cinque assistenti di Jeff Koons davanti a quella appena appesa, una eccitante fusione di colori dove una linea rossa cola attraverso uno sfondo di pallini neri alla Lichtenstein.
Copiando da un foglio A4, gli assistenti cercano di dare gli ultimi ritocchi. Nel mezzo del caos, Jeff Koons, che assilla di telefonate il suo studio di 85 persone a Manhattan. “Vogliamo che sia tutto perfetto”, mi dice con un sorriso ammiccante, prima di tornare a mormorare al telefono. Per essere un noto perfezionista, l’artista — che indossa una misera camicia grigia e un paio di jeans sformati — è vestito in modo abbastanza trasandato. Oggi Koons ha 52 anni, la sua faccia da luna piena ha perso quell’espressione bambinesca e il suo sorriso celebrativo da marinaio è teso più che mai. Per come si muove tra le gallerie è difficile pensare che stiamo parlando del brillante ex finanziere di Wall Street che negli anni Ottanta ha realizzato una serie di opere controverse che lo hanno reso famoso in tutto il mondo. I suoi pezzi sin da allora continuano a incassare grosse cifre: all’ultima asta di New York, una delle sue aspirapolveri nel plexiglas è stata venduta per oltre due milioni di dollari. Quando ti giri verso uno dei suoi nuovi dipinti, ti confronti con la buona e vecchia sfrontatezza koonsiana. “Hulk Elvis”, titolo della nuova serie, è un lavoro splendido. Il motivo dominante è un giocattolo gonfiabile, realizzato con rendering fotorealistico, che ha le fattezze del personaggio dei fumetti Hulk. Il mostro verde e curvo ringhia fuori dalla tela mostrando i pugni stretti, posa che Koons trova assomigliare alle stampe di Elvis Presley di Warhol (da cui il titolo della mostra). Si tratta infatti, come dice Koons, di “un lavoro ad alto tasso di testosterone”.
Ogni tela della mostra, già venduta molto prima dell’inaugurazione, è stratificata di immagini, punti e pennellate deliranti. Si vedono teste di scimmie, treni, cavalli, carri, silhouette dei Led Zeppelin e illustrazioni di poemi erotici giapponesi del XVIII secolo. L’effetto finale è destabilizzante ma anche un trionfo: Hulk Elvis è rampante, eccitante. “Mi piacciono le cose viscerali”, dice Koons, “quindi volevo creare pitture forti, eroiche. Credo sia un lavoro molto maturo, ne vado molto fiero”. Dopo aver progettato la composizione per ogni pittura su computer, Koons ne ha delegato l’esecuzione al suo esercito di assistenti. Ma lui sostiene che è proprio come se li facesse lui, solo più rapidamente.
“Io fornisco ai miei assistenti il materiale che poi loro duplicano”, spiega. “Tutti i colori sono già composti, quindi non esiste alcuna soggettività nel miscelarli, come se qualcuno aggiungesse più blu o più rosso. Questi lavori sono stati eseguiti esattamente come se li avessi fatti io”. Tuttavia, scoprire il vero significato di questa serie non è semplice. Forse Hulk rappresenta l’America, la quale ha adottato un sistema aggressivo all’estero, simile appunto a Hulk, proprio negli ultimi quattro anni in cui Koons si è messo a lavorare alla serie? Certamente i dipinti trasudano iconografia americana — uno di essi mostra la Liberty Bell, che si suppone abbia convocato i cittadini di Filadelfia per ascoltare la Dichiarazione di Indipendenza. Koons arriccia il naso, prima di tornare col sorriso sulle labbra. “Sai, non sono mai stato coinvolto in questo senso con la politica”, dice. “Mi piace pensare che il lavoro sia più internazionale. Quando inizi a portarlo su un tema politico specifico lo limiti”.
Forse allora Hulk rappresenta la rabbia di Koons stesso? Negli ultimi anni non ha mai negato la rabbia che prova per la sua ex moglie Ilona Staller, la porno star ungherese che si è messa poi in politica, alias Cicciolina.
La coppia si unì nel 1991, dopo una serie di lavori sessualmente espliciti intitolata “Made in Heaven”. Hanno avuto un figlio, ma durante le fasi del divorzio Ilona ha preso Ludwig, ormai quattordicenne, per portarlo con sé in Italia. Oggi Koons non può vedere suo figlio. Fin dagli inizi degli anni Novanta l’artista ha realizzato una serie di sculture giganti dal titolo “Celebration” in onore di suo figlio. “Non posso più vedere mio figlio e tutto ciò è terribile”, dice. “Ma i dipinti della serie ‘Hulk Elvis’ sono semplicemente ciò che vedi. Potrei andare avanti a parlare delle loro diverse interpretazioni, ma sai, lo spettatore può trovare tutte le interpretazioni che vuole. Come oggetti, i dipinti non sono importanti. L’arte si manifesta nello spettatore”.
Koons si presta più volentieri a raccontare il bagaglio storico che c’è dietro ai dipinti. “I pallini sono un omaggio a Roy Lichtenstein”, dice, prima di avviarsi verso un’altra tela, “e quella forma vaginale si riferisce al dipinto di Gustave Courbert L’origine del mondo”.
Fermandosi davanti a uno dei lavori più astratti della mostra — che ha un tronco e due rocce sui fianchi — Koons dice: “quello è un riferimento a uno dei miei dipinti intitolato Ilona’s Asshole. Le rocce sono i testicoli”. Il dipinto in questione è un’immagine a luci rosse da “Made in Heaven” che provocò orde di guardoni quando fu esibita a New York nel 1991. Koons insiste a dire che quella serie, che ritrae Ilona Staller in lingerie bianca e in varie posizioni erotiche assieme all’artista, non sia pornografia. “Era innocente”, dice enfatizzando, “era davvero un lavoro sulla purezza, sull’accettare il proprio corpo”.
Un commento che aiuta a comprendere meglio la sua carriera: diversi suoi lavori infatti evocano innocenza ma allo stesso tempo sembrano saturi di sesso. Uno dei più conosciuti, il Rabbit d’acciaio del 1986, incarna bene questo paradosso koonsiano: una replica luccicante del giocattolo gonfiabile per bambini che gioca sulle associazioni erotiche attribuibili ai coniglietti (pensate a Playboy).
Nel piccolo spazio della Gagosian a Mayfair c’è una mostra complementare di Koons che comprende quattro lavori della serie “Popeye” del 2002, incluso Dog Pool Panty. “Non c’è nulla di più importante del sesso”, dichiara Koons, “assolutamente nulla. Senza il sesso non ci sarebbe la sopravvivenza della specie”. Improvvisamente si volta verso l’entrata. Camminando vigorosamente verso di noi si avvicina Damien Hirst, fresco di trionfo dopo il debutto del suo teschio da cinquanta milioni di sterline, accompagnato dal suo gallerista Jay Jopling. “Sono un grande fan di Jeff”, mi dice Hirst. “Vidi per la prima volta i suoi lavori in una mostra da Saatchi alla fine degli anni Ottanta, quando ancora studiavo al Goldsmiths. I nostri prof ci avevano detto che non era arte, perciò noi l’amavamo. Il suo lavoro mi prese totalmente”. Koons viene considerato il tassello tra Warhol e Hirst, e di certo è il suo predecessore in termini di fama e celebrità. Lo squalo sospeso nella formaldeide è indebitato con Koons, che negli anni Ottanta presentò palloni da basket fluttuanti in un acquario. Dunque Hirst ammette qualche piccolo debito con Koons? Per un momento il maestro della Britart, preso dal successo di oggi, guarda indietro. “Forse un poco”, ammette timidamente. Poi rovista nella tasca, estrae un pezzo da cinque sterline accartocciato e lo sbatte in mano a Koons, pensando così di aver estinto il suo debito. Koons, sempre col suo sorriso stampato, lo guarda beffardo. Cinque? Tutto qui? Ma prima che l’imbarazzo aumenti, Hirst si avvicina a un dipinto “Hulk Elvis” esclamando “c***o, è fighissimo!”, e i due trottano assieme fuori dalla galleria.