Assistiamo a un vero e proprio revival della performance, appare quindi estremamente interessante ascoltare Joan Jonas che di questo linguaggio è stata ed è una protagonista, tanto che Jens Hoffmann l’ha voluta coautrice del libro Perform (2005).
Per il suo lavoro può veramente essere usato il termine multimedialità, in genere utilizzato in senso improprio per indicare l’uso di nuove tecnologie. Joan Jonas si situa nell’interazione tra performance e video a cui concorrono il disegno, l’installazione, il suono. Tra le sue mostre più importanti ricordiamo le quattro partecipazioni a documenta di Kassel e quella alla Biennale di Sidney, la personale allo Stedelijk di Amsterdam nel 1994, quelle al Dia:Beacon (2005), al MACBA di Barcellona (2007) e al CAC di Ginevra (2008). In Italia la sua prima apparizione risale al 1972, per il Festival di Musica e Danza in USA, organizzato dalla Galleria L’Attico; mentre nel ’73 partecipa alla rassegna “Contemporanea”; tra le ultime: nel 2006 è al Castello di Rivoli per il progetto “Concetto, Corpo e Sogno” e l’anno seguente alla Fondazione Ratti a Como e alla Fondazione Galleria Civica di Trento; infine, nel 2010 ha due personali rispettivamente presso le gallerie Raffaella Cortese di Milano e Alessandra Bonomo di Roma.
Laura Cherubini: “Penso che le mie opere siano vicine al teatro, perché il teatro stesso è cambiato negli ultimi trenta o quaranta anni” e “Amo il teatro, ma non voglio fare teatro” sono alcune sue dichiarazioni. Può parlarci del suo rapporto con il teatro e dei suoi primi lavori?
Joan Jonas: Ho studiato arte. Non avevo esperienze di teatro, a New York ho visto il lavoro dei danzatori Simone Forti, Yvonne Rainer… L’incontro con Lucinda Childs è stato decisivo. Sono passata dalla scultura alla performance perché ero interessata a trovare un nuovo medium. Sono stata molto influenzata dalla semplicità del teatro Nō. In uno dei miei primi video, Wind, appaiono immagini senza suono. È l’inizio del mio lavoro con il video, è molto semplice, volevo comprendere l’idea di danza, anche se non avevo studiato danza. Siamo nel 1968. Intendevo creare movimenti che restituissero l’effetto della danza. Qui ogni movimento può essere interpretato come una danza. Nella serie di performance “Mirror Pieces” (dal ’69), inizialmente realizzate all’aperto, le persone trasportano grandi specchi che interrompono la visione dello spazio. Organic Honey’s Visual Telepathy (1972) è indicativo di come lavoro con il video. L’idea è di alterare l’immagine attraverso il video. L’immagine passa attraverso un circuito chiuso o in proiezione o su monitor, così il pubblico ha in simultanea la performance e il dettaglio in video. Per la performance da Leo Castelli ho usato il mio corpo, un piccolo specchio, costumi comprati al mercatino delle pulci di Los Angeles e una collezione di antichi ventagli che mi ha lasciato mia nonna. Il personaggio è creato con una serie di piccoli oggetti e costumi. Questi lavori sono molto semplici anche se allora la tecnologia non era affatto di facile utilizzo.
LC: Uno dei temi iconografici principali è quello dei cani, perché?
JJ: Si tratta sempre di immagini tratte dal quotidiano, dalla mia vita. Inoltre le figure dei cani sono presenti in più culture.
LC: Un’altra linea importante del suo lavoro è il disegno ed è molto interessante l’uso che ne fa.
JJ: Disegno sempre, davanti al pubblico e davanti alla telecamera nelle mie performance. Ogni volta che faccio un nuovo lavoro penso a un nuovo modo di disegnare. Mi piace disegnare con un bastone che ha in cima un gesso. Realizzo un disegno sopra un altro disegno. I disegni rappresentano sempre uno degli aspetti della storia.
LC: Lines in the Sand (2002) si ispira a Elena in Egitto di Hilda Doolittle. Si tratta di una delle pazienti di Freud, da lui indicata con le iniziali, come usava per i casi clinici, dunque H.D.; il testo fa riferimento alla storia di Elena di Troia, un mito che potremmo definire universale, ma ne utilizza una versione secondo la quale la vera Elena si sarebbe recata in Egitto.
JJ: Un casinò di Las Vegas ha lo stesso nome di un tempio egizio, Luxor, ed è la sua copia volgare. Sono sempre stata interessata a storie tipiche, togliendo il focus da me stessa. Secondo il poema di Hilda Doolittle a Troia non sarebbe andata Elena, ma una sua copia, quindi la guerra è stata scatenata per un’illusione. Anche nella nostra epoca ci sono guerre nate da illusioni. Commissionata da documenta XI, Lines in the Sand è nata come installazione e poi si è sviluppata come performance. All’inizio invece cominciavo dalla performance. Ci sono altri performer e per la musica ha collaborato DJ Spooky. Una scatola nera appoggiata sulle gambe, con dentro alcune immagini sulla sabbia, è una forma della serie “My New Theater” (una sorta di video-teatro trasportabile in miniatura) e riporta al tempo dell’infanzia. Ci sono carte nere con grandi disegni. Volevo che il disegno diventasse una danza. Ci sono tre elementi video: in uno si proiettano immagini tracciate a gessetto su una vera lavagna. Le immagini vengono riproiettate come sfondo mentre faccio la performance.
LC: Si crea dunque una dislocazione dell’immagine.
JJ: C’è una simultaneità della performance con altre immagini.
LC: In questo lavoro appare un uso particolare delle ombre.
JJ: L’ombra nasce dall’idea di schermo. Ho utilizzato per molto tempo schermi di carta. Lavoro spesso con le ombre. Anche in Reading Dante. In The Hand Reverts to its Own Movement per la Fondazione Ratti a Como (2007) è evidenziato l’aspetto astratto delle ombre, generato dai movimenti per produrre suoni. Una sorta di “teatro di ombre cinesi”.
LC: Può parlare di un’opera molto importante che si intitola The Shape, the Scent, the Feel of Things (2004-2006)? Nasce dalle teorie di Aby Warburg, un grandissimo storico dell’arte tedesco che è stato il fondatore dell’iconologia. Questa metodologia non si interessa agli aspetti formali dell’opera, ma interpreta lo spessore simbolico delle immagini. Warburg possedeva un’immensa collezione di immagini che sono poi confluite in un’istituzione molto importante che si trova a Londra, il Warburg & Courtauld Institute. Tutta la sterminata congerie di immagini raccolte durante la vita da Warburg è ora una biblioteca che fu spostata da Amburgo a Londra durante il nazismo. Questa performance parte proprio da un testo di Warburg sulle danze rituali degli indiani Hopi, Il rituale del serpente. Warburg ha fatto questa esperienza alla fine dell’Ottocento sulle danze degli indiani nativi (in America per il matrimonio di un fratello, aveva viaggiato verso il Sud-ovest). Lei ha rivissuto questa stessa esperienza in un viaggio nel Sud-ovest americano negli anni Sessanta assistendo a quella danza del serpente su cui si era focalizzato Warburg senza in realtà averla vista. Quindi c’è un incrocio, una relazione, tra le due esperienze, quella di Aby Warburg e quella di Joan Jonas, quella dello storico dell’arte e quella dell’artista. Anche per questo si è interessata alla figura di Warburg?
JJ: Questo video è stato commissionato dalla Dia Art Foundation e girato nel basement della loro sede a Beacon, in una ex fabbrica di biscotti, location ideale. Aby Warburg ha scritto il testo dopo essere stato ricoverato per una grave crisi nervosa.
LC: È stato ricoverato a Kreuzlingen, un sanatorio per malattie mentali, ed è stato curato da un sommo psichiatra, uno dei primi seguaci di Freud, Ludwig Binswanger (ex assistente di Jung) che ha condotto la ricerca psicanalitica freudiana verso la filosofia. Alla base del suo lavoro c’è una forte istanza antropologica. Binswanger si basa non solo sulla psicanalisi di Freud, ma anche sulla filosofia di Heidegger.
JJ: Warburg ha scritto questo testo sulle danze rituali per dimostrare ai medici la sua guarigione. Il pubblico è seduto sulla scalinata e rappresenta i medici. Abbiamo lavorato con il jazzista Jason Moran, nel corso di sei settimane, mentre componeva il testo musicale e io accanto a lui realizzavo il mio lavoro. I dialoghi sono ripresi dal testo di Warburg (eccetto il parlare alle farfalle di cui riferisce il dottore). C’è un muro utilizzato per ampliare e restringere lo spazio, e ci sono due schermi: uno viene usato come sfondo, l’altro si trova vicino al pubblico; uno è fermo, l’altro si muove. Facendo una performance di questo genere, si vive nello spazio, in questo forse è simile al lavoro sul Tevere a Roma. In questo testo c’è la visione europea dei nativi americani. Alcune di queste immagini si basano su la Melencolia I.
LC: Si riferisce alla famosa incisione di Albrecht Dürer, che rappresenta una figura alata, in atteggiamento melanconico, con il mento sulla mano, circondata da elementi simbolici come una tavola aritmetica, un cane che dorme e un solido geometrico. Per inciso, Binswanger era un esperto di melanconia, dunque probabilmente Warburg era stato ricoverato per questa sindrome.
JJ: La melanconia si riferisce anche agli antenati europei che hanno invaso il suolo americano e portato via la terra ai nativi. Viene ripreso il metodo di proiettare l’immagine sullo schermo. Ci sono feedback e faccio un ritratto ripreso dallo sfondo stesso.
LC: È molto interessante nel suo lavoro la relazione tra performance e video.
JJ: Il video non è rotto da cornici. Io faccio tutto il lavoro. Lavoro con la qualità del video. Quando ho cominciato non c’era un linguaggio video con cui parlare, c’era la TV. Ero più tentata dalla storia del cinema. Sono stata influenzata da registi europei, francesi, tedeschi, italiani.
LC: Credo che la figura di Aby Warburg abbia interessato Joan Jonas per questa ragione: il lavoro di Warburg come storico investe quella che è la principale sfera di interesse di Joan Jonas, cioè l’analisi comparata tra differenti culture, per esempio tra cultura occidentale e orientale, e tra culture di vari periodi storici, non al fine di trovare diversità tra queste, quanto per trovare radici comuni, affinità profonde, una sorta di memoria collettiva culturale condivisa. Vorrei sapere se è questa transculturalità l’aspetto che l’ha interessata del lavoro di Warburg.
JJ: Sì, in effetti tutto quello che ha detto è corretto. Sono stata mossa dal testo di Warburg sugli indiani del Sud-ovest d’America, che non conoscevo prima di trovarlo. Fin dall’inizio il mio lavoro entra nella storia attraverso il passato e fin dall’inizio ho voluto paragonare altre culture alla mia e studiarne i riti. Warburg amava l’idea di parlare con le farfalle, questo è molto poetico e anche la sua scrittura è molto poetica. Per la stessa ragione ho lavorato su Dante, siamo collegati a un’avventura, identifico il mio percorso di vita con questi scrittori che vivono il loro cammino. Dante è il primo a scrivere in lingua italiana, la sua è una visione totale, aveva come figura-guida una donna.
LC: Lei ha ricordato il tema della ritualità, molto forte nella sua opera. Credo che l’importanza di questo discorso sia una delle ragioni della ripresa di attenzione intorno alla performance oggi, un linguaggio nato negli anni Sessanta e che ha caratterizzato i Settanta, su cui ora noi vediamo un rinnovato, vitale interesse.