Rossella Moratto: Il primo giugno ha inaugurato la 55ma Biennale di Venezia con la tua partecipazione per il Padiglione portoghese e il 20 giugno ha inaugurato la tua personale al Museo Gucci di Firenze. In ambedue le occasioni presenti lavori caratterizzati dall’appropriazione e dalla dislocazione di oggetti quotidiani. La tua pratica artistica può essere considerata come una forma di “strategia di sopravvivenza” contro la globalizzazione che appiana le differenze?
Joana Vasconcelos: Il mio lavoro non mira all’affermazione di un’identità particolare per rispondere all’effetto omologante della globalizzazione. Non credo che la globalizzazione conduca a una completa uniformazione del mondo, poiché le particolarità derivano da fattori che sono endogeni ed esogeni all’uomo, più profondi di qualsiasi altra forza. Non voglio difendere la permanenza delle tradizioni locali; voglio, invece, puntare verso una direzione più ampia, utilizzando le caratteristiche della mia soggettività come punto di partenza. Questa è la ragione dei riferimenti alla cultura portoghese nei miei lavori. Lo scopo del mio lavoro è stabilire un dialogo con le persone, le memorie, le esperienze e le culture. Posso appropriarmi di un pezzo di filigrana portoghese — Heart of Viana, di cui ho preso in prestito la forma per Independent Heart — ma il cuore è una forma universale comprensibile in ogni parte del mondo. Il mio progetto per la Biennale è un altro esempio: mi sono appropriata di un simbolo di Lisbona, il cacilheiro — così chiamiamo il traghetto che collega le rive del fiume Tago — una nave tedesca che, prima di essere impiegata a Lisbona, per molti anni ha navigato lungo l’Elba, ad Amburgo. Quando l’ho recuperata dalla dimensione del trasporto per collocarla in quella artistica, ho capito che avevo interrotto il suo normale ciclo di vita. Ora appartiene al mondo dell’arte: integra un progetto che, dal punto di vista del presente, guarda alla storia di due territori profondamente radicati nel mare — il Portogallo e Venezia — ambedue fondamentali ponti tra l’Est e l’Ovest.
RM: L’utilizzo di materiali riciclati e tecniche artigianali è una valorizzazione della manualità e una negazione della distinzione tra cultura alta e bassa, sfera pubblica e privata, tradizione e modernità.
JV: Gli uomini hanno sempre avuto l’abitudine di disegnare frontiere. Sfortunatamente escludono la possibilità di creare intersezioni che sono invece essenziali per l’evoluzione del pensiero e della conoscenza. Così come le persone non possono vivere in isolamento, anche i concetti e le idee devono incrociarsi e fecondarsi vicendevolmente, comunicare ed evolversi. La mia ricerca integra non solo il lavoro manuale, ma anche quello industriale, cultura popolare ed erudita, tradizione e modernità, lusso e banalità; non perché voglia produrre una gerarchia di valori, ma perché costruire oltre le frontiere mi sembra essenziale. È ciò che ci garantisce uno sguardo inedito sulle cose, una nuova prospettiva che ci può aiutare a comprendere meglio il mondo.
RM: Le pratiche manuali che utilizzi sono strettamente legate alle attività domestiche delle donne e sottolineano il valore della tradizione femminile come forma di resistenza controculturale. Considerando che hai lavorato esplicitamente sull’identità femminile — come in A Noiva, Dorothy, o Style for your Hair — la tua pratica artistica si può definire femminista?
JV: Il mio lavoro ha sicuramente un tono femminile, che spesso viene confuso con una finalità femminista. Sono una donna e sono portoghese e perciò è naturale che il mio lavoro abbia una voce femminile e portoghese, ma questo concerne la forma, non la sostanza. Le mie preoccupazioni non sono femministe, nel comune senso della parola, sebbene io difenda le pari opportunità per le donne, naturalmente. Soprattutto sostengo i diritti umani indipendentemente dal genere, dalla fede, dagli orientamenti politici o sessuali. Mi interessano le qualità del singolo individuo e cosa una persona può offrire agli altri e alla comunità, liberamente senza restrizioni, a prescindere da fattori di differenziazione.
RM: Ricrei il mondo in modo surreale, ma allo stesso modo giochi con la tradizione storico-artistica. Ti interessa reinterpretare la storia dell’arte?
JV: Gli artisti fanno quello che hanno sempre fatto. Non mi illudo che oggi l’essenza dell’arte stia subendo una radicale trasformazione. I mezzi, i supporti, i materiali, le forme, perfino il mondo dell’arte attuale sembra radicalmente diverso, ma l’impulso creativo rimane lo stesso, quello che pulsava negli artisti delle grotte di Lascaux. Non avremmo raggiunto gli esiti attuali senza un passato e senza collegare il passato al presente. Il mio lavoro esprime il pulsare di una comune essenza creativa e un incessante dialogo con la creazione artistica che, anche se è stata realizzata in passato, appartiene al presente e al futuro.
RM: Al Museo Gucci presenti quattro lavori recenti: Independent Heart, Hand-made, Psycho e Lavoisier, che — come altri tuoi precedenti —mostrano grandi affinità con la moda e il design. Come si armonizzano queste influenze nel tuo lavoro?
JV: Il mio lavoro riflette la mia vita e le mie diverse esperienze. La moda e il design hanno avuto un ruolo importante anche se la mia esperienza di studentessa di design è stata disastrosa! Ciò nonostante l’uso del colore e la diversità dei materiali e delle textures nel mio lavoro provengono da lì e dalla mia passione per questi due ambiti. L’arte diventa il territorio dove tutte le esperienze sono valide e dove diversi mondi e realtà possono coabitare e dialogare, senza limiti o imposizioni formali.
RM: Per il Padiglione portoghese hai creato una zona temporaneamente deterritorializzata ed extratemporale dove due culture entrano in contatto e dove si offre l’esperienza di un altrove geografico e metaforico. Da dove nasce l’idea?
JV: Il mio studio è proprio vicino al fiume Tago, dal quale innumerevoli navi sono salpate verso le scoperte marittime che hanno reso famoso il Portogallo nel XV e XVI secolo. Il fatto che il Portogallo non abbia un suo padiglione espositivo alla Biennale è diventato il pretesto per concretizzare l’idea che avevo in mente da molto tempo: un vascello che avrebbe navigato a Venezia e sarebbe stato contemporaneamente il Padiglione Portoghese e un’opera d’arte totale, con uno spazio per dibattiti e un palcoscenico per performance che, spero, possa aiutarci a riflettere sul futuro.
RM: Parlando di navi, Foucault le definì delle “eterotopie per eccellenza”, aggiungendo: “Nelle civiltà senza navi, i sogni si inaridiscono, lo spionaggio sostituisce l’avventura e la polizia i corsari”. Concordi?
JV: Assolutamente sì. Per tutta la prima metà del XX secolo il Portogallo è vissuto sotto una dittatura che si è avvantaggiata delle grandi scoperte. In modo perverso, lo stesso regime ha utilizzato il passato glorioso per confinare il popolo sotto il principio dello “stare orgogliosamente da soli”. Per cinquant’anni il regime ha impedito ai cittadini di sognare e di partire, dando origine a una stigma che permane ancora oggi. Trafaria Praia riabilita quello spirito di avventura, non solo dei portoghesi, ma di tutti coloro che sono stati separati dal navigare. La storia, il presente e il futuro si intersecano per produrre un tempo oltre il tempo. Per questa ragione ho voluto che Trafaria Praia avesse la dimensione di un sogno — l’installazione Valkyrie Azulejo — e, soprattutto, che navigasse. È un modo per sfidare sia il corpo sia la mente per viaggiare in uno spazio di avventura e di speranza.
RM: I lavori pubblici sono zone in cui si eludono le regole comuni e si aprono opportunità di differenti relazioni sociali tra le persone?
JV: I musei e le galleria d’arte contemporanea spesso negano il loro carattere di luoghi dotati di memoria. Sono spazi che esistono per ospitare l’arte e il suo pubblico. Lo spazio pubblico è il loro esatto opposto: esiste oltre l’opera e, soprattutto, appartiene a tutti. Intervenire in questo spazio dà l’opportunità di combattere la cristallizzazione delle idee e di interrogarsi sul meccanismo dal quale siamo regolati. Lo spazio pubblico è, senza dubbio, il territorio dove mi sento più messa alla prova e realizzata come artista.