Nella sequenza iniziale del film Hiroshima mon amour diretto da Alain Resnais e presentato fuori concorso al festival di Cannes del 1959, la protagonista pronuncia la frase: “La pioggia fa paura. Piove cenere sulle acque del Pacifico. Le acque del mare uccidono. Dei pescatori nel Pacifico ne muoiono”. Cinque anni prima (marzo, 1954), nell’atollo di Bikini nelle isole Marshall, l’esercito statunitense portava a compimento dei test bellici sganciando l’ordigno nucleare Castle Bravo. I frammenti contaminati dell’atollo che caddero sui corpi dei pescatori giapponesi dell’imbarcazione Daigo Fukuryu Maru (Drago Fortunato), in navigazione a diverse miglia marittime dall’esplosione, provocarono la morte del marconista e la deflagrazione produsse un cratere di 2000 metri di diametro fuori dalla scogliera primordiale. Il lavoro di Julian Charrière protagonista di “All We Ever Wanted Was Everything and Everywhere” – prima personale in Italia dell’artista francese al Mambo di Bologna –, è un’indagine che parte proprio da quella vicenda del 1954 in piena guerra fredda. La mostra si apre con il video Iroojrilik (2016), spalancando una porta su ciò che resta dell’atollo di Bikini. Charrière non documenta ne intende fare sensibilizzazione diretta sui temi che affronta, al contrario, utilizza il potere evocativo e icastico dei luoghi per fare in modo che essi emergano delle storie, non necessariamente raccontate. L’installazione video verticale As We Used to Float (2018) domina la sala delle Ciminiere del museo in cui giacciono le noci di cocco in gusci di piombo di Pacific Fiction (2016) e la campana da immersione in acciaio controbilanciata dai sacchetti di plastica del Pacifico di All We Ever Wanted Was Everything and Everywhere (2018). Entrando si ha l’impressione di ripercorrere, almeno da un punto di vista compositivo, l’installazione The Weather Project (2003) di Olafur Eliasson alla Turbine Hall della Tate Modern. Charrière, così come Eliasson, conduce lo spettatore in un viaggio trasformativo basato su esperienze psicogeografiche, mostrando ciò che resta sui fondali del cratere dell’atollo di Bikini in cui giacciono le navi su cui l’esercito statunitense sperimentava le bombe atomiche. Lo schermo di visione sospeso, così come la capsula che discende dal tetto del museo, contribuiscono a creare nello spettatore una immersione percettiva impattante che si conclude in Silent World (2019) e Where Waters Meet (2019). Riemergengo siamo di fronte a Lost at Sea – Pikini-Fragment (2016) in cui gli effetti del nucleare si sustanziano nella noce di cocco resa sterile dalle radiazioni e totemizzata in una teca. Il percorso di indagine sulle conseguenze della politica atomica continua con i lavori ambientati a Semipalatinsk in Kazakistan come Polygon (2014) in cui le fotografie sono forzate a una doppia esposizione – al consueto passaggio di sviluppo e a un esposizione su terreno contaminato radioattivamente; con il video Somewhere (2014) e ancora con Savannah Shed (2016) che ricostruisce un sistema scientifico per analizzare la contaminazione da Cesio-137 in un alligatore.
Non vi sono parole, ne allarmi, nessuna pioggia o cenere. Sonorità cupe riecheggiano a ogni passo e descrivono la vastità dei mondi distillata in quel che resta della porzione di mondo che Charrière si propone di investigare.