Edward Rubin: La tua mostra attuale “Julian Schnabel: Art and Film”, presso l’AGO – Art Gallery of Ontario a Toronto, è veramente una rivelazione. Conosciamo la tua arte — in particolare i dipinti degli anni Settanta e Ottanta con i piatti rotti — e conosciamo il tuo lavoro da regista, ma il fatto che il cinema fosse nella tua mente fin dall’inizio della tua carriera artistica e che molti dei tuoi quadri si rifanno a film specifici come Accattone di Pier Paolo Pasolini, ad attori quali Johnny Depp e Albert Finney, e a registi come Bernardo Bertolucci e Vittorio De Sica, è stata una vera sorpresa. Il che pone l’accento sul fatto che i nostri inizi non vedranno mai le nostre fini. Ma nel tuo caso questo sembra essere un indizio di qualcosa per il suo futuro da regista.
Julian Schnabel: Proprio come la pittura, andare al cinema per me era una fuga dall’ordinarietà della vita quotidiana. Il cinema era più reale della mia esistenza fra le mura domestiche. Da bambino, trovavo semplicemente meraviglioso I dieci comandamenti, quando Mosè separa le acque del Mar Rosso, e terrificante Moby Dick, quando compare l’occhio della grande balena bianca. Quando ho visto per la prima volta Repulsion di Roman Polanski ho realizzato che un film può realmente toccarti dentro. Può ossessionarti e ti puoi identificare in esso. Non ho mai pensato che sarei diventato un regista. Tuttavia, quando Jean-Michel Basquiat morì, volevo raccontare la sua storia e Basquiat ne è il risultato. Eppure il centro di tutto quello che faccio viene dall’essere un pittore e probabilmente, a prescindere dalla qualità, i miei film traggono ispirazione da quella prospettiva.
ER: Oltre al confronto con Picasso, che anche tu hai messo in risalto non appena hai raggiunto la notorietà — il mondo dell’arte ricorda ancora le tue parole: “Sono così vicino a Picasso come voi state procedendo in questa cazzo di vita”—, molti critici citano il poeta Walt Whitman quando scrivono su di te, e tu stesso lo citi spesso.
JS: Mi piace quando Whitman dice in Foglie d’erba: “Va bene se contraddico me stesso. Io racchiudo moltitudini”. Dunque, penso che se guardi a questa mostra ci sono diverse versioni di ciò che può essere un quadro e ovviamente a un certo punto c’è una parte del mio cervello, sia in un dipinto sia in un film, e questo è un narratore.
ER: Quando la tua popolarità negli Stati Uniti ha cominciato a scemare durante i primi anni Novanta, hai iniziato a esporre in Europa. Il tuo lavoro e il tuo personaggio sembrano essere, anche oggi, maggiormente compresi e rispettati nel Vecchio Continente che negli Stati Uniti. È vero o è la mia immaginazione?
JS: La ragione è che noi viviamo in una società molto miope e c’è abbastanza benzina per ogni fuoco. Cose del genere si consumano, c’è un nuovo panorama di artisti in giro e ci sono diverse ragioni per cui le persone diventano popolari o meno. Ma la verità di tutto ciò è che, qualunque cosa tu stia facendo, in modo utilitaristico, i giovani artisti con i loro trent’anni, che stanno maturando e stanno osservando il mio lavoro, pensano che io possa lavorare in questo modo. Io so cosa fare. Ho cominciato a dire qualcosa a riguardo durante le conferenze stampa perché qualche volta sento che sta diventando tardi ma la palla è tornata nel mio campo e, come tu sai, ho mantenuto la mia autonomia, ho conservato la mia libertà. Non devo niente e a nessuno, e c’è chi dice che il mio può essere interpretato come un atteggiamento arrogante, ma il punto è che ho immaginato un modo di lavorare che per me è vantaggioso e non mi comprometterò, non farò film per cui qualcuno potrebbe dire che è bello ma si dovrebbe cambiare qualcosa e avere l’ultima parola. Così ho io l’ultima parola su tutti i film che dirigo.
ER: Sembri essere passato dalla pittura ai film con relativa facilità. Senza una formazione specifica nella tecnica cinematografica, in casting o nella direzione degli attori. Ma nonostante ciò sei riuscito a creare film bellissimi come Prima che sia notte e Lo scafandro e la farfalla, che hanno ricevuto numerosi premi internazionali. So che tutti noi impariamo sul campo. È così che si fa?
JS: Sì, qualcosa del genere! Conosco la mia materia e penso che molti registi non conoscano il loro mestiere. Sanno come rappresentare un testo ma non conoscono la loro materia. Nelle riprese di Basquiat non ho cercato di inventare niente. Sono stato nel seminterrato con Jean-Michel mentre dipingeva. Ho assistito a diversi tipi di ingiustizie o situazioni. Io sono sopravvissuto. Sfortunatamente lui no.
ER: Janusz Kamiński, il direttore della fotografia de Lo scafandro e la farfalla, ha affermato che, poiché non sei limitato da una formazione tradizionale, sei in grado di scoprire e fare cose che normalmente non si fanno. Nel modo di concepire questo film, in particolare nella maniera in cui viene tratteggiato Jean-Dominique Bauby, hai fatto la magia del cinema. Puoi raccontarci qualcosa a riguardo?
JS: Certo! Quando qualcuno è paralizzato — come lo è Jean-Dominique Bauby — ed è cosciente che non può muovere la testa — e tu sai che loro non possono muovere la testa —, si creano alcune opportunità per chi sta girando un film su un personaggio del genere, poiché il pubblico crede che anche loro non possano muovere la testa. E se non puoi alzare la testa, il regista può tagliare quella di qualcuno a metà e nessuno pensa che non puoi controllare la macchina da presa. Al contrario penseranno che, dal momento che Bauby non può tenere su la sua testa, quello che sta in effetti vedendo sono i personaggi con le teste tagliate. Bauby disse che l’unica cosa che non era paralizzata eccetto i suoi occhi era la sua immaginazione. E questa capacità di immaginare mi ha concesso molta libertà, la stessa che sento quando dipingo. La cosa da ricordare è che sia lo schermo cinematografico sia la tela di un dipinto, questo piccolo rettangolo, è il campo di battaglia su cui avviene ogni cosa che conosci o non conosci. Nel film continui a interpretare e a tradurre. Dipingere è più come suonare il sassofono. Fai una nota, ed è quella. La ottieni tutta in una volta. Realizzare un film è molto simile.
ER: Questa mattina dicevi che per te girare film è solo una parte del lavoro, inoltre aggiungevi che guadagni di più vendendo due dipinti in una domenica che in un intero anno di riprese. Ti riferivi a Basquiat?
JS: Mi riferivo a Lo scafandro e la farfalla. Comunque non mi sto lamentando perché faccio quello che desidero, che è il sogno di tutti. Dipingere mi ha dato la libertà di fare i film che voglio.
ER: In tutti i tuoi film i protagonisti, spesso con i destini contro, sono forti sia fisicamente che mentalmente. Inoltre, con il tuo tocco “pittorico”, hai fatto in modo di trasformare la loro sofferenza in qualcosa di bello, come se la loro unica speranza di sfuggire alla morte fosse attraverso la loro arte.
JS: La vita comprende la morte ma l’arte no, perché non è vita. È una rappresentazione della vita. Così, se non contiene la morte, essa è una negazione della morte ed è per questo che noi diciamo essere un’affermazione della vita, non importa quanto possa essere tragico il personaggio. Andrei Tarkovsky afferma che non ci può mai essere un’arte pessimistica, ci può essere solo talento e mediocrità. E io credo che abbia ragione. Non mi piace usare parole come creare, spirituale o ispirazione; la verità è il modo in cui descrivi un film come Andrej Rublëv. L’autore ne è così preso da trovarsi nel processo, nell’atto di filmare qualcosa che è al di là del linguaggio. Ed è ciò che cerco di fare nei miei dipinti e nei miei film.
ER: Lo scafandro e la farfalla è al di là del linguaggio.
JS: È anche al di là della logica. Anche i miei quadri sono in un certo senso al di là della logica. Posseggono delle caratteristiche riconoscibili ma poi c’è dell’altro che va al di là di questi requisiti, qualsiasi significato avessero precedentemente, e che li fa approdare altrove. È qualcosa a cui non so rispondere.
ER: I tuoi dipinti non sono così accessibili come i tuoi film.
JS: Sai perché? Se si potessero portare tutte le persone che vanno al cinema nella stanza in cui ti trovavi questo pomeriggio non ci sarebbe alcun problema. Ma la gente è abituata a guardare la TV a casa o ad andare al cinema, non sa stare in piedi davanti a un dipinto, quasi fosse un’esperienza obsoleta. Non credo si possa giudicare il successo o la qualità di un lavoro dal numero di persone che lo vede. Ma quando si tratta di un film questo è possibile, per esempio se si incassa un miliardo di dollari con un film come Avatar.
ER: Prima che sia notte è stato girato in Messico e a New York, Lo scafandro e la farfalla in Francia e Miral in Israele e Palestina. Mi sembra che tu sia attratto, e mi permetto di aggiungere molto facilmente, da tutto ciò che è straniero: paesi, scrittori, location cinematografiche, per non citare le belle donne, due delle quali hai sposato, e una con cui convivi attualmente. Hai anche vissuto in Europa. Cosa ti piace dell’Europa?
JS: Un giorno scriverò qualcosa sui miei quadri e qualcuno mi chiederà: “Perché lo hai scritto”? E io dirò: “Non ti piace quando vai all’opera e tutti cantano in italiano e tu non sai quello che stanno dicendo?”. Così io penso ci sia una sorta di piacere nell’estraneità. È un tale ostacolo quando si capisce tutto.
ER: Il tuo film più recente, Miral, basato su un libro di Rula Jebreal, già presentato ai festival di Toronto e Venezia, racconta la storia del conflitto israeliano-palestinese da un punto di vista pro Palestina. Questo sembra essere un punto di partenza per te. Intendo dire che tutte le altre pellicole, fatta eccezione forse per Prima che sia notte, ambientato a Cuba, non sono né controverse né particolarmente politiche.
JS: Penso che i miei film, così come i miei dipinti siano diversi. Sono tutti uguali e sono tutti diversi. Credo, infatti, che questo film sia in fondo anche la storia di uno scrittore. Si tratta di una ragazza che diventa una scrittrice e racconta la storia di ciò che è successo e del perché, una storia che può rendere la gente più consapevole. In realtà non è un film pro Palestina, ma un film a favore della pace. E penso che ciò che è buono per i palestinesi sia buono per gli israeliani e viceversa.