Eva Fabbris inaugura la sua direzione al Madre – Museo d’arte contemporanea Donnaregina di Napoli curando una mostra personale di Kazuko Miyamoto. L’artista americana di origini giapponesi è stata associata per oltre trent’anni al Minimalismo e, in particolare, alle geometrie formali di Sol LeWitt, di cui è stata la prima assistente. Con questa mostra Fabbris o!re, per la prima volta in un’istituzione europea, un’interpretazione critica più accurata, si direbbe filologica, della ricerca di Miyamoto, che assorbe e reinventa le sperimentazioni artistiche concettuali della vibrante scena artistica di New York, dove si trasferisce da Tokyo nel 1964.
La mostra, che si dipana su due piani del museo, esordisce con disegni su carta quadrettata dei primi anni ’70 in cui l’artista sembra prepararsi ad affrontare lo spazio architettonico e le sue volumetrie. Infatti, già dalla prima string construction, una composizione di spago e chiodi realizzata a muro nello studio di LeWitt nel 1972, si percepisce la volontà di superare la rigorosa matrice minimalista e contaminare lo spazio istituzionale. L’opera, senza titolo come quasi tutta la sua produzione, racchiude in fieri una poetica intrisa di astrazione e fisicità: ambisce infatti a un ordine seriale, ma nei modi e limiti di una produzione manuale, ed è ritmica, capace di attivare una relazione percettiva dinamica con lo spettatore.
Miyamoto è attratta dalla sintesi razionale o!erta dal Minimalismo, ma si tratta forse di un’affinità processata a livello culturale più che estetico e concettuale, perché intercetta la sua quotidianità di impianto shintoista e alcuni oggetti della tradizione giapponese. Ad esempio il popolare gioco asiatico del Go, una scacchiera alternata da pedine circolari bianche e nere, che echeggia in uno dei primi disegni di Miyamoto esposti al Madre in cui l’artista mescola pittura acrilica e smalto spray per smaterializzare la forma.
Nel 1974, poi, Miyamoto si unisce ad A.I.R. – Artist in Residence, leggendaria cooperativa newyorkese dotata di uno spazio espositivo dedicato alla presentazione dell’opera di artiste donne come Nancy Spero e Ana Mendieta. È in questo periodo che, al distinto linguaggio formale e cromatico del Minimalismo, l’artista contrappone sempre di più materiali poveri, privi di intenzionalità semantica, se non in termini di sottrazione e di riverbero nello spazio. A ciò unisce un interesse crescente nei confronti di situazioni effimere, objets trouvés come rami e corde, spazi pubblici e condivisi, oltre che una vocazione al paesaggio naturale e a una dimensione performativa dell’opera che la porta, metaforicamente parlando, a “rompere le righe”.
In mostra questa rottura è affidata a una fotografia in bianco e nero del 1982, anch’essa senza titolo, scattata nel suo studio. D’un tratto, l’artista interrompe la costruzione di una struttura modulare di LeWitt, si denuda e si mette in posa indossando solo una maschera nera. Lo scatto, iconico e potente, trasmette tutto lo spirito ironico e irriverente dell’artista, che giace a candela, con la testa appoggiata a terra, rivolta allo spettatore, e le gambe in aria e disunite, a sfidare il rigore compositivo di LeWitt cui, fino a poco prima, si applicava con
devozione.
È a questo punto che la mostra, fino a qui impostata su un ordine cronologico, prosegue per nuclei tematici, associazioni materiche e metodologiche, con l’eccezione delle finestre del museo che ospitano una timeline fotografica in trasparenza, un dispositivo curatoriale che restituisce l’immagine dell’artista e delle sue opere alla vivace realtà del centro storico di Napoli. Qui si incontra un recupero molto più marcato di iconografie e archetipi giapponesi nella documentazione video e fotografica delle performance, dalla Umbrella Dance concepita per la Łodz Biennale (2004), a Senza titolo, una rituale cerimonia del tè organizzata alla Kunsthalle di Krems (2008). In un’altra sala l’accento è sui libri d’artista, poi ci sono le creazioni più organiche, quelle con i rami, le corde e le carte da pacco, come l’iconico kimono Fatatabi (1987), e infine le string constructions della maturità artistica, sempre più vibranti e complesse – con i chiodi conficcati nel pavimento del museo, che accoglie generosamente il gesto.
La mostra si chiude con un confronto giocoso tra i disegni a muro in grafite di LeWitt, una selezione di Scribbles (2012) dispersi sui muri della sala, e un’opera abito di Miyamoto, Cat Cape Kimono (1990-2018), che sembra fare da contrappunto vivente ai paesaggi atmosferici di LeWitt. Una scelta curatoriale che intreccia il valore poetico ed esistenziale delle opere dei due artisti, di cui si percepisce la matrice comune e la complementarità.