Keith Haring aveva appena completato il suo “Progetto Italia ’89” a Pisa quando l’ho intervistato in Toscana. Il progetto, organizzato da Piergiorgio e Roberto Castellani, prevedeva la realizzazione di un murale che copriva una parete di diciotto metri per dieci all’esterno della Chiesa di Sant’Antonio. Altrettanto bene è andata al Festival di San Ranieri, il santo protettore dei ladri. Qui Haring ha organizzato il più oltraggioso house party a cui abbiano mai assistito le province italiane.
Shaun Caley: Hai affermato che i progetti pubblici sono la tua più importante attività del momento.
Keith Haring: Non so se è la più importante, ma è particolarmente significativo per me fare progetti pubblici ora perché la domanda di mercato del mio lavoro è salita. Potrei stare in studio a lavorare per i collezionisti o su commissione, ma è più importante per me usare il tempo facendo cose che offrono altre motivazioni e danno altri risultati piuttosto che lavorare solo per il mondo dell’arte.
SC: Che differenza c’è tra un lavoro come “Progetto Italia” a Pisa e il murale di East Houston a New York che dice:
“La vita è bella / Il crack è una batosta”?
KH: L’unica differenza è l’ambiente. Quello che succede all’interno di una scuola di un barrio di New York non è uguale a quello che succede in una chiesa nella città di Pisa.
SC: Senza disegni o piante come fai a organizzare uno spazio enorme come in “Progetto Italia” dove il muro è immenso ma ogni cosa sembra ricollegarsi alla fine?
KH: Probabilmente c’è un 20% di intuizione, un 20% di esperienza e forse un 60% di probabilità. Cerco di attenermi a un senso complessivo della composizione e della forma, di mettere i pezzi insieme come in un puzzle o come nella costruzione di un edificio.
SC: Sei venuto alla ribalta come artista di graffiti in un momento in cui nel mondo dell’arte le barriere culturali sembravano essersi dissolte.
KH: Era tutta un’illusione. L’illusione di un fenomeno in cui il mondo dell’arte e i media adottavano e sfruttavano la cultura hip-hop. Per un po’ sembravano prenderla seriamente, ne scrivevano, ne discutevano, ma era tutto molto superficiale. Il modo in cui la consumavano si è dimostrato illuminante su quali fossero i valori di questa gente. Molte cose successe negli ultimi dieci anni sono state delle ottime lezioni sulla volubilità del mondo dell’arte. Si faceva credere alla gente che si prendeva seriamente e appena la moda è cambiata tutti sono scappati nell’altra direzione.
SC: Alcuni galleristi hanno affermato che sin dall’inizio avere a che fare con il movimento Graffiti era come passarsi una patata bollente, per vedere chi si sarebbe bruciato con questi artisti. Tu sembri uno dei pochi sopravvissuti.
KH: Gli unici sopravvissuti al movimento sono quelli che non ne facevano davvero parte. Gente come me, Jean-Michel Basquiat e Kenny Sharf. Ma non si trattava di un movimento, tranne per quegli artisti che usavano gli spray a New York. Avevano una gerarchia e una vera comunità dei cui membri si potrebbero fare i nomi. Il modo in cui i media lo hanno ridotto a un movimento ha travisato le definizioni di ciò che era. Si trattava di una situazione difficile, perché sia io che Jean-Michel non volevamo dissociarci dai graffiti artists. Li apprezzavamo e non volevamo screditare ciò che stavano facendo, ma l’inclusione nel movimento rappresentava un limite per noi. Jean-Michel odiava essere definito un graffiti artist, pur avendo anche lui all’inizio lavorato per strada. Rispettavamo i graffiti, ma lavoravamo in modo diverso e non ci siamo fatti inghiottire dall’intera storia.
SC: Cosa è successo ai graffiti artists? Sono tutti più o meno spariti.
KH: Fab-Five-Freddy ora è un regista di video e film, Haze sta usando le capacità che gli vengono dalla pittura a spray come grafico, Rammellzee e Les Quinones espongono ancora nelle gallerie. Molti di questi artisti erano ottimi pittori, il problema era che tanti non erano preparati alla pericolosità e alla potenza del mondo dell’arte. Non si trattava del fatto di non essere equipaggiati per averci a che fare, non sapevano come trattare con la gente del mondo dell’arte allo stesso livello. Alcuni erano intimoriti, emotivi, e si lasciavano portare in posti dove non sarebbero andati di propria iniziativa. Jean-Michel e io eravamo abbastanza cinici da non lasciarci manipolare. Specialmente Jean-Michel era un meraviglioso esempio di resistenza a ogni cosa che veniva proposta dal mondo dell’arte, e di come fosse comunque rinomato in questo ambiente, mentre lo disprezzava.
SC: Basquiat non è stato anche una vittima?
KH: No, faceva esattamente quello che voleva. Nella vita come nella morte aveva il controllo del proprio destino. Per me Jean-Michel rappresenta un simbolo di libertà individuale, o anche di libertà totale: non si lasciava portare in giro dalla gente, non si lasciava influenzare o sfruttare. A certi livelli tutti sono vittime, che questo porti alla morte o meno. Ognuno ha a che fare con le stesse cose, ma gente diversa impiega diverse quantità di energia per non soccombere alla pressione. È un mondo duro, violento; bisogna restarne fuori altrimenti ti divora. Ci vuole anche sense of humor per non prenderlo troppo sul serio. Non può essere tanto importante da imporre il modo in cui devi lavorare o vivere la tua vita. A volte fare l’opposto o la cosa sbagliata è semplicemente un tentativo di affermare la propria libertà o identità personale.
SC: I tuoi contenitori di profilattici o i messaggi politici sui murali per strada hanno avuto implicazioni dirette. Come distingui tra il tuo tipo d’intervento politico e quello degli artisti di appropriazione?
KH: Non so fare paragoni. L’opera politica trasmette un messaggio preciso, sul sesso sicuro o sull’Apartheid. È costruita come strumento di un messaggio specifico; non è necessariamente autocritica o critica sui metodi che usa per dire alcune cose. In un certo senso, gli artisti che criticano la mercificazione dell’arte hanno trasformato la loro critica in un’opera a sé. Il mio lavoro non è impegnato in un dialogo critico con se stesso, ma cerca di usare ogni mezzo di comunicazione per trasmettere un messaggio in modo specifico.
SC: Sembra che tu abbia sempre preferito la prima linea invece di essere attratto dal pubblico passivo di una galleria.
KH: Il dialogo nel mondo dell’arte è interessante, ma ha una certa dose di inefficacia. Non è il mondo reale ma un ambiente isolato dove i problemi diventano annacquati da ciò a cui inizialmente uno cercava di opporsi. È interessante vedere artisti come Jeff Koons mettere in mostra la mercificazione dell’oggetto, ed è ridicolo trovarsi di fronte a una volgarità così sfacciata. È come se i collezionisti pagassero per essere presi in giro. L’opera diventa impotente, nel senso che non funziona più nei termini in cui era stata realizzata: una volta raggiunta la casa del collezionista, diventa innocua.
SC: Come vedi l’attuale mondo dell’arte?
KH: È diventato un modello o una metafora di una situazione più vasta, la lotta per il potere nel mondo, tra paesi ed economie diverse. È solo una minuscola replica di problemi più grandi, con gli stessi dittatori, la stessa propaganda e corruzione. Per me è un vero sollievo esserne al di fuori per quanto possibile.
SC: Anziché usare la tua opera per criticare la mercificazione dell’arte hai aperto i Pop Shops. Lo hai fatto per trasgredire i normali confini dell’artista?
KH: Fare i Pop Shops ha significato lasciare che l’opera diventasse ciò che stava diventando comunque. Agli inizi degli anni Ottanta l’informazione si diffondeva così in fretta che le immagini erano dappertutto. Si trattava di essere onesti con ciò che l’opera era e di immaginare quale fosse la sua funzione, sperimentare ogni cosa l’opera potesse o non potesse essere. È incredibile la velocità con cui si è inserita nella cultura popolare: al contrario di quanto avviene di solito con le opere d’arte. Di solito l’arte passa attraverso le istituzioni e viene impartita alle masse, un processo che avrebbe bisogno di anni per arrivare al resto della gente, finché il concetto comincia a essere compreso e a influenzare il modo in cui la gente vede. Come un Mondrian, che alla fine diventa abbastanza accettabile da trovarsi sulle scarpe o su una borsa. È strano invece il contrario, venire riconosciuti come una componente della cultura popolare prima di essere riconosciuti dal mondo dell’arte ufficiale. Il consenso nei miei riguardi è venuto prima dal pubblico. Poi il mondo dell’arte ha dovuto trattare con questo consenso, dovevano capire se il fatto che fossi già popolare significasse che c’era qualcosa che non andava.
SC: La tua opera ha ricevuto un riconoscimento popolare per la sua comprensibilità?
KH: La semplicità deriva dall’idea basilare del disegnare e dipingere in maniera semplice, perché viene dall’espressione diretta, dall’immaginazione, e cerca di presentare qualcosa di organizzato e semplice da guardare. La mia opera funziona così bene con il pubblico perché non è così difficile da esaminare per chi non ha idee preconcette riguardo a ciò che si suppone sia o non sia arte. Non ha bisogno d’altro che di una persona che la guardi. Oggi molta arte è diventata troppo intellettualizzata. Marcel Duchamp ha rappresentato il punto di rottura: con lui l’idea è diventata altrettanto importante dell’arte stessa. Comunque per me c’è qualcosa di incredibilmente reale e forte nella concezione originale di arte come qualcosa di inventato o creato dal nulla. Un oggetto che trasmette un qualche tipo di informazione o di energia alla gente. Tutte le mie idee si basano su questa concezione molto semplice dell’arte.
SC: Sei stato anche notevolmente coinvolto dai media e dall’industria dell’intrattenimento, quasi quanto Warhol. Come si combina questo con l’essere artista?
KH: Questi aspetti riguardano il ruolo dell’artista. Andy è stato uno dei primi che ha davvero affermato la sua identità e in un certo senso è diventato l’arte stessa. La sua vita è diventata una protesi della sua opera. La mia partecipazione all’arte va vista come una performance data la natura pubblica dell’opera. Dato che è parte della cultura popolare, era importante imparare come spiegarla, come farsi riprendere in televisione ed essere una figura pubblica. Molte di queste cose mi sono state imposte, ma a un certo punto diventa una responsabilità e non si ha scelta, bisogna arrivare a un compromesso. L’interazione con il pubblico diventa opera nel senso che ha a che fare sia con l’arte che con l’opera stessa.
SC: Hai studiato alla School of Visual Arts con, tra gli altri, Joseph Kosuth e Keith Sonnier. Erano parte integrante di quello che stavi facendo?
KH: Succedevano molte cose a New York in quel periodo. A scuola ho incontrato molti buoni artisti come Vito Acconci, Julian Schnabel, Ross Bleckner; Bill Beckley insegnava a un corso di semiotica che in quel periodo rappresentò una delle maggiori influenze sulla mia opera. Scoprii allora William Burroughs. L’inizio degli anni Ottanta era un periodo incredibile per arrivare a New York perché si era a una svolta decisiva. All’inizio era modesta, naturale, le cose succedevano da sé. Verso la metà degli anni Ottanta, invece, il mondo dell’arte e New York sono diventati molto più coscienti di loro stessi.
SC: Cosa ha fatto cambiare la situazione?
KH: Molto è dipeso dal mercato: i prezzi inflazionati e l’isteria dei collezionisti hanno contribuito a mettere gli artisti sotto pressione. Era un periodo difficile. Nel 1981 gli artisti sapevano contro cosa lavoravano e ogni cosa sembrava più chiara.
SC: Agli inizi degli anni Ottanta ti occupavi delle performance del Club 57 e della Fun Gallery. Com’è cambiato il concetto di divertimento da allora?
KH: All’inizio era divertente rischiare, per poi analizzare la situazione e tornare in carreggiata. L’AIDS ha rovinato tutto, così come ha cambiato completamente New York. I valori della gente e l’idea di divertimento sono cambiati drasticamente.
SC: L’AIDS ha influenzato il tuo lavoro?
KH: Certo. Deve manifestarsi ed è, in un certo senso, il soggetto di tutto quello che faccio. L’AIDS ha dato una calmata a tutti. Più persone scompaiono per motivi qualunque e questo mette sotto pressione quelli che restano.
SC: La tua ultima mostra da Tony Shafrazi a New York ha ricevuto molta attenzione da parte della critica. Il tuo lavoro è cambiato rispetto a quello precedente?
KH: Questo è un periodo molto difficile per lavorare, con la morte di Andy Warhol e di Jean-Michel Basquiat mi sento come se fossi stato lasciato solo. È stato un sollievo per me il fatto che il mondo dell’arte abbia distolto le sue attenzioni da un tipo di arte per rivolgerle alla Neo-Geo o all’appropriazione. Questo ha rinforzato la mia opera, l’ha resa più solida e chiara a vedersi perché non era in primo piano. La rimozione dell’opera dal centro dell’attenzione le ha permesso di essere se stessa. Più di quanto mi sia mai successo prima, ora so esattamente cosa sto facendo e perché lo faccio. Non ho bisogno dell’approvazione di nessuno e non ho nulla da dimostrare, l’ho già provato a chi mi stava a cuore e non c’è nessun altro da impressionare. Ora ho denaro a sufficienza e la facoltà di lavorare in qualsiasi posto nel mondo. “Progetto Italia”, per esempio: quale posto migliore di una chiesa nella città di Pisa per fare un quadro? Non si tratta di una catena di negozi in Germania o del quartier generale di una corporation. Non sono più minacciato, sebbene per qualche tempo mi sia sentito paranoico per quanta gente cercava di fermare il mio lavoro. Qualcuno ancora cerca di farlo, ma ci sono persone sincere a sufficienza per cui le altre non fanno testo. Sono diventato più chiaro di quanto non lo sia mai stato, ho un pubblico per farlo ed è una posizione ideale in cui restare.