Maurizio Cattelan: Ciao, Kerstin. Mi dispiace per prima, non ti ho sentita arrivare. Ho sempre queste cose nelle orecchie.
Kerstin Brätsch: Cosa stai ascoltando?
MC: Il mio studio manager mi ha mandato il nuovo album di Britney Spears, Femme Fatale. È fantastico. Tutta la sua produzione è puro decorativismo.
KB: Mi ricorderò sempre di lei agli MTV Awards del 2007. Stava in piedi a malapena.
MC: Non ne so nulla. Forse possiamo trascorrere un po’ di tempo parlando di celebrità. Ti ho vista in molte foto pubblicitarie recentemente, su riviste, ma anche ai lati degli edifici, sui manifesti.
KB: Davvero?
MC: E anche nelle foto pubblicitarie di altri.
KB: Non ne so niente. Sai, sono una donna.
MC: Sei una narcisista?
KB: Il mito di Narciso ha ispirato molti artisti sino a ora. Lo puoi trovare in molti dipinti storici, da Caravaggio a Poussin a Dalì. Narciso si specchia nell’acqua cercando il suo vero amore, ma trova solo la morte. Oggi cerchiamo immagini di noi stessi al telegiornale, ma troviamo solo quelle di altri.
MC: È una rivelazione?
KB: Solo perché poso per un’immagine non significa che passerò tutto il tempo a guardarla.
MC: Io chiedo, sai, perché una volta una sciocca giornalista d’arte mi ha chiesto qualcosa di simile…
KB: Sul tuo lavoro? Ti riferisci ai “Mini-me”?
MC: Forse.
KB: Warhol una volta ha detto che dovresti sempre fare cose che non rappresentano solo te. Qualcosa che non ha nulla a che fare con chi sei o con la persona che credi di essere, così che non pensi mai che quello che fai sei tu, la tua fama o la tua aura.
MC: Mi stupisce questo concetto. Dipingi con le mani?
KB: La maggior parte delle volte.
MC: Curioso. Ma comunque Kerstin Brätsch, in ogni modo e sempre, non è solo se stessa?
KB: Dipende.
MC: Il tuo lavoro e tu, o questo spazio in mezzo. Forse puoi aiutarmi a immaginarlo. È complicato, ma alcune persone vogliono sapere.
KB: I tuoi lettori?
MC: Alcuni scrittori.
KB: Il designer Scott Morrison una volta mi ha detto che tu non hai mai messo il tuo nome su qualcosa che hai fatto. Puoi sempre farti venire in mente un nome migliore. Distoglie qualcuno da questa energia psichica negativa che accompagna così tanto la ricezione culturale in questi giorni.
MC: Energia?
KB: Molto più interessante che parlare di ispirazione, fonti, influenza o delle droghe che prendi.
MC: Ma che mi dici del tuo nome? È anch’esso una tua opera, in questo senso?
KB: Forse questo è più strettamente connesso alla firma, una vecchia tecnologia che sembra persistere dispetto a, o forse a causa del declino generale della scrittura a mano che, a proposito, è un altro grande esempio di tecnologia.
MC: Firmi i tuoi lavori?
KB: Mai. Ma ho firmato i lavori di un mio amico in passato. Debo Eilers e io abbiamo fatto una mostra a New York l’anno scorso, e ho firmato tutti i suoi dipinti.
MC: Sembra che tu lavori con un sacco di persone. Adele Roeder è una tua assidua collaboratrice. A ogni modo, che cos’è DAS INSTITUT?
KB: Una bellissima amicizia.
MC: Vi siete fotografate a vicenda, ho visto quelle foto.
KB: Forse le hai viste in alcune immagini pubblicitarie. Abbiamo fatto una serie chiamata “When You See Me Again It Won’t Be Me”, nella quale ci siamo fotografate in maniera molto semplice, su uno sfondo nero. Noi ci dipingiamo di nero in alcune parti, alternando le nostre silhouette e profili. È un vecchio trucco cinematografico, veniva usato prima del green screen. I nostri corpi in questo caso sono le sagome con le quali lavoriamo. In realtà, credo che questo riguardi anche altri lavori. A ogni modo, queste immagini, come tutte le mie immagini, vengono utilizzate in modi diversi. Esse sono raccolte in una proiezione slideshow 35mm chiamata Viola! (2007 – in corso). Altre finiscono su poster o in progetti di altre persone — recentemente, ne ho data una a un amico per la copertina del suo album. A volte si trovano anche su riviste, come un sacco di altri lavori artistici. Ma per noi, quando queste foto appaiono sulle riviste, non sono documentazione o estratti di un lavoro, ma piuttosto un esempio.
MC: Ma allora il tuo nome, nelle firme o nei titoli o altro, è una sorta di brand?
KB: È un’astrazione. Se volessi usare il linguaggio teoretico di moda al momento, dovrei dire che è una specie di perdita di compressione, da quando una volta ho dimostrato che i materiali di partenza non possono mai essere riportati al loro stato originario. E, se li avessi ristrutturati, la loro fedeltà non avrebbe mai resistito all’originale. Tutto quello che posso dire è che non riesco mai più essere veramente il mio nome. A proposito, che cos’è un nome? Qualcuno una volta mi parlava di questa situazione come di una trappola. Il che mi fa pensare: forse sarebbe stato meglio se avessi adottato un altro nome quando ho cominciato a esporre il mio lavoro.
MC: Che tipo di nome?
KB: Qualcosa di più facile da pronunciare. Ricordo di aver ricevuto una telefonata quando uno dei più importanti tabloid tedeschi pubblicava un falso articolo su di me — fatto male — apparso su un quotidiano americano. Il mio nome era a caratteri cubitali e non avevo idea di cosa stesse succedendo finché i miei genitori non l’hanno visto e mi hanno chiamata. Il testo riportava alcune dichiarazioni ridicole e mi dipingeva come una sorta di star — o antistar — della pittura (difficile dirlo). Lo scandalo era l’artista, non l’opera. Ma questo è ciò che il gioco richiede, ovvero tutto di te.
MC: A cosa ti riferisci?
KB: A questo sistema che dirige il traffico dell’arte. Tutto è cambiato con l’avvento di mercati più vasti, elaborati apprendistati professionali e più paletti nel regno della presenza e della celebrità. Noi lo sappiamo. Ma il prezzo di tutto ciò è la tua energia sociale, i tuoi amici, il tuo tempo libero, la tua immagine e il tuo passato, la struttura della tua vita — e tutto diventa, in un certo senso, una sorta di tracciato biologico, un testo vivo. Piuttosto che essere immerso nel tuo lavoro, è assorbito in qualcosa di molto più astratto. Vedrai mostre con titoli come “Nomi non Opere”.
MC: Quindi cosa puoi fare?
KB: Spero che il lavoro parli da solo, in questo senso. Cosa pensi dello scandalo?
MC: È un buon modo di vivere.
KB: Non l’ha detto Richard Prince una volta?
MC: Penso l’abbia detto a proposito dell’arte.
KB: Hai qualche altra domanda?
MC: Cosa mi dici dei social network?
KB: Non sono su Facebook. Alcuni dei miei amici sì. Ci stavo pensando l’altro giorno. Pensavo a come la maggior parte delle persone oggi usa Google e Facebook. Ed entrambe le compagnie fanno un sacco di soldi, anche se il loro approccio nei confronti del mondo è fondamentalmente differente. Google è razionale e scientifico. Assumono i migliori ingegneri al mondo, pagano loro gli stipendi più competitivi, e progettano questa merda fuori dai problemi del mondo. L’approccio di Facebook d’altro canto è…
MC: L’ingegneria mi fa pensare a oggetti ben fatti realizzati da esperti.
KB: Pensi che questa sia una cosa fuori moda nel tuo settore?
MC: Non sono sicuro. Dimmi dei tuoi fantasmi.
KB: I fantasmi sono dipinti su mylar, una pellicola di plastica industriale. Si tratta di dipinti a olio, fatti a mano, e molti dei motivi presenti sono ispirati da effetti digitali e, se vuoi, “pennellate digitali”. Ci puoi attaccare i fantasmi come più ti piace, entrambi i lati sono adatti all’esposizione. Su di uno vedrai attraverso la plastica, in modo che il dipinto abbia un aspetto piatto. Il lato opposto rivela la pennellata, il modo in cui è fatto.
MC: Sono trasparenti. È difficile isolarli da loro ambiente.
KB: I fantasmi sono principalmente copiati dai dipinti originali, che sono a olio, ma non sono fantasmi.
MC: Quindi non sono trasparenti?
KB: No, sono su carta.
MC: Quello che mi hai mostrato è grande, la carta arricciata agli angoli.
KB: Proviene dallo studio, le violenze dello studio.
MC: Quindi sono simili, i fantasmi e i non-fantasmi. Perché ti ripeti?
KB: Ci sono molte risposte. Come sceglierne una?
MC: Dammi una risposta morale.
KB: La cultura veramente democratica si ottiene attraverso la ripetizione. L’accesso alle fonti più ricche di sapere o le migliori tecnologie di conoscenza non possono mai competere con il rivoluzionario potenziale della ripetizione e delle istanze cognitive. Hai letto Il maestro ignorante di Jacquès Rancière?
MC: No. Ti interessa anche la moda?
KB: La moda sparisce, solo lo stile rimane.
MC: Questa è Coco Chanel.
KB: Probabilmente non la prima che l’ha detto.
MC: Dimmi della toppa parassita che tu e Adele avete realizzato.
KB: Si tratta di pezzi di stoffa quadrati e cuciti (Parasite Patches, ndr) concepiti per vivere sulle spalle di altri capi d’abbigliamento. Li puoi appuntare sulla tua felpa Uniqlo e avere una toppa parassita, oppure sulla tua giacca di Jil Sander e avere così una toppa parassita di Jil Sander.
MC: I punk facevano la stessa cosa sulle loro giacche di pelle.
KB: Davvero?
MC: Sì, l’ho visto a Roma.
KB: Sì, le toppe parassite sono oggetti di moda ma non del tutto, dal momento che richiedono un ospite per essere impiegate opportunamente. Da sole non sono pienamente funzionali.
MC: Non sono dei dipinti?
KB: Sono interessata alla pittura che è un po’ più animata rispetto a qualcosa che è semplicemente appesa alla parete. Un personaggio o un’esperienza sono più interessanti.
MC: Ora stai diventando molto concettuale.
KB: No, è tutto abbastanza semplice e reale. È il mondo reale.
MC: Dunque stiamo parlando di tecnologia, moda e pittura. In che modo queste cose sono collegate al tuo lavoro?
KB: Il mio amico Boško Blagojević una volta ha detto che tutta la tecnologia è destinata a diventare moda. E il modello o l’immagine primordiale per questo genere di movimento è l’orologio da polso. Inizia sul tuo polso.
MC: Ho sentito parlare di questo ragazzo.
KB: Le cose in movimento mi sembrano un po’ più interessanti rispetto alle cose che crescono.
MC: Qual è la differenza?
KB: Crescita senza fine, senza restrizione o pausa, cancro, capitalismo finanziario…
MC: Ascolta, tra poco devo andare. Forse possiamo pranzare insieme la prossima volta.
KB: Che fai domani, torni a Milano?
MC: Martedì. Domani vado al Met a studiare i maestri.
KB: Non dimenticare un binocolo per il presente!