A conclusione della sua residenza presso la Fondazione Memmo di Roma, Kerstin Brätsch (Amburgo, 1979; vive a New York) presenta negli spazi delle Scuderie di Palazzo Ruspoli Fossil Psychic (2018), una serie di lavori in “stuccomarmo” realizzati insieme all’artigiano Walter Cipriani. Nell’intervista di Davide Stucchi che segue, Brätsch riflette sulla caratteristica di transitorietà della materia che contraddistingue tutta la sua pratica artistica. Interrogando il concetto di rovina, Brätsch – tra echi all’architettura romana e visioni animiste – torna a insistere sulla messa in discussione dei canoni del medium pittorico.
Davide Stucchi: Tempo fa, mi hai mandato delle fotografie di alcuni pezzi di stucco prima che fossero assemblati. In queste istantanee, illuminati con una torcia di iPhone, i frammenti erano organizzati in base alle sfumature di colore e avvolti in fogli di plastica. Sei diventata una cacciatrice di reliquie a Roma?
Kerstin Brätsch: Sì, si direbbe di sì. Mi piacciono queste istantanee perché mi ricordano i predoni di tombe alla ricerca di tesori nelle catacombe romane. In questo caso, però, qualcosa non funziona. Le reliquie sembrano appartenere più a uno scenario futuristico: scheletri e ossa colorati artificialmente o geneticamente modificati, a un certo punto vaporizzatisi e rimaterializzatisi sotto forma di stucchi. Le immagini richiamano anche il cibo avariato o i residui di una festa che si sono cristallizzati nel tempo, preservandosi. In questo senso, le opere abitano una spaccatura tra i loro riferimenti storici, come la tecnica antica con cui sono prodotte, e un elemento di profezia.
Ho intitolato la mostra alla Fondazione Memmo “_Ruine” – un neologismo che riecheggia sia il termine inglese ruin [rovina] che la sua traduzione in italiano – pensando all’azione del costruire sulle rovine romane, sovrapponendovi le mie reliquie. In un certo senso, potrei dire che ho “rovinato le rovine” aggiungendovi un elemento di novità. Però, dal mio punto di vista, questo atto di profanazione ha un valore generativo.
Questa mostra riafferma il mio interesse nel destabilizzare e trascendere i limiti del linguaggio della pittura. Una strategia che adotto spesso a questo proposito è quella di attivare collaborazioni con degli artigiani, ai fini di interrogare e mettere in discussione l’idea di soggettività in relazione all’identità storica del pittore – minandone la figura, potremmo dire.
Attraverso i video e le fotografie che mi hai inviato, posso dire di aver conosciuto anch’io Walter Cipriani, l’artigiano romano con cui hai lavorato a questa nuova serie di lavori. Ho visto le sue mani combattere contro i tuoi “fantasmi” – termine con cui ti riferisci ai “volti” che emergono dal processo di composizione dei frammenti di materia. In che modo il processo che c’è dietro ai lavori in “stuccomarmo” differisce dalle precedenti opere in vetro e in carta marmorizzata?
Lo “stuccomarmo” è una tecnica inventata con lo scopo di imitare il marmo e altre pietre rare, e importata in Italia dalla Baviera nel XVII secolo. Attraverso questa tecnica ho cercato di spingere ancora oltre quella riflessione sulla materia che avevo inaugurato nelle mie due serie precedenti: i vetri lavorati contenenti frammenti di agata e le carte marmorizzate che imitano i fenomeni geologici miasmatici. Queste lastre di pseudo pietra appaiono come gli oggetti fisici su cui sono state modellate, quindi potremmo dire che sto inseguendo una sorta di “mimetismo di pietra”. Specialmente in relazione alle carte marmorizzate (Unstable Talismanic Rendering Psychopompo (with gratitude to master marbler Dirk Lange), 2018) che implicavano tanto l’azione delle forze fisiche che regolano i flussi d’acqua che una componente di casualità, questi nuovi lavori vengono creati e scolpiti a mano in un processo che dialoga con la loro materialità. Rispetto ai vetri e alle carte, gli stucchi sono di dimensioni più ridotte pur avendo tempi di realizzazione più lunghi – sono dipinti “esigenti”. Walter e io li chiamiamo, in momenti diversi, “mostri di pietra” o “dipinti di pietra votiva”.
Il processo di lavorazione dello stuccomarmo prevede la creazione di “salsicciotti” di gesso, assemblati in una composizione che viene poi appiattita e levigata. Le composizioni sono il mio modo di creare i segni pittorici a cui facevi riferimento.
Mi piace pensare a questi lavori come il risultato della mano di un pittore-scultore, perché ciò che viene fuori è una pennellata tridimensionale, scolpita, che solo attraverso il processo di pressatura diventa piatta. Il materiale subisce una trasformazione, diventa una sorta di fantasma bidimensionale che porta traccia del suo sé passato nella sua nuova dimensione spaziale. Un processo che trasforma la pittura in un fossile.
Gli stucchi sono per me dipinti-oggetti in transizione e, come molte delle mie precedenti serie di lavori, non si danno a prima vista come dipinti. Vedo queste opere come una combinazione di differenti tipi di corporeità – spaziale, ma anche estetica, sociale e psicologica – che hanno tutti un ruolo nel definire la pittura.
La mano del pittore è anche responsabile della sua firma, le opere dunque possono anche essere lette come un gioco sul mio nome: mi piace chiamarle brätschworst (che ricorda il tedesco Bratwurst [salsiccia]), dove la mia firma prende la forma di una salsiccia o di un pezzo di sterco. Sono materializzazioni del mio nome. Tutto questo avviene chiaramente in relazione e in risposta a Walter, che contribuisce il know-how e la precisione necessari per lavorare con questi procedimenti – la sua profonda conoscenza di un’antica tecnica artigianale viene messa in gioco con il mio interrogarmi sull’identità artistica oggi.
Hai disegnato occhi, bocche e nasi su sacchetti di plastica trasparenti, che poi hai usato come maschere per i lavori in “stuccomarmo”. Pensi di aver adottato qui un approccio simile alle Bodybags che crei con KAYA, il tuo progetto in collaborazione con l’artista Debo Eilers?
Anche KAYA, inoltre, contribuisce alla mostra alla Fondazione Memmo. In che cosa la tua presentazione come Kerstin e quella di KAYA differiscono in questo specifico contesto?
L’approccio alle due serie è molto diverso: mentre i lavori in “stuccomarmo” richiedono precisione, il processo creativo delle Bodybags di KAYA necessita il contenimento di un’energia piuttosto indisciplinata. Le Bodybags sono aspre e pesanti, la violenta collisione di pittura e scultura è, infatti, una perfetta sintesi del funzionamento della mia collaborazione con Debo. Mentre i lavori in “stuccomarmo” diventano entità conservate, frammenti di pittura fermentata, fossili, le opere di KAYA si pongono come mezzi per una nuova esistenza, una energia inesplorata da convogliare nei rituali in cui, di volta in volta, vengono impiegati.
Nella mostra alla Fondazione Memmo abbiamo intitolato la sezione di KAYA “_KOVO” (di nuovo una fusione dell’inglese cave [grotta] e dell’italiano “covo”) come a voler delineare lo scenario di un rituale. Delle lampade illuminano questa grotta e delle pelli la adornano, per aiutarci a evocare uno spirito animalesco con cui infondiamo la maggior parte dei lavori di KAYA. “_KOVO” è, infatti, anche un termine che indica un ibrido uomo-mucca. Queste narrazioni di ibridazioni restituiscono il nostro processo di lavoro: i dipinti di KAYA sono semi-umani, evocano spettri animisti e fantascientifici. Nell’oscurità della grotta, sotto il bagliore delle lampade, KAYA celebra un rito di evocazione.
Inoltre, per questa iterazione di KAYA, si è unito a noi An, musicista e artista sonoro di Napoli, attualmente impegnato in uno studio degli stati pre-verbali di coscienza e della materia nelle fasi simultanee di composizione e decomposizione. Insieme alla mostra è stato prodotto un disco in edizione limitata, risultato del contributo di An al progetto.
Generalmente le tue opere – siano esse lastre di vetro a forma di occhio, ventagli, espositori che richiamano delle scale, fogli di Mylar impiegati come bandiere o costumi teatrali – sono pensate per innescare un’interazione, spesso grazie ad altri artisti che inviti a prendere parte ad azioni e parate simili a veri e propri rituali. Come percepisci le opere della serie Fossil Psychics – creature, invece, massicce e forti, radicate nella loro esistenza terrena – rispetto alle tue opere leggere e mobili?
Il movimento è sempre presente, ma si scatena in direzioni diverse. Si verifica dentro le opere, nella loro realizzazione. Le pennellate-salsicce vengono manipolate e “stressate” per creare le forme, che sono poi messe da parte, congelate nel tempo e, infine, appiattite. Il processo richiede mesi per lavorare e dare una forma al materiale, per conferire alle opere l’immobilità che incarnano. Il rituale in questo caso sta nel procedimento.
Ho avuto la possibilità di visitare il laboratorio di Glas Mäder, l’azienda svizzera con la quale hai prodotto i tuoi lavori in vetro. Immagino che per i lavori in “stuccomarmo” hai impiegato un processo simile, assemblando frammenti di materiale. Tuttavia, questo è un processo in cui la composizione gioca un ruolo importante, ma non può mai essere del tutto accurata. Non ti infastidisce il dover ricorrere continuamente a fattori esterni – come le tecniche artigianali o i processi fisico-chimici – nei tuoi processi? O diresti, invece, che la tua pratica beneficia di questo modo di lavorare, quasi sospeso nella fiducia verso quei fattori?
Dopo aver recentemente trascorso alcune settimane in Giappone per una residenza, lo sforzarsi di avere sempre il controllo sugli eventi e, così, rimarcare la divisione tra “umano” e “universale” mi sembra ancora di più un approccio specificamente occidentale. Nella cultura giapponese c’è una visione molto più animistica (scintoista) della natura. La filosofia orientale non fa distinzioni tra la sfera umana e quella non umana – è molto più integrata e olistica. Sto imparando a “disimparare” l’impulso verso questa manipolazione antropocenica della natura e ad abbracciare l’universo nella mia pratica. Alimentare le relazioni è una forma di comunicazione. Questo mi ha fatto riflettere sul fatto che realizzare i lavori in “stuccomarmo” è un po’ come cuocere il pane (e a Roma l’odore dell’impasto della pizza e del pane è ovunque). Perlopiù Pompei si trova a poche ore di distanza, così le mie opere assomigliano anche alla visione distorta di un mosaico.
Per tornare alla pittura, mi piace l’idea di frammentare il medium, scomporlo, trattarlo come un corpo in decomposizione e ristrutturarlo; agire su di esso come fossi un dottore, trovare un rimedio, prendermene cura e rivitalizzare quello che ne rimane. Per questo attivo un processo fintamente scientifico. Sto cercando di testare la pittura per condurla altrove, in transito verso un luogo liminale, sottoporla a una “prova di sforzo”.
Dirk, Urs, Walter: tutti questi artigiani sono figure, diremmo, remote. Lavorare con loro ti consente di acquisire una conoscenza di determinate tecniche creative alle quali ti avvicini per pura fascinazione. Menzioni e ringrazi esplicitamente gli artigiani nei titoli delle tue opere; e mi hai confidato che anche loro nutrono una profonda gratitudine nei tuoi confronti perché attraverso le vostre collaborazioni riesci ad allontanarli, almeno per un po’, dalle loro lavorazioni standard. Cosa ha scoperto Walter lavorando con te?
Walter e io abbiamo cercato di tradurre l’effetto delle sfumature che si ottengono dipingendo con le spugne nella tecnica dello “stuccomarmo” – per lui è stato piuttosto eccitante. Ti è mai capitato di vedere su YouTube i video di Dee Gruenig, la cosiddetta “Rainbow Sponge Lady”? I suoi tutorial sono diventati virali. Avevo utilizzato in precedenza questa tecnica nei miei dipinti ad olio su Mylar, dopo che l’ho scoperta grazie ai pittori di strada di Chinatown, a New York.
Ricordo che quattro o cinque anni fa visitammo insieme la Basilica di San Clemente in Laterano a Roma. Cito questo luogo proprio per la sua particolare stratificazione delle rovine di tre diverse chiese – oltre ai suoi splendidi pavimenti in marmo intarsiato. Riesci a immaginare i tuoi lavori come se fossero delle fondamenta? Cosa può esservi costruito sopra? Chi sarà destinato a salirci e camminarci?
Ti ringrazio per avermi ricordato quella visita, che avevo quasi rimosso. Anzi, fai emergere una vera e propria coincidenza, perché, mentre stavo preparando la mostra alla Fondazione Memmo, vivevo esattamente dietro l’angolo della Basilica di San Clemente in Laterano. Debo e io ci siamo andati spesso con in mente il nostro progetto per la mostra. Questo luogo è stato di grande ispirazione per l’installazione di KAYA alla Fondazione Memmo; e, infatti, abbiamo usato frammenti degli affreschi ornamentali della chiesa come parti del pavimento dello studio – pavimento che è stato effettivamente calpestato.
Oltre a guardare ai pavimenti in marmo intarsiato della Basilica che hai menzionato, lo stabile romano in cui soggiornavamo era decorato con diverse tipologie di pietre, tra cui sia il marmo che la sua imitazione: lo “stuccomarmo”, appunto. Ho ritenuto ci fosse un valore nel lavorare con lo stesso materiale di cui ero circondata nel mio ambiente domestico italiano: i numerosi pavimenti e gradini in marmo che calpestavo tutti i giorni e le colonne decorative in “stuccomarmo” che mi circondavano.
Mi piace immaginare che i miei lavori in “stuccomarmo” siano come ipotetici passi o “dipinti di pietra calpestabili” su cui le gente potrà camminare e le generazioni future persino costruire.