Recentemente riscoperta dopo un lungo oblio critico, la ricerca di Ketty La Rocca si rivela ancora attuale: focalizzata su questioni quali l’identità e la critica al linguaggio, esprime una sensibilità condivisa e fatta propria dalle ricerche contemporanee.
Solitaria, indipendente, poco incline all’omologazione, Ketty La Rocca è una figura singolare nel panorama artistico italiano tra gli anni Sessanta e Settanta. Passando attraverso diverse esperienze, l’artista ha operato in un ambito liminare mescolando linguaggi e codici, riferimenti colti e popolari, differenti media espressivi per elaborare un linguaggio che, pur risentendo delle tendenze più sperimentali del momento, rimane, nella propria autonomia, irriducibile e non definibile univocamente. Una testimonianza viva di quegli anni, priva di caratteri di parzialità, in rapporto dialettico con la società e con la cultura dell’epoca, delle quali è riflesso sintomatico e rimeditazione personale, coerentemente con una concezione eteronoma dell’arte di matrice marxista. La Rocca ha sostenuto apertamente una politica di rinnovamento artistico-culturale e di contestazione attiva dell’esistente, in modo più evidente e marcatamente ideologico nei suoi esordi poetico-visivi intorno alla metà degli anni Sessanta, all’interno del Gruppo 70 degli artisti-attivisti Miccini e Pignotti. Collage e composizioni poetiche, spesso proposte al di fuori dell’ambiente istituzionale — performance, letture o distribuzione di poesie-volantini per strada —, opere che esprimono la specificità femminile manifestando una posizione femminista e una forte carica polemica contro gli stereotipi creati, diffusi e abusati dai media. Ma l’esperienza all’interno del Gruppo 70 si esaurisce presto: La Rocca sente di dover andare oltre, seguendo il cambiamento delle condizioni storiche e personali, tra queste l’esperienza della malattia incurabile, che muta la sua prospettiva di donna e di artista. Si distacca dal gruppo fiorentino per intraprendere un percorso personale, meno eterodiretto e contestatario, che si focalizza sull’analisi della comunicazione, alla ricerca, oltre l’ambiguità del linguaggio, di una verità e un’autenticità attraverso la quale poter affermare la propria presenza nel mondo.
Tra il 1967 e il 1969 abbandona gradualmente la produzione poetico-visiva realizzando una serie di lavori che si rifanno direttamente al modello della segnaletica stradale con esiti iperrealistici. L’equivocità semantica è la loro caratteristica: le frasi, isolate da ogni possibile contesto di riferimento, si offrono come testi aperti; il rimando magrittiano è molto evidente e va oltre alla tecnica, richiamando i giochi di parole dell’artista belga. Con analoghe modalità tecnico-stilistiche, La Rocca opera anche sulle singole lettere e sui segni tipografici, che di lì a breve ripropone come sculture in PVC nero: le “presenze alfabetiche” che si impongono nello spazio quotidiano come entità concrete e autonome. La J e la I sono predilette: iniziali del primo pronome singolare — io, je, I — diventano un segno di autoaffermazione, un’emblematica proclamazione della propria soggettività in mutamento. Parallelamente l’indagine procede anche sul fronte della scrittura: La Rocca continua a comporre testi, genericamente nonsense, con i quali dimostrare ironicamente e polemicamente l’impossibilità della lingua di farsi tramite di una comunicazione reale e veritiera in grado di manifestare la spontaneità del sentire, avvertita come imprescindibile. Simili alle composizioni tecnologiche della metà degli anni Sessanta, sono frammenti presi dal linguaggio della cronaca, della politica, della burocrazia; esemplare tra tutti Dal momento in cui qualsiasi… del 1970, grammaticalmente e sintatticamente corretto, stilisticamente inappuntabile ma privo di qualsiasi concetto, fa ironicamente il verso a una comunicazione ridondante, puro gioco formale di vuote perifrasi, paradossale ostentazione retorica che nasconde un’assoluta mancanza di contenuti ma che riesce, con la sua enfasi, a creare un’illusione di significato che in realtà non c’è. È un manifesto dello svuotamento di senso del linguaggio convenzionale e codificato che verrà ripreso più volte dall’artista ed è punto di partenza per la successiva esplorazione di territori non verbali.
Sulla scia dell’interesse per l’antropologia strutturale, e in particolare per il pensiero di Lévi-Strauss, La Rocca rivaluta la gestualità intesa come rivincita della corporeità repressa, come atto di insurrezione contro il primato assegnato al linguaggio verbale asservito alle necessità del capitale e ormai incapace di veicolare significati autentici. Il gesto, inoltre, in quanto movimento, dispendio energetico con finalità espressiva e non produttiva, è sottratto alla legge della redditività e dell’efficienza che lo regola nella nostra società e diventa, in quanto tale, atto polemico di disalienazione. A partire dalla serie delle “Mani”, iniziata nel 1971, usa fotografia e video — Appendice per un supplica del 1972, prodotto da Gerry Schum per la partecipazione dell’artista alla Biennale di Venezia di quell’anno, è tra i primi video d’arte in Italia — La Rocca perviene a una sorta di catalogo gestuale: ritrae le mani tese, a pugno, unite, sovrapposte, incrociate e intrecciate con quelle di altri. Vuole così riscoprire una modalità espressiva originaria in grado di sostituire la parola, una forma di linguaggio primigenio: In principio erat, appunto, come significativamente intitola il fotolibro, pubblicato in due edizioni nel 1971 e nel 1975, che sintetizza queste ricerche e anticipa successivi sviluppi. Alle mani sono associate didascalie composte da frammenti testuali; confrontate con la pregnanza espressiva dei gesti, le parole appaiono assolutamente vuote, prive di valore comunicativo. Lo scarto è palese. Il confronto-scontro tra gesto e parola diventa il terreno di indagine privilegiata a partire dal 1973 con la serie intitolata “Mani con discorso”, in cui parola non è più didascalia ma si fa segno mentre l’immagine diventa supporto per la calligrafia, che si snoda, ripercorrendo e sovrapponendosi ai contorni. La scrittura è qui inintelleggibile, si frammenta, è un gesto automatico in cui si evidenzia ripetutamente la parola you, unica leggibile e comprensibile. L’insistenza su questa parola assume il senso di una preghiera, di una supplica, la necessità di un riconoscimento. La scrittura è affermazione della propria identità minacciata dalla percezione dell’inesorabile transitorietà, presa di possesso febbrile dell’esistente, urgenza di lasciare una traccia di sé ma al contempo anche un tentativo di entrare in contatto con l’altro.
La pervasività del segno-scrittura è diventata totalizzante: contemporaneamente inizia la serie delle “Craniologie” in cui utilizza le radiografie del proprio cranio come supporto per la grafia o per la sovrapposizione fotografica di altre immagini, di mani o di maschere africane, come in antichi monumenti funebri. La radiografia è la metafora visiva della malattia e della degenerazione fisica; l’intervento artistico diventa allora il mezzo attraverso cui l’angoscia inevitabile si trasforma in espressione, in memento mori personale. La pellicola radiografica ha una qualità di trasparenza che affascina l’artista: la possibilità di vedere oltre e di intervenire su livelli diversi che lasciano intravedere la progressione dei passaggi. Qualità che ha anche un valore simbolico e che diventa il materiale privilegiato nei suoi polittici degli anni Settanta, ultima fase della sua ricerca, in cui l’immagine viene ripetutamente ricalcata su fogli di carta da lucido. In questi lavori, parola e immagine si ricongiungono e La Rocca ritorna idealmente ai suoi esordi: dall’analisi sulla gestualità, intesa come punto di arrivo di un percorso riduttivo, alla ricerca di una modalità espressiva primigenia, l’artista, con un analogo percorso a ritroso nell’ambito del linguaggio verbale, recupera la parola all’insegna della soggettività in quanto traccia immediata, unica e inconfondibile, del movimento della propria mano. È in questo senso che il segno-scrittura di La Rocca va interpretato come cifra personale attraverso la quale investire la totalità del reale. Le mani, la testa e il mondo: le immagini utilizzate da La Rocca sono di diversa provenienza. L’artista non agisce sulla dimensione nostalgica del ricordo personale, dell’esperienza del proprio vissuto e del proprio lavoro, ma sull’immaginario collettivo, gli stereotipi dei media, l’iconografia e la memoria popolare, la Storia, il patrimonio visivo comune della sua generazione. Sono immagini note, conosciute a tutti ma rese estranee dall’abuso del consumo quotidiano che le riduce alla banalità indifferenziata e omologante del già visto e le condanna all’obsolescenza rapida della moda. La Rocca attua una pratica di appropriazione e attualizzazione attraverso il metodo del ricalco-trascrizione dei contorni dell’immagine prescelta, procedendo per successivi passaggi di stilizzazione iconica, che si strutturano narrativamente in forma di trittici e polittici. La grafia si sovrappone all’immagine, fagocitandola in un’alternanza di linee, segni più marcati, addirittura macchie di inchiostro in un progressivo processo di riduzione, fino a sostituirsi a essa, trasformandola in una visione mentale, rendendo visibile l’invisibile — i labili fantasmi che permangono nella memoria, la ricostruzione del mondo, la sua categorizzazione mentale. Il segno sottolinea e rivela l’immagine, ma così facendo la cancella e al contempo la sussume in una nuova sostanza. I due codici si neutralizzano a vicenda: il segno grafico, invadendo lo spazio della figura, si frantuma, assume direzioni e forme inedite e improprie, dissolve nelle diverse stratificazioni segniche della sequenza la propria identità di scrittura e di discorso, creando un’interferenza visiva che opacizza la comunicazione di un qualsiasi messaggio, mentre l’immagine perde la sua immediata riconoscibilità. Annullamento ed elisione palesano la comune natura segnica dei due codici, ridotti al loro comune denominatore: un punto di non ritorno. La propria grafia, finalmente non alienata, è autentico gesto di affermazione del sé e sola forma di comunicazione possibile: “Il mio lavoro tenta di riscattare l’immagine a se stessa, materializzandone la sfida alla metafora, sfida già persa, ma in maniera dichiarata, infatti io non racconto, mi limito a ripercorrere, disegnare, scrivere i contorni con l’unico segno possibile: la calligrafia, momento alienante e parziale che si preannuncia già come storico, ma pur sempre unico, il mio unico gesto”.