“La Pop Art non ha fatto altro che enfatizzare la società che le stava intorno […]. Oldenburg cosa ha fatto? Ha fatto vedere come era la società, quindi io sto facendo vedere quali sono le piaghe”[i]. Con queste parole Ketty La Rocca sottolinea la distanza che la separa dal movimento americano ed esprime il suo dissenso nei confronti della civiltà dei consumi. L’artista condivide infatti lo spirito antagonista del Gruppo 70, a cui si avvicina nel 1966 grazie al tramite di Lelio Missoni, in arte Camillo. Con quest’ultimo, nello stesso 1966, La Rocca pubblica alcuni collage nella sezione “Il mito ci sommerge” del secondo volume della collana I Tris, diretta dall’editore bolognese Enrico Riccardo Sampietro. L’opera Non commettere sorpassi impuri, posta in apertura della sezione, è rivelatrice delle idee e delle pratiche che in questa fase animano il lavoro di La Rocca: sul fondo monocromo si staglia la fotografia, prelevata da una réclame, di una donna nuda; è ritratta nell’atto di coprirsi il seno con la mano sinistra, mentre alza il braccio destro piegandolo dietro la nuca, nella posa canonica della tentatrice, che ha precedenti illustri nella storia dell’arte occidentale (dalla figura centrale delle Demoiselles d’Avignon di Picasso, alle diverse versioni delle Bagnanti di Cézanne). La pubblicità, come avrebbe spiegato John Berger pochi anni più tardi, si appropria infatti dei modelli alti della tradizione pittorica per corroborare una rappresentazione del femminile conforme ai desideri maschili, nella quale la donna non è considerata in qualità di soggetto vedente, ma di oggetto “veduto”[ii]. Le immagini sono accompagnate dal divieto Non commettere sorpassi impuri, in cui il sesto comandamento biblico si fonde con il titolo del film di Dino Risi, Il sorpasso (1962), dove Vittorio Gassman interpreta il cinico lestofante Bruno Cortona, simbolo dell’esuberanza senza scrupoli e della voracità dell’Italia del miracolo economico.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, il nostro paese vive infatti una fase di sviluppo senza precedenti: nel periodo compreso tra il 1958 e il 1963, cuore della cosiddetta golden age, il prodotto interno lordo per abitante aumenta a un tasso medio annuo del 6,3%, contro il 4,3% dell’Europa occidentale[iii]. Le contraddizioni e gli squilibri si fanno tuttavia più evidenti intorno al 1964, quando l’Italia si trova a fare i conti con una crisi di governo e turbolenze finanziarie. È al lato oscuro della modernizzazione e del boom economico che si rivolge l’interesse dei poeti visivi fiorentini; e, in particolare, è al nuovo ruolo della donna nella società capitalista che La Rocca guarda con occhio critico, per denunciare la reificazione del corpo femminile operata da quotidiani e rotocalchi.
In questo periodo, parallelamente ai primi segni di liberalizzazione dei costumi sessuali dovuti alla maggiore diffusione della contraccezione e alla crisi dell’istituzione familiare tradizionale, si profila una nuova immagine della casalinga che diventa in breve un riferimento imprescindibile per la macchina produttiva e per i mass-media. Alla donna vengono dedicate specifiche riviste, rubriche e pubblicità, in cui tuttavia il suo ruolo è per lo più confinato a quello di regina del focolare o seduttrice. Sfidare le rappresentazioni stereotipate del femminile attraverso l’ironia e il nonsense è la strada perseguita da La Rocca in collage datati 1964-65 come Sana come il pane quotidiano, Vergine, Qualcosa di vecchio, Belle e dolci, dove l’accostamento straniante tra parole e immagini di origine mediatica demistifica i valori di giovinezza, bellezza, illibatezza, remissività e dolcezza tradizionalmente legati alla figura femminile nella società maschilista e cattolica. Le donne rappresentate in queste opere sono seducenti, all’apice della bellezza, sono spesso circondate da oggetti connessi al make-up, alla cura del corpo o della casa ed esibiscono un’aria sicura e felice, di cui tuttavia i lavori di La Rocca svelano il carattere illusorio, attraverso la presenza di parole e frasi incongrue, che aprono una faglia nella visione edulcorata promossa dalla pubblicità: Sono felice / dopo i piatti / dopo il bucato / dopo i lavori domestici, si legge ad esempio in un collage del 1965.
La sfida alla cultura patriarcale domina anche le poesie lineari che l’artista pubblica in questi anni, fondate sulla disarticolazione della sintassi, la parodia del gergo burocratico e tecnico-scientifico, il montaggio di frasi ready-made, secondo modalità sviluppate sull’impulso di suggestioni provenienti dalle sperimentazioni letterarie del Gruppo 63 e dalla poesia tecnologica fiorentina. Nelle poesie di La Rocca l’accusa al sessismo della Chiesa cattolica è corrosiva:
Per essersi accompagnata ad un uomo
a lei non legittimamente unito da vincolo
matrimoniale, il pretore decreta:
secondo le leggi dello Stato S.R.C.[iv]
In un’Italia in cui il diritto di famiglia si fondava ancora sui precetti del Codice del 1942 e il Vaticano aveva un peso decisivo nella politica nazionale, la critica di La Rocca nei confronti della condizione di subalternità femminile si fa pungente.
Vissuta per alcuni anni, tra il 1952 e il 1956, in un convitto femminile a Spoleto, La Rocca conosce a fondo i condizionamenti che plasmano i comportamenti della donna sin dalla prima infanzia, anche grazie al contatto quotidiano con le sue allieve, sempre ansiose di “fare ciò che piace e che accontenta la maestra”[v]. Benché l’artista non militi nel movimento femminista, il suo lavoro va letto sullo sfondo dei nuovi fermenti politici che si stanno diffondendo nel nostro Paese, dove nel 1966 viene fondato il gruppo femminista milanese DEMAU (Demistificazione Autoritarismo) e nel 1970 quello di Rivolta Femminile.
Non va inoltre sottovalutato il fatto che La Rocca, a differenza di altre artiste italiane della sua generazione, accetti di partecipare a diverse mostre al femminile nel corso degli anni Settanta, anche fuori dall’Italia. L’artista troverà un’interlocutrice privilegiata in Romana Loda, singolarissima gallerista, curatrice e infaticabile promotrice del lavoro delle artiste, con la quale collaborerà in più occasioni, in particolare per le mostre di sole donne “Coazione a mostrare” (1974) e “Magma” (1975). Nella stessa direzione vanno letti i rapporti di La Rocca con Lucy Lippard e Anne-Marie Sauzeau Boetti, testimoniati da alcune lettere e dagli interventi critici pubblicati all’epoca dalle studiose, e la vicinanza con Lea Vergine, che ne include il lavoro nel libro Il corpo come linguaggio (Prearo, Milano 1974). Questa fitta rete di contatti femminili contribuisce in modo considerevole alla notorietà internazionale dell’opera di La Rocca e lascia trasparire il desiderio dell’artista di confrontarsi con curatrici e critiche d’arte sensibili alle nuove istanze femministe, in grado di comprendere il disagio profondo di lavorare in un ambiente, come quello italiano, particolarmente chiuso nei confronti delle donne.
Opere come Signora, lei che ama cucinare (1964-1965) o Bianco Napalm (1967) meritano invece un discorso a parte, perché in esse La Rocca denuncia non soltanto gli squilibri tra uomo e donna, ma anche quelli tra il Nord e il Sud del pianeta, ponendo sotto accusa lo spirito colonialista ed egemonico della cultura occidentale con una lucidità che ha pochi confronti nell’arte italiana del periodo. In particolare Bianco Napalm è un lavoro che fa da cerniera tra la prima fase basata sul montaggio verbovisivo e le successive sperimentazioni sulla segnaletica stradale condotte da La Rocca intorno al 1967. Dell’opera esistono due varianti, che differiscono nella tecnica, nelle dimensioni e, in parte, anche nell’iconografia. Nella versione di dimensioni più contenute, compaiono le parole “bianco” e “napalm” giustapposte alle immagini di una giovanissima vietnamita a piedi scalzi che porta sulle spalle un neonato, a quella di un militare con in mano un’arma e al ritratto del cardinale e arcivescovo americano Francis Joseph Spellman, convinto sostenitore dell’intervento americano in Vietnam. Nella versione più grande, il ritratto di Spellman scompare, a favore di una composizione più asciutta, e la tecnica muta: al posto del collage su cartoncino usato nella prima versione, l’artista realizza un’immagine fotografica plastificata su un supporto di legno. L’uso di materiali e strumenti poveri come la carta, le forbici e la colla e la manualità tipici dei primi collage vengono qui abbandonati a favore di una superficie lucida e priva di asperità, che esibisce una fattura artificiale: l’attitudine da bricoleur che connota i primi collage si stempera e, benché nella seconda versione dell’opera permanga ancora una struttura basata sul montaggio di frammenti verbovisivi, il diverso trattamento della superficie e la nuova spazialità legata alla diversa economia dei vuoti e dei pieni derivanti dall’eliminazione del ritratto, segnano un passaggio cruciale verso le successive ricerche sui cartelli stradali, la segnaletica urbana e le J in PVC nero, a cui l’artista lavorerà tra il 1967 e il 1970.
Intorno al 1971, il lavoro di La Rocca inizia a muoversi in una direzione diversa: l’accento si sposterà sul corpo, sulla gestualità del viso e delle mani, sulla scrittura manuale e sull’azione, alla ricerca di forme di comunicazione primigenie ritenute più autentiche rispetto al linguaggio verbale. Nel nuovo decennio, l’arte di La Rocca entra in una fase che l’artista stessa definisce di “delusione dell’immagine”[vi], generata dalla convinzione che l’immagine subisca un processo di esaurimento ed espropriazione da parte della parola. L’attenzione al corpo che caratterizza il lavoro di La Rocca tra il 1971 e il 1976, anno della sua morte, non esclude tuttavia l’interesse dell’artista, maturato a contatto con il Gruppo 70, verso la comunicazione mediatica che ritroviamo declinato secondo nuove modalità nelle Riduzioni realizzate dal 1973. In quest’ultima serie, l’artista compone sequenze il cui primo elemento è una fotografia, spesso d’inizio Novecento, o un’affiche cinematografica, mentre i successivi sono costituiti dal contorno dell’immagine iniziale tracciato attraverso scritte a mano, con un progressivo snervamento della fonte di partenza. Nel giustapporre un’icona alla sua “riduzione” grafica, ottenuta prosciugando l’immagine originaria per lasciarne vivo solo il contorno, La Rocca riabilita “in senso autentico perché individuale”[vii] le immagini tipiche dell’epoca della riproducibilità tecnica, attraverso una riappropriazione personale delle foto, espressa tramite la grafia manuale, concepita in antitesi alla standardizzazione visiva prodotta dalla cultura di massa. Anche in questa serie l’attenzione per la condizione femminile è cruciale: opere come Una madre, Vestito da sposa o Un matrimonio, realizzate nel 1974, pongono l’accento sui rituali familiari tradizionali, solennizzati dalla fotografia, e sui ruoli sociali a cui la donna è storicamente chiamata a conformarsi sin dalla prima infanzia. La consapevolezza di esprimersi attraverso il linguaggio dell’uomo risuona nelle riflessioni dell’artista: “Non è tempo per le donne, di dichiarazioni: hanno troppo da fare e poi dovrebbero usare un linguaggio che non è il loro, dentro un linguaggio che è loro estraneo quanto ostile”[viii]. L’estraneità alla cultura dominante, alla ricerca di un linguaggio più autentico e non alienato, è il lascito più profondo del lavoro di La Rocca.