Emanuele Fontanesi: Potresti parlarmi della relazione della tua opera, Sleeping, con Goya?
Klara Kristalova: Quest’opera non è strettamente legata a Goya. È piuttosto una questione di composizione su cui sono intervenuta con piccole modificazioni. Non volevo che il lavoro avesse la stessa forza di quello di Goya, in quella direzione. Certo, volevo che il lavoro fosse forte, ma volevo rompere con la serietà del tema.
EF: E invece Fishmarket. Il mercato…
KK: Sì, qui ho provato a fare un lavoro politico. Ho letto un fumetto di una scrittrice svedese e mi è piaciuto molto. Popolare, politico attraverso l’ironia. Il messaggio era forte e divertente allo stesso tempo. Quel lavoro mi influenzò molto. Fishmarket riguarda l’imprudente consumazione nel suo più profondo e largo significato.
EF: Mi puoi parlare del tuo rapporto con la natura?
KK: Lavoro con la natura perché vivo nei boschi. Per me questa è la cosa più naturale, è la mia normalità. Non penso che ci sia necessariamente qualcosa da guadagnare o da perdere attraverso la relazione con gli animali o la natura, almeno non è quello che intendo comunicare.
EF: Il tuo lavoro sembra avere a che fare con l’esperienza dell’infanzia. È vero? Stai proponendo un punto di vista dell’infanzia per le domande dell’età adulta? Freud ha detto che i ricordi dell’infanzia sono universali. In un certo senso stai cercando di svelare e di dare forma al mondo nel quale viviamo?
KK: Il mio è un mix di memoria e influenze che provengono dalla quotidianità, senza fonti specifiche. Faccio una sorta di mappa di relazioni. Alcune sono relazionate all’infanzia, ma non gli aspetti più importanti, e il mio lavoro è solo in parte autobiografico. Piuttosto mi interessa l’aspetto del crescere, diventare grandi, i cambiamenti che avvengono. Il momento in cui in qualche modo decidi il tuo futuro da adulto ed entri in sintonia con le regole in relazione al tuo sesso. A mio avviso, qualcosa che riguarda le tue specifiche caratteristiche si perde in questo processo. E cerco di dire qualcosa riguardo all’età adulta attraverso dettagli, specifiche situazioni che creo e penso siano universalmente relazionabili con le persone.
EF: Il tuo lavoro appare ambiguo esattamente come ambigua è l’infanzia. A questo riguardo mi fa pensare a Mike Kelley e al suo saggio/mostra sul Perturbante. Mi pare che tu ponga le condizioni necessarie perché il perturbante “esca in superficie” o, a seconda delle definzioni, “per esperirlo”.
KK: Sono stata molto influenzata da Mike Kelley, il suo spirito, la categoria del perturbante anche se non necessariamente collegata a lui. Mi fa piacere questo accostamento a lui perché sono attratta dai suoi lavori fin dagli anni Ottanta. Mike Kelley è tra i miei artisti preferiti.
EF: C’è un dialogo tra realtà interiore e reale, ci sono delle “corrispondenze” anche se terrificanti oppure c’è invece separazione, una nuova consapevolezza del reale che ricorda il bambino che conosce il mondo?
KK: Sì, credo di sì. Penso che quando si è giovani, almeno per quanto mi riguarda, il mondo è pulito e quando cresci diventa molto più complesso. Ti rendi conto che il mondo non è quello che pensavi fosse e io cerco di tradurre qusto sentimento attraverso dei dettagli.
EF: Pensi che lo spettatore si perda o trovi il suo cammino attraverso il tuo lavoro?
KK: Spero entrambe le cose. Non dò risposte. Pongo interrogativi e spero che la gente si ponga domande a sua volta.
EF: Certo, penso che sia importante per te far sì che le persone siano in ogni caso consapevoli, che reagiscano con domande e con risposte che trovano in loro stessi. Il tuo lavoro è una maniera di superare le tue paure personali? O è piuttosto un’esperienza catartica che supera le paure della comunità?
KK: Ho paura di tante cose, ma non uso il mio lavoro per superarle. Non credo di usare il mio lavoro per comunicare le mie paure, talvolta ne dò una forma metaforica, per capirle, in qualche maniera.
EF: C’è più umorismo.
KK: Certamente. Questo aspetto riguarda la maniera in cui sono cresciuta. Nella mia famiglia l’arte era estremamente importante. Mio padre era un modernista e l’arte era fondamentale per lui. Per me è molto importante, ma deve restare ambigua e giocosa.
EF: Modernista tuo padre, quanto potremmo definire te postmodernista.
KK: Certo, mi ritrovo in quella categoria. Penso inoltre che l’arte sia per tutti e che sia un peccato che una galleria sia un luogo meno accessibile rispetto a un fumetto, ed è per questo che provo a prender parte a progetti accessibili a molte persone. L’arte è un linguaggio universale e va usato in quanto tale.
EF: Mi pare che tu riduca storie a strutture metonimiche e, allo stesso tempo, lo spettatore e le sculture creino una nuova narrativa più grande del lavoro stesso.
KK: Questo è esattamente quello che faccio. Voglio che le mie sculture siano vive e interagiscano. Ho un’idea, faccio il mio lavoro ma le mie sculture continuano a vivere attraverso l’interazione con lo spettatore. Vorrei che le persone si avvicinassero e esperissero il mio lavoro in qualunque maniera. Sono interessata all’interazione. Ogni opera è posta in relazione con le altre all’interno dell’esposizione. E alcune di queste sono in qualche maniera riluttanti rispetto al sistema dell’arte. Vorrei che mantenessero una certa distanza da esso. Infine, il mio lavoro non può essere troppo bello perché a quel punto sarebbe in qualche modo digustoso.
EF: Da un punto di vista etico, giusto? Forse anche per evitare che venga considerato decorativo.
KK: Certo, bisogna mantenere il giusto equilibrio tra bellezza e repulsione. Quando si usa la ceramica, è molto facile cadere nella categoria del decorativo. È una trappola a volte.
EF: Alcuni tuoi lavori mi ricordano il modo in cui Cattelan usa gli animali, che si comportano come umani. C’è qualcosa di divertente in questo e, naturalmente, di ambiguo.
KK: Gli animali sono molto importanti, vivo tra gli animali. Penso che si possa comunicare piuttosto facilmente con gli animali e questo mi interessa perché lo trovo strano. Inoltre è la mia dimensione naturale perché vivo tra gli animali e in ultima istanza nel corso della storia gli animali sono stati spesso usati come simboli. Per esempio l’asino in Dull and Stupid/Anonymous guest.
EF: Proprio l’asino mi ha fatto pensare a Cattelan.
KK: Certo, ma Cattelan è molto più smart nel suo fare artistico. Per quanto mi riguarda, spesso parto da una situazione che ho vissuto.
EF: Per quanto riguarda l’influenza del Surrealismo nell’associare oggetti e figure antropomorfiche, fai più riferimento a Max Ernst, oppure a Gorky o Matta che ritrovo nella tua idea di ridurre le figure al minimo?
KK: Penso di essere stata molto influenzata dal Surrealismo, però direi che uso la storia dell’arte senza realmente far caso di cosa mi servo. Diciamo che lavoro all’interno della storia dell’arte. Sono attratta dalle opere surrealiste, non dal loro meccanismo di creazione. Quindi non è esattalmente “un grattare la coscienza à la Marx Ernst” sebbene apprezzi molto il lavoro di Ernst. Mi piace molto Meret Oppenheim.
EF: Le tue teste mi fanno pensare a quelle di Bacon. Manola Antonioli in Géophilosophie de Deleuze et Guattari scrive:“la testa dipende dal corpo e il corpo rappresenta lo spirito animale (…); il lavoro di Bacon dà vita a una zona indistinguibile tra l’uomo e l’animale. Possiamo mettere in relazione questo pensiero con il tuo lavoro?
KK: Sono stata molto influenzata da Bacon. Ho fatto le mie versioni di alcune sue opere. Non ho letto il libro di Deleuze, nonostante lo abbia nella mia libreria. Penso che la testa simbolizzi la persona, tutte le emozioni, l’intelletto. Direi che l’affermazione “il corpo rappresenta lo spirito animale” suona un po’ come un cliché e allo stesso tempo è interessante. Devo pensarci.