Arrivo 30 minuti in ritardo. È uno di quei giorni in cui esci di casa in tempo e arrivi tardi (credetemi, non sto mentendo questa volta!).
Arrivo al Sofitel e Atom e Kutlug si sono già incontrati e hanno cominciato senza di me. Kutlug è a Londra per presentare il suo ultimo film, 2 Girls, al London International Film Festival. Atom è in città per lo stesso motivo, la prima del suo False Verità (Where the Truth Lies). L’intervista è stata decisa piuttosto rapidamente. Incontro Kutlug la sera prima. Gli dico che vorrei intervistarlo e che ho in mente Atom Egoyan come mediatore. Kutlug mi sembra entusiasta e mi porta con lui al party di chiusura del Festival. Entro e avvicino Atom in modo brusco. Non lo conosco affatto. Gli mostro la rivista, pronuncio il nome di Kutlug e, con mia immensa sorpresa, conosce entrambi… quindi fisso un appuntamento per la mattina seguente; è da qui che comincia tutto…
Gea Politi: Ciao, scusate il ritardo. Arrivo dal nord di Londra e ho con me questa grande videocamera e avevo il terrore che qualcuno me la rubasse!
Atom Egoyan: Non ti preoccupare, ora calmati.
Kutlug Ataman: Andiamo nella sala del tè?
GP: Come preferite. A proposito, è Atom o Aton? Perché a volte è scritto con la “m” e altre con la “n”.
AE: È un errore.
KA: È con la “m”… me lo sono sempre chiesto, viene da “atomo”?
AE: Ha un’origine molto strana. I miei genitori mi hanno chiamato così per l’età atomica, invece in Armenia esiste il nome “Adom”. Nella parte orientale pronunciano la “d” come se fosse una “t”, quindi molti credono si tratti di un antico nome armeno.
KA: È divertente, il mio primo nome è Elvent e in Turchia tutti pensano che io sbagli la pronuncia del mio nome perché pensano che sia Levent, che significa “pescatore”.
AE: Il tuo cognome assomiglia al mio nome…
KA: Il mio cognome è bello. Sembra straniero ma la gente lo ricorda! Anch’io lo ricordo! [ride]
AE: Se non fosse così avresti dei problemi! (Ridiamo tutti e ci sediamo. La vera intervista comincia)
KA: Come ti stavo dicendo prima che Gea arrivasse, questa giornalista che mi stava intervistando a un certo punto mi dice: “Abbiamo questo fax da mostrarle, sarebbe meglio che lo guardasse”… era una minaccia di morte! [ride]
AE: Con Ararat ho ricevuto molte minacce, di cui la maggior parte arrivavano da militari, probabilmente da qualche generale. Ovviamente c’era qualcuno che organizzava tutto.
KA: Sto cercando di fare un film a Cipro, anche quello è un territorio difficile. Ci sono così tante paranoie e voci che girano.
AE: Sì, è uno stato mentale in cui puoi piombare, oppure no. Quando Ararat era all’apice della popolarità, durante la prima a Cannes, ho visto questi omaccioni della sicurezza attorno a me e ho subito capito perchè. Mi sentivo più paranoico di loro e ho pensato: “Scordatelo, è folle!”
KA: Sfortunatamente diventa anche parte delle tue pubbliche relazioni. Ho citato questo episodio della minaccia di morte al mio distributore inglese e ora anche negli Stati Uniti mi fanno domande su questo argomento. Ieri parlavo in radio alla BBC e commentavano: “Quindi ricevi minacce di morte in Turchia, eh?” Ma ne ho ricevuta sola una, dieci anni fa. Diventa come un marchio che non vuoi portarti dietro per sempre, del tipo “Kutlug Ataman è l’artista controverso che riceve minacce di morte!”.
AE: Sì, anch’io sono abbastanza stanco. Con questo nuovo film, False Verità, abbiamo avuto grossi problemi di censura negli Stati Uniti che mi hanno tenuto impegnato per tutta l’estate. Adesso sono arrivato a Londra ma, proprio quando credi che questa storia sia finalmente conclusa, rieccola! Perché è qualcosa di cui parlare, è un pretesto. L’aspetto più interessante di un lavoro come Küba è il fatto di cercare un unico elemento di identificazione che poi ritroverai nell’installazione. È come se avessi realizzato una scultura.
KA: Sai, penso che i miei lavori siano più simili a dei testimoni piuttosto che a delle idee.
AE: Conosci l’Atlas Group? Io trovo il loro lavoro veramente interessante. Quando sono tornato con mia moglie in Libano, da dove lei era scappata durante la guerra civile, ho notato un incredibile senso di trauma che la gente aveva opportunamente deciso di rimuovere perché troppo doloroso e recente. Una buona parte del loro lavoro conferma questi eventi di pura finzione, di conseguenza il conflitto tra il “fare arte” e la realtà diventa estremamente provocatorio.
KA: Ma non penetra a fondo nella società come qui, in Inghilterra o in Canada. Sfortunatamente, nella nostra regione l’arte è ancora una pratica estremamente solitaria.
AE: Ma rappresenta più che una provocazione. Nell’est, un lavoro di questo tipo è più apprezzato, considerato più esclusivo ed è anche fin troppo compreso. Quel che è più interessante è che, quando questi lavori sono accolti da un ambiente in cui la gente non è preparata, provocano un effetto più profondo, perché creano rabbia.
KA: Non conosco così bene la situazione in Libano, ma presumo che la gente comune non vada alle mostre.
AE: C’è una comunità di artisti che lavora lì.
KA: Quindi è una limitata elite [Atom annuisce], come in Turchia.
AE: Ma voi avete una Biennale [Biennale di Istanbul] almeno.
KA: Sì, ma anche la Biennale è solo per i borghesi e per gli studenti. Non raggiunge un pubblico generico o la gente comune, in modo da scatenare delle provocazioni.
AE: Ma almeno tu hai avuto un riscontro su Küba attraverso Internet e i giornali, in questo modo il lavoro ha una diffusione in tutto il Paese. Potresti definirla un’estensione del lavoro?
KA: No, quello è stato controproducente. Hanno commentato il lavoro senza vederlo, riportando affermazioni che non ho mai pronunciato. C’era una mostra sui Turchi [“Turks”] alla Royal Academy di Londra che si svolgeva in contemporanea alla presentazione di Küba, una di quelle tipiche mostre sponsorizzate dal governo, dove trovi anche le mutande del Sultano [ride], ricami, alcuni dipinti, manufatti, qualsiasi altra cosa — tutto contribuiva a dare un gusto un po’ retrò, cercando allo stesso tempo di essere glamour.
AE: Quindi Küba è stato visto come una macchia dalla stampa, immagino…
KA: Sì, dato che Küba era stato presentato in contemporanea alla mostra sui Turchi, la stampa turca era molto disturbata e dicevano cose del tipo: “Kutlug fa una mostra sui Curdi contro quella dei Turchi”, che io non avrei mai detto perché non baso il mio lavoro sul nazionalismo, anzi non lo riguarda affatto.
Il mio lavoro mostra come è fatta l’identità, quindi tutti i miei protagonisti sono fasulli, perché sono ricostruiti in fase di editing.
AE: Ma perché non credi che la reazione dei media sia un’estensione del tuo lavoro e quindi anch’essa una falsificazione?
KA: Oh, questo è già parte della vita….
AE: Ti faccio un esempio con Hors d’usage, il lavoro che stavo realizzando a Montréal. Penso che l’installazione sia nata con la conferenza stampa, quando abbiamo annunciato il progetto e invitato il pubblico a trovare queste macchine, dei registratori di audio cassette a bobina. In questo modo usavamo la nuova tecnologia della rete per recuperare la vecchia e, allo stesso modo, fornendo queste immagini mediate, crei anche una sorta di finzione attorno a quello che la mostra intende come interfaccia con il presente. Anche se penso che sia fuori dal tuo controllo, è un’estensione del tuo lavoro. Quanto è lungo in totale Küba?
KA: L’intera lunghezza è di ventotto ore, divise in quaranta episodi, così non puoi sederti e rischiare di vederlo tutto…è la storia di un’isola che ognuno esplora seguendo la propria bussola. Quindi nessuno può avere la stessa fruizione di Küba, e per me è importante, poiché volevo sottolineare che il genere “documentario”, come viene definito generalmente, non esiste. Tutto questo mi ha aperto nuove strade, mi ha dato la possibilità di commentare la realtà e le differenze tra le diverse etnie, Armeno, Turco, Italiano, ecc. Come ci presentiamo su basi così individualiste? L’identità rappresenta sempre l’interpretazione di un ruolo? O è qualcos’altro? Ho trovato molte similitudini con la fiction. Da dove viene la fiction? E perché esiste?
AE: Infatti, e ciò include anche la questione del movimento lontano dallo schermo. Ho capito che una delle ragioni per le quali sono così attratto dall’installazione deriva da una specie di frustrazione, provocata dall’idea monolitica di proiezione. Quell’editing “fisico” di cui parlavi è molto interessante perché l’osservatore è fisicamente disorientato, mentre, fisicamente, prende delle decisioni. In un film puoi creare delle zone in cui l’osservatore può usare se stesso, la sua evoluzione e immaginazione ma, alla fine, quando vedi un’immagine proiettata, non importa quanto tu sia curioso, c’è sempre molta passività.
GP: Senti la necessità di diventare fisico con l’arte?
AE: Penso che uno degli aspetti più catartici del fatto di lavorare con delle gallerie d’arte sia quello di giocare con la fisicità appunto. Come in Turbulent di Shirin Neshat. Sei in una stanza, due schermi mostrano delle cose che accadono e tu non puoi afferrarle tutte allo stesso tempo. In mezzo ai due schermi applichi già una sorta di editing, attraverso la tua presenza fisica. Due osservatori diversi non percepiranno mai la stessa proiezione come accadrebbe invece nel caso di un film. Vorrei che esistesse un modo per riuscire a sviluppare queste idee. Per questo motivo sono felice per quanto è avvenuto con la stampa turca dopo l’opening di Küba.
KA: [Ride] Finché sei lontano da tutto questo e non devi affrontarlo di persona…
AE: Ma penso anche ad Ararat. Ararat è un film. Le persone, soprattutto i Turchi, si sono fatti un’idea del film senza neanche averlo guardato e, se lo avessero fatto, si sarebbero infuriati.
KA: Esattamente.
AE: Uno dei momenti più critici per me è stato quando Ararat è stato acquistato dalla distribuzione senza essere stato ancora autorizzato, perché l’ala nazionalista minacciava di bombardare il cinema. Hanno reagito violentemente contro il distributore e il film è diventato un’installazione. C’era questa terribile, epica opera storica con l’aggiunta dell’installazione, che includeva anche scene di quanto avvenuto durante la prima del film, fatti svoltisi al di fuori di esso.
KA: Guarda il mio caso, adesso le pressioni nei miei confronti mi costringono a essere commerciale. Sono disposto a fare film più commerciali ora perché altrimenti non esisterei nemmeno in Turchia!
AE: C’è un conflitto interessante tra l’idea occidentale di retribuzione, attenzione e distribuzione, e quella non occidentale, che si basa su un’esigenza più autentica del concetto di accessibilità. Diamo l’accessibilità per garantita; siamo viziati e vogliamo qualcosa di sostanziale.
KA: È spaventoso, ma noi esistiamo anche grazie alle nostre storie, e se le tue non venissero raccontate e preservate, allora non esisteresti. C’è una versione ufficiale, certo, ma la tua storia orale, la tua mitologia, è troppo importante: con essa esisti o non esisti.
AE: Dunque la questione è che qualcuno ascolta quella storia e pensa che valga la pena. Nel tuo lavoro cedi l’azione della narrazione a un supporto tecnologico. Voglio dire che la tua macchina da presa fa questo lavoro per te. Il tuo compito consiste nel sistemare la macchina e trasferirla su uno schermo o un televisore. Puoi anche passare questa responsabilità all’osservatore; tu stesso non ti stai impegnando in una storia particolare.
KA: È sempre un passaggio che salto. Il mio lavoro accentua l’intero problema piuttosto che fare un film su una cantante d’opera o su delle donne che indossano delle parrucche. Non accade per il suo valore di facciata. Gli individui che vivono a Küba sono molto importanti, ma il mio interesse principale non è mai stato Küba. Era una sperimentazione. Finora avevo lavorato con individui che si creavano delle identità e avevo filmato quel processo: come creano questo ruolo? Come trasformano loro stessi in stelle ed eroi? Come funziona questo processo? Mi interessa il modo in cui parlano, come lo costruiscono.
AE: Sei deluso degli aspetti del filmmaking?
KA: Non sono deluso ma è veramente difficile. La ragione per la quale faccio arte è che, per le mie storie, devo fare i film in Turco. Ho vissuto a Los Angeles per quindici anni, ma, nonostante tutto, pensavo sempre in Turco, non sono stato mai capace di pensare storie occidentali. Sono andato a LA quando avevo diciotto anni, ma non è mai diventata parte di me. Era già troppo tardi per andare in America.
Tutti i miei film hanno i sottotitoli, il che significa che sei a un livello completamente diverso ed è veramente difficile: devi ottenere la sponsorizzazione dello Stato, il che significa che devi trattare con il Governo. Un esempio è questo film che sto cercando di realizzare a Cipro: da un semplice rifiuto alla richiesta di un finanziamento sono arrivati a bloccare la produzione. Chiaramente ero deluso ma certo amo anche pensare che una volta che fai un film, esisterà per i prossimi cento anni. La ragione per la quale sono entrato nel mondo dell’arte è che esso mi appariva molto più immediato e io stavo producendo molto velocemente, e poi mi sentivo più libero. Pian piano anche il mondo dell’arte mi ha deluso. Sto scoprendo che anche nell’arte contemporanea esiste la stessa divisone tra cinema commerciale e le case di produzione indipendenti, ad esempio. C’è un sistema commerciale e qualche volta ti dicono: “ I tuoi lavori sono in Turco, non pensi che potresti farli in Inglese la prossima volta?
AE: Dici sul serio? Dalla mia prospettiva io ti vedo come una star! Non lo sei?
KA: Devi ancora arrivare ai soldi, come diciamo in Turco: “colui che paga ottiene la parte!”
AE: Sì, è interessante, perché alcune persone sono rimaste sorprese dal mio ultimo film, non sembra uno dei miei film!
KA: Intendi un film firmato “Atom Egoyan”?
AE: Ma mi è piaciuto molto farlo, è stato così divertente!
KA: Non l’ho visto, è una commedia?
AE: Non è come una commedia, ma è molto sinistro! È un film a forti tinte, lo vedrai. Sei presente qui al Festival?
KA: Sì, presento il mio film girato in Turchia. È intitolato 2 Girls.
AE: È un film nuovo?
KA: Sì, abbiamo ottenuto un ottimo risultato. È come se fosse la prima storia adolescenziale in Turchia, ed è il primo film in cui inscenano un pompino, questa è una grande rivoluzione!
GP: Penso che questo sia sufficiente ragazzi…
KA: Sei sicura che il tuo registratore funzionava? C’era un sacco di rumore intorno a noi…
GP: Non so, non so niente.
(Kutlug corre via per prendere il suo volo di ritorno in Turchia, Atom si alza e io lo seguo).
Io resto come Socrate. Il suo metodo lo ha illuminato del seguente paradosso: meno sappiamo, più siamo sicuri e precisi nelle nostre spiegazioni; più sappiamo, più ci accorgiamo delle limitazioni dell’essere sicuri e precisi. Per questo io non so. Non so niente.