Questo testo è stato pubblicato su Flash Art n. 114, giugno 1983
Il mondo romano tra tedeschi e americani, tra fascisti e uomini della Resistenza, artisti in crisi artistica e politica, fame e paura, coraggio e speranza, opere e idee, errori di prospettiva, ultime ufficialità e prime clandestinità, prigioni idealistiche e libertà di partiti e, soprattutto, lo sguardo tra truce e benigno della Città Eterna, che continua con le sue mostre, che apre nuove gallerie, che accende iniziative, nomi di giovanissimi che diventeranno famosi, famosi inghiottiti nella catastrofe, maestri contestati e non, mi ebbero testimone come “viaggiatore in casa” nel 1940-45, in un diario che intitolai Interviste di frodo. Non è una storia, è una cronaca; ma ci sono tutti, che parlano e sperano, che si contraddicono fino a farsi rochi. E a distanza di quasi quarant’anni, il “documento” dice quasi senza mio merito — il merito fu, se mai, nell’umiltà e nella fedeltà degli appunti — il clima di quel momento. Mafai e Guttuso si può dire che si spartissero gli onori di capi gruppo, segnavano una maniera differente di collocarsi e operare di fronte al crollo del fascismo. Erano anche diversissimi nella pianta umana: Mafai lavorava in una sorta di clandestina e forsennata ispirazione, la sua ufficialità recitava da osteria a passeggiata, da litigio a beffa, nello spazio di un quartiere, i suoi discorsi chiedevano sempre venia o confronto alla pittura, era ombrosetto, amico del tutto, mai; Guttuso era un uomo di gran lavoro, dall’attenzione e dall’umanità prepotenti, uno dei primi che io abbia conosciuto sotto il 1940 che ragionasse sull’arte, riflettendo nelle parole, illuminatamente, i suoi pensieri di pittura. L’aveva imparato, diceva, da Cagli, ma Cagli quando parlava non la finiva più, e noi arrivavamo fuori dell’orto, che alla fine non si sapeva (almeno io non ci sono riuscito) tornare indietro a collocare il prodotto coltivato. Magro, dal colore olivastro, scuro, la voce profonda e armoniosa, dal tono palermitano, come venisse dal sole su un paesaggio, improvvisamente allegro, canterino, spiritoso. Mi è difficile, per lui e per qualunque altra persona degli anni Quaranta, togliere da quelle immagini primarie tutto il poi, anche bellissimo, che è sopravvenuto. Nello sforzo, si corre il rischio di restar romantico, appiattito dalla nostalgia. E forse è meglio abbandonarmi al flusso dei ricordi. D’altra parte a Roma erano tanti altri, Melli per esempio, che aveva sempre condotto un discorso anti-novecentista; Gino Severini (col quale ci vedemmo la prima volta a Porta Pia senza conoscerci, ci eravamo dati un appuntamento telefonico e quando mi presentai lui mi domandò perché mio padre, cioè io, non era venuto; e io risposi che rispondevo in proprio della mia critica d’arte), amareggiato di essere venuto via da Parigi nel miraggio dell’affresco e del mosaico e ansioso di ritornare nella sua seconda patria, dove i pittori non erano “chiusi in tanti gusci di lumaca”; e De Chirico, che fin da allora sparava a zero contro tutto e tutti e che io, appunto, intervistai “di frodo”, fingendomi suo incondizionato ammiratore; e c’era Léonor Fini, in quella immensa soffitta del Palazzo del Drago che fu poi di Carlo Levi, addirittura terrorizzata dai romani, che stavano subendo, a suo giudizio, una epidemia fauve, e che parlava di “ismi” senza dubbio con maggiore cognizione di causa di noi “provinciali”, la maggior parte dei quali “aveva visto Picasso soltanto riprodotto in cartolina”.
Ma le cose dell’arte non erano a Roma poi così deficitarie. Se la “scuola romana” sempre appariva come un gruppo eterogeneo di antimafaiani (che avevano subìto il fascino del ciociaro e volevano andare oltre, un po’ come successe con i Sei, che operarono il rigetto casoratiano — però le due reazioni sono diverse, Mafai infatti è già fuori dal Novecento), da Montanarini a Pirandello, da Ziveri a Savelli, da Stradone a Mazzullo, a Franchina, a Cannilla, per tacer di Fazzini che aveva sempre operato per conto suo (e che riceveva nel suo studio al 51/A di via Margutta, sempre aperto anche quando lavorava, visitatori di ogni istanza, generazione, povertà, talento), già cominciavano giovani controcorrente, che prendevano le mosse, chi dall’avanguardia, chi dal vero. E quanta coscienza e consapevolezza dei tempi che maturavano nei discorsi che registrai di Pirandello, di Guttuso, il quale per otto mesi non riuscì a dipingere, di Capogrossi (che allora era di qua del fosso, con le sue donnine e i suoi arlecchini), di Mirko, di Montanarini, di Tamburi. Come si poteva avvertire che sarebbe avvenuto qualche cosa di valido e di nuovo a capovolgere il tran tran romano! Il clima dei gruppi anti-novecentisti, che avevano attinto dalla vita popolare e dal museo di avanguardia le loro ragioni operative, si era allargato e già si parlava in chiave di quello che fu a Venezia, pochi anni dopo, il Fronte Nuovo delle Arti. C’era speranza e solidarietà tra gli artisti e letterati, critici e galleristi. L’ambiente della Galleria Lo Zodiaco di Linda Chittaro, dove era passata tutta la pittura italiana (venduta a poche migliaia di lire al pezzo e ora introvabile addirittura sul mercato, a prezzi comunque da antiquariato), quello de La Margherita, di Valli, Gaspero del Corso, Irene Brin, prima che diventasse, da via Bisollati a via Sistina, L’Obelisco (Dorazio, allora giovanissimo, in formazione, mi disegnò delle vignette spiritosissime, che pubblicai insieme con le mie corrispondenze romane in un giornale del nord, tra cui quella del salumaio adiacente al tempio dell’arte di Irene). Anche qui passarono tutti, subito dopo la Liberazione, e cominciarono le grandi mostre di artisti stranieri, lo scambio tra l’Italia e l’America, con una circolazione culturale e di mercato, di cui la galleria segna una delle massime benemerenze italiane. E la Galleria d’Arte Palma di Pier Maria Bardi, la prima su basi di impresa in grande, e la Galleria del Secolo, in via Veneto, dove espose anche Matta i suoi quadri spazialisti che nessuno comprava… Ah, il momento di trapasso dalla Roma del coprifuoco a quella degli americani, il fatto meraviglioso che pittura e discussioni, progetti e incontri continuassero al buio e poi fossero aperti, illuminanti, nella guerra finalmente persa, facendoci tutti nuovi e migliori, almeno per un poco! Zavattini già dipingeva persuaso dall’insonnia, Cagli era ancora in America (mi ricordo che con Mirko andammo a disseppellire le sue opere lasciate, quando dovette partire a seguito delle persecuzioni razziali, nel suo studio bombardato) e Sandro Penna come molti altri scrittori e poeti, da Cecchi a Ungaretti a Cardarelli a Bontempelli e la Masino, molto più vicini agli artisti di quanto non furono poi, vendeva zucchero, libri francesi su Marx e la prima edizione numerata dell’Oboe sommerso di Quasimodo. Omiccioli aveva scoperto gli “orti” in quei terreni della via Flaminia sotto il Pincio e viveva il clima dei barboni che fu poi quello di Ladri di biciclette e del sottoproletariato dei romanzi di Pasolini. Forse la semplicità dei rapporti tra critici e artisti, la riconoscibilità immediata degli appartenenti alla nostra tribù, nacquero da una felice emergenza: forse eravamo in pochi in uno spazio più grande o divenuto tale, tutto insieme. Soltanto un anno prima, quasi, il Palazzo di Pio Piacentini in via Nazionale, sede della Quadriennale, era stato aperto alla grande e ultima rassegna nazionale d’arte del regime. Vi avevano serpeggiato, come a un funerale, cortei di gerarchi per l’inaugurazione e ora, con pareti divisorie sventrate, basamenti, casse da imballaggio e intere sale ancora da smobilitare, era sede di riunioni clandestine, di incontri per la Libera Associazione di Arti Figurative, di cui fu fatto presidente Gino Severini e segretario Toti Scialoja.
Anni remoti, patetici, dove la gran maggioranza degli artisti romani “figurava”. Se mi avessero chiesto una profezia nel 1940 su come l’arte italiana si sarebbe mossa, credo proprio che sarei stato un pessimo indovino, perché allora le “premesse” erano quelle di un futuro segnatamente rispettoso della figurazione. Interrogati a decine i pittori, nel momento della Resistenza, erano tutti animati dal proposito di dire la nostra tragedia senza mezzi termini e carambole di avanguardia, per ritrovare la misura umana perduta. Il Novecento, sia come fenomeno conservatore contro le punte estreme delle tendenze fiorite nei due decenni del nostro secolo, sia come palestra figurale, aveva allungato la sua ombra anche dopo la Liberazione. Il fenomeno del neorealismo in pittura sta a dimostrarlo. Per diversi anni, dopo la fine della guerra, più a Roma che al nord, lo spirito di aggiornamento non alitò come una dolce brezza: l’astrattismo, il mostro intruso, l’inammissibile, fu di volta in volta accettato a prezzo di grande umiltà e tenacia, specie da quegli artisti che già avevano ottenuto successo e si erano radicati in moduli figurali prima della guerra, da Capogrossi a Mafai a Pirandello, da Montanarini a Rolando Monti, da Cannilla a Vittorio Parisi. In taluni il trapasso fu più lento, collaudato da una situazione ormai accettata, da Cagli a Consagra a Corpora (questi ultimi due erano nati figurativi, infatti, ma furono tra i primi a cambiar pelle e con prestigio).
A Roma e in Italia la situazione del gusto, sia nel pubblico che nella critica dei quotidiani, era anti-astratta, i pittori del non figurativo erano una esigua minoranza; e benché avessimo avuto il precedente degli astrattisti del 1930 e a Roma un maestro della statura di Trampolini — senza contare Balla e Severini del periodo futurista, i Ferrazzi e i Melli della Secessione romana, i futuristi della “seconda ondata” — il senso di un gusto “europeo” era estraneo ai più. Se mai, l’ho detto, una battaglia era incominciata in altra chiave, prima della guerra e durante, contro i “fiori secchi” di Mafai. Giovani studiosi come Peirce, Maltese (che per anni fu critico d’arte de L’Unità, tra i primi a tentare di conciliare l’imperativo comunista nostrano col marxismo e a voler vedere un’idea rivoluzionaria non nell’illustrazione della lotta, ma nella novità dell’espressione), Ercole Maselli, squisito quanto testardo circa l’inammissibilità dell’astratto, Cesare Brandi, che pure aveva scritto i più bei saggi in assoluto su Morandi, era convinto della “fine dell’avanguardia” (il suo libro è del 1950), optavano decisamente per una pittura in cui l’uomo e il suo destino fossero riconoscibilmente al centro del quadro o sul basamento. Quindi il difficile e impopolare trapasso dai modi della tradizione a quelli degli ultimi “ismi” fu merito di pochissimi anziani e dei più giovani artisti italiani e romani, a cominciare da quelli del Gruppo Forma. In loro non operava la psicologia del tradimento e la visione della realtà artistica era naturalmente quella della grande maniera fiorita con la Scuola di Parigi e oltre. Era in loro una convinzione serena e pugnace, che aveva trovato il suo massimo sostenitore in Lionello Venturi, tornato in Italia dopo le persecuzioni fasciste dall’esilio con grande esperienza e prestigio. La cattedra di Storia dell’Arte all’Università di Roma saldò il mondo dell’arte a quello accademico, cominciò una scienza nella materia della critica d’arte. Abbiamo tutti imparato da Lionello Venturi, i cui scritti restano il più valido modello di chiarezza per quanti sono agitati da un endemico formulismo. Non è stata ancora scritta la storia delle confusioni e dei contrasti dei vari raggruppamenti di artisti a Roma, ora mossi da uno spirito quasi di corporazione come fu nel 1945 l’Art Club (presieduto da Jarema, un polacco che parlava italiano come il nostro attuale Papa e come il nostro Papa era assai disponibile, “universale”, esprimendo spesso lo stupore che vi fosse grande discordia e incomprensione tra pittori e scultori che vivevano magari nella stessa via), ora in una sofferta “filosofia”, come al momento della dichiarazione programmatica, nel 1946, del Fronte Nuovo delle Arti, di ampiezza nazionale, ma con grosso contributo “romano” da parte specialmente di Guttuso, Levi, Leoncillo, Turcato. Si trattava di confidare in un’idea dialettica delle forme e di vedere la sintesi di queste in una prospettiva di lavoro e di risultati per il futuro; non un compromesso, ma la fiducia in una sorta di pluralismo artistico, sempre che gli addetti ai lavori avessero coscienza dello spirito “rivoluzionario”. Ma anche questa formula, come si vede, meno rigida e permissiva di quella del Gruppo Forma, fu colta in contropiede, com’è ormai arcinoto, dalla scomunica degli artisti astratti comunisti su Rinascita. Il gergo del commento, seguito da una serie di firme di calibri importanti del PCI, era quello piccolo borghese della Roma ancorata a Spadini. Eravamo nel 1948 e posso dire che da quella data fino almeno al 1965 il fronte marxista delle arti, controllato dall’ufficio culturale, fu improntato in sostanza a tale scomunica, tutti gli amici degli astrattisti tenuti in sospetto e osteggiati, se, a qualunque titolo, fossero all’interno del “sistema”. È nota la fatale mia equidistanza: non certo per spirito formale di democrazia, ma perché effettivamente nei due fronti operavano artisti di talento, anche se di opinioni opposte. Uno spirito controriformista (come ebbe a lamentare giustamente Capogrossi quando fu stroncato come astratto) aleggiava in quelle menti: furono tratte fuori teorie incredibili, quali quella che gli impressionisti sarebbero stati l’ultima proiezione di un disfacimento borghese, rispecchiato poi come un teorema nelle Avanguardie, che il Realismo era la spina dorsale dell’arte e che da Delacroix, Géricault, Courbet, Daumier doveva nascere la nuova pittura italiana e romana, facendo tabula rasa dei formalismi, delle “morbosità” di quell’esperanto internazionalista. Ma nel fronte della realtà (chiamiamola così, ormai in queste astrazioni di parole non v’è più provocazione), chi c’era, come si operava?
L’arte quale edificazione, ubbidiente a una committenza che va dal ricco olandese del Seicento al francese del Terzo Impero, aveva già subìto un colpo mortale con le Avanguardie, poi catturate dal mercato internazionale, anche prima della guerra. Sicché l’antigrazioso (per usare un termine caro ai futuristi, dissacratori di ogni compiacimento sul bello dei salotti) era presto diventato dopo la Liberazione oggetto ambitissimo di collezione per americani in Europa, italiani ex poveri, neorealisti ante litteram privilegianti l’amaro souvenir; tutte le infelicità del mondo, i più aspri giudizi che avevano espresso dada ed espressionisti, fauves e surrealisti (o chi per essi) furono acquistati a caro prezzo e appesi al muro in cornice. Il “brutto” sparì in quella sanatoria dello stile (quasi come oggi nel ludico disimpegnato, la “bella pittura”) in quel panico, che ci prende ancora, davanti a Otto Dix, o al Vespignani di Portonaccio. Eccone uno del fronte della realtà, di cui, chi parla della Roma degli anni Quaranta, non può proprio fare a meno. Il pittore e grafico romano, insieme con Porzano e Caruso, costituì, qualche anno dopo a Roma, una delle punte di diamante del giudizio sulla società italiana, apprezzate da una élite, loro stessi controcorrente nei confronti di certi “ismi” che andavano codificandosi. Questi pittori (Vespignani e compagni) attinsero più che ogni altro ai modi del Neorealismo nel cinema, anzi furono l’aspetto grafico di quelle immagini e si distanziarono subito dai neorealisti in pittura, perché l’imperativo politico, che pure fu anche in loro prepotente (Vespignani perse deliberatamente tutto il suo mercato nordamericano, un vero boom dopo i successi strepitosi a L’Obelisco e presso il collezionismo statunitense, proprio per un atto di fedeltà operativa col PCI, per cui si dette a fare centinaia di giornali murali e illustrazioni politiche a tempo pieno) non riuscì a schiantarli o a renderli abbastanza somiglianti — sia pure con altra partenza di cultura — ai pompier del Realismo socialista. Questi grafici ebbero a Roma la loro patria e la loro rabbia. È difficile estrapolarli dal contesto dell’Urbe, intanto per quanto riguarda i precedenti del segno a cui si rifacevano: un segno che vedeva le cose per quelle che sono, o meglio, teneva conto della loro somiglianza, pur calando dentro le pagine d’album tutto lo stupore di essere a quel modo: Mafai, Scipione, Pirandello, l’espressionismo di un Melli o di un Ferrazzi della Secessione romana, le ultime babeliche Quadriennali, dove si rimescolava il Novecento con il proposito di fare una realtà a misura d’uomo, umanizzare il mito, appiedare dai basamenti e dalle facciate littorie le minerve e le glorie, distenderle su lettucci rossi, magari nude di schiena come teneramente faceva Mafai; o dire, anziché dei fasti urbanistici di via dell’Impero, nelle Demolizioni di case secolari ancor frementi di quotidiano nelle pareti e mura bucate, nelle finestre e scale ormai ruderali, i sospiri più tristi della pittura italiana sotto il fascismo, dopo quelli di Giorgio Morandi. Di età quasi uguale (1924, 1925, 1927), di uguale curiosità e mordente, come privati accusatori della più grave scelleratezza che è quella che resta impunita, divennero subito autorevoli, per la pregnanza del documento nel segno e viceversa: non si sapeva che cosa più ammirare, se il messaggio o il suo modo; ma certamente era il modo del messaggio che ci stringeva alla gola, quando vedevamo le case bombardate di San Lorenzo o i barboni o le prostitute di Vespignani, le fioccute e ingiarrettierate “mignotte” di scarico, fra trine e carni di scavo, ikebana di immondizia, le sorelle maggiori di tutte le colleghe di Cabiria, anche se poi Fellini fu, di queste e di Roma, la più felice, inconfondibile iperbole. Renzo, quel giovane dal viso bello, la parlata gentile e precisa di un romano del ceto medio, di una bontà inestirpabile, solo mitigata dalla ritrosia, fu il primo dei tre sulla ribalta e io, più grandicello di lui, ebbi modo di seguirlo in molte delle sue tappe, accolsi nel mio libro i suoi primi disegni, diagnosticai, direi quasi giorno per giorno, il drammatico mutamento della Capitale. Roma si stava dilatando e trasformando a vista d’occhio, da “borgo” come era sempre stata, a babelica metropoli. Assicuro i lettori di questa verità, la Roma di prima che venissero “l’americani” era ancora in un certo senso papalina, perché poco o niente fu “de Vittorio Emanuele” e poco o niente fu del “duce magnifico”: nel senso che fra verde, case, ruderi, osterie, fra ministeri, corti, caserme e tribunali, fra prostitute, galoppini, impiegati a fiumi nei passeggi del pomeriggio, intrallazzi, bevute e nottate, cieli e tramonti da impazzire, popolo che “manco te vede” ed élite che si riconosce in qualunque dei sette colli e che non supera il migliaio “de capocce”, il rapporto non era cambiato. La Roma che si è distesa come un drago cieco, stravolgendo ogni proporzione e misura umana, stava nascendo con le prime testimonianze dei tre angeli disegnatori.
Ma è un errore che diversi hanno compiuto nello studiare i risultati dell’arte italiana e romana degli anni Quaranta, far coincidere il massimo di rappresentazione oggettiva della realtà storica di quel momento col massimo della qualità. È più giusto osservare che parecchi artisti “realisti” del tempo dettero a loro modo un contributo alla riproposta dell’avanguardia, quando espressero il dramma di quei tempi: la concitazione, la protesta, perfino quella tal fretta (o rapimento) di chi disegna o dipinge un’immagine proibita, “pericolosa”, furono tradotte in termini di linguaggio, di rottura col gusto corrente, tenero e pettinato, in un incontro senza calcoli, per licenza poetica, con gli “ismi” di cui in Italia c’era stata una certa carenza, dopo la cattura dotta e paludata che ne avevano fatto i novecentisti: Espressionismo, Fauvismo, Cubismo entrarono come vertebre della realtà da dipingere dentro le tele di questi artisti di guerra e Dopoguerra. Dai tedeschi di Guttuso e di Stradone, alle partigiane cadute di Leoncillo e di Mazzacurati, dai personaggi di Birolli sotto i nazi a Milano, ai lager di Cagli, dai festosissimi poveri negli “orti di guerra” di Omiccioli circola nelle opere, vicino a una nuova tensione umana, una profonda simpatia del vivere comunque e dovunque sia una felicità d’espressione confortata da una quasi sorgiva eredità avanguardistica. Omiccioli come paesista romano degli anni Quaranta è forse il più tipico; basterebbe soffermarsi un momento su quelle sue retate di oggetti botanici de “gli orti” e dell’immondezzaio della grande bidonville della via Flaminia, in mezzo al verde di questa “Porta Portese” agreste: vi è delirata una messa di particolari (pneumatici, sponde di letti di ferro, scale di legno, vecchie stufe, bidoni, materassi, cartoni e lamiere), insieme a un brulicare di galline, di sfollati, di vecchie, di ragazzini nudi, che non fanno scena, sono alcuni metri quadrati di cose e di persone, come un oblò su questo mare esistenziale. Nella casa di Omiccioli in via Flaminia 71 (preferisco parlare di questa “collezione” piuttosto che di altre assai più qualificate, ma meno personali, dell’ingegner Natale, del Barone Franchetti e di tanti altri) erano quadri in quattro file, fino al soffitto: insieme con molti di Barbieri, l’amico artista morto nel 1937 cadendo nella piscina dello stadio di Roma, di De Pisis, Cocteau, Morandi, Cagli, Mafai, Scipione (un bellissimo viso di donna che l’artista regalò al padre, imballatore, di via Margutta), diversi oli di Omiccioli, tra cui due ritratti del padre dipinti in un gusto post tonale, in una materia compatta e corallina. Sento ancora la voce di Giovanni: “Già, questi sono i telai che mi faceva mio padre, c’è anche il timbro: l’orto 47 col cagnolino e le botti, questo è l’orto 11 del porcello, te lo ricordi, no? Sei venuto per primo alla Galleria Minima a vedere la mia mostra nel maggio del 1943; mi presentò Ravasenga, con un cataloghetto dalla copertina verde. Alla mostra non venne nessuno. Il giorno stesso fu inaugurata l’ultima Quadriennale del fascio. Mandai tre miei ‘orti’ sotto giuria e me li scartarono. C’era un ‘orto’ nella mostra che fu comprato da Zavattini per Bompiani e un altro, più piccolo, che lo comprò De Sica proprio l’ultimo giorno. Gli ‘orti’ li ho cominciati a numerare dal numero uno, tu mi pare che hai il numero cinque e sei… Quando c’era la guerra andavo a dipingere a Grottarossa, alla Tomba di Nerone, partivo la mattina prestissimo d’estate e tornavo la sera alle nove. Una volta mi fermai a dipingere sulla via Cassia e fui fermato dai carabinieri e trattenuto al commissariato per molte ore, nei pressi c’era una polveriera e credevano chissà che cosa stessi riproducendo; poi si accertarono della mia professione, anzi vollero che io lasciassi il quadro, ma lo cancellai con una pezza”.
Naturalmente la Roma artistica, durante la guerra è anche Mario Mafai. Se uno studioso dei fatti romani degli anni Quaranta non vi si fermasse un po’ farebbe un grosso errore. Mafai è tutta una cosa con la presenza di Roma, in quanto il ciociaro riuscì a dare della Capitale una interpretazione inconfondibile: colpiscono quelle panoramiche di ruderi incorporate nella carne viva del paesaggio, i casoni umbertini tinti dai tramonti che vengono dal mare a tingere con dita di rosa anche il bianco cadaverico del travertino barocco, quegli sguardi dentro il corpo della città, non per disegnare questa o quella cupola o arco o ponte, ma una parte intera dell’Urbe nelle sue strutture di tetti, vie, case, quasi che l’artista, pur trovandosi a contemplare la sua Roma dall’alto del Gianicolo o dal Monte Mario, avesse il dono di starci dentro, dico dentro la sua visione innamorata.
Gli anni della guerra e della dominazione nazi, come è ben noto, sono raccontati da Mafai in piccoli saggi civili, che portano innanzi la “denuncia” delle Demolizioni: raccontano di caserme e di massacri, di “fantasie”, di luoghi di malaffare, una più puntuale angoscia dell’Italia che sta perdendo la testa, di figure e figurine travolte dalla temperie bellica, una sorta di esistenzialismo obbligato (del resto è l’esistenzialismo migliore, quello per esempio dei visages di Fautrier e, perché no, dei sacchi di Burri, anche se gli uni e gli altri mediano un po’ più tardi l’angoscia per altri modi, irrecitati), tedeschi vestiti coi soli elmi, che mostrano i deretani (il rosa dei “fiori secchi” diventa grottesco impasto di violenza e di sesso), reclute mezze ignude con ramazze, bustine in testa, giacche grigioverdi prese in prestito, stavolta, non come le corazze e le tube dei suoi modelli, dal rigattiere, ma da un più truce casermaggio. Certo, entrati nel binario dell’umanissima contemplazione di Mafai, non è possibile non ritornare alle Demolizioni, quando l’artista accarezzava come un viso di un ferito grave le vecchie case di Roma già diroccate dai picconi. Questo gentile de profundis a edifici che rappresentavano in Roma una sorta di tradizione, fiera, indipendente, le case in cui dal Belli a Trilussa avevano “rugato” generazioni di romani difficilmente “inquadrabili”, è una novità nella pittura del dopo Novecento, per il suo spirito di sottile e velata contestazione, per quel porre cioè l’accento sulla parte della città — vista come un essere vivente — che viene violentemente distrutta. Già nell’aria c’era rumore di guerra, Picasso stava per dipingere uno dei quadri più celebri della pittura, Guernica. Non che io voglia conferire al patetico contributo mafaiano la vis di quest’opera possente; ma è pur vero che fino a quel momento, di paesaggi tipici, specchio dei tempi, in Italia s’eran visti soltanto quelli “urbani”, tra populisti e solenni, di Sironi, in tutt’altro clima; quelli evasivi, al comun denominare del bel viaggiare edonistico, di De Pisis (e vivi, magari appunto per quella assenza di retorica che il pittore ferrarese espresse sempre nella felicità di dipingere come vivere); quelli delle vie fiorentine medievali, popolate di “omini”, gelosi e chiusi, di Rosai tanto disponibile al regime ufficiale, quanto poco o nulla nei suoi quadri: e infatti il maestro fiorentino mi fu sempre grato della stima che, ovviamente, gli conservai, in tempi di epurazione culturale. C’era stato, sì, Scipione a far di Roma, da Piazza Navona a Castel Sant’Angelo, dal Mattatoio ai Fori, una stanza infuocata d’inferno, con angeli di marmo che diventano vendicatori, cortigiane e principi cattolici, sirene e cardinali, pronti, si sarebbe detto, per il Giudizio Universale. Ma Scipione, fratello maggiore di Mafai, quanto a statura e potenza, andava per l’alata tangente del simbolo, piangeva e si rapiva come l’ultimo dei cristiani del Basso Impero. Mafai, invece, più modesto, dipingendo case senza finestre e senza tetti (i grovigli di ferro a cespuglio fuori delle mura spicconate), sorrideva mestamente a un altro “impero” di assai minor mole e consistenza.
Eh, Roma! Ingrassa le dive, fa innamorare i cinici, calamita i viaggiatori in arte al suo passato ancor vivente (forse per i postmoderni di Bonito Oliva, di Caroli, di Fagone, di Calvesi e di altri valorosi studiosi d’oggi, Roma e l’arte romana dal Novecento incluso è una grandissima miniera di proposte), i viaggiatori in arte, eccoli, qui aprono su quei sorrisi di travertino scaldati di corallo, ampie parentesi, discorsi dentro discorsi, quasi con l’impossibilità di chiudere.
Finirò allora coi ritratti di Tamburi, i “ritratti romani”, freschissima e quasi intatta galleria di personaggi nello sconvolgente decennio 1940-1950, il tempo in cui l’immobile secolo s’è spezzato, personaggi quasi tutti di fama, ormai. Questo “piccolo maestro”, il Maupassant del Babuino o “il pittore dalla sfumatora bassa”, come l’aveva ribattezzato Mazzacurati, epigrafista dalla lingua biforcuta e generosa presenza nella Roma artistica al tempo di Scipione e oltre, aveva saputo rinnovare il logoro e discusso genere del ritratto. Nei suoi arrivi da Parigi Orfeo portava un raro spirito di colleganza, civilissimo, per noi romani, imparato a Montparnasse; e un’intelligenza, un garbo, di padrone di casa contornato da amiche , modelle, collezionisti, scrittori, critici d’arte, quasi che questa sua corte, con la quale del resto egli viveva alla pari, potesse essere prestata al primo pellegrino bisognoso di spazi e di consensi. Vengo ai ritratti: chi nel 1960 o ’70 avesse avvicinato il grave e lento Virgilio Guzzi, critico d’arte di un quotidiano del mattino, non avrebbe riconosciuto quel giovane asciutto, dal viso angoluto, dallo sguardo fisso di chi non parla perché le idee gli pesano dentro e se le rumina, pronto poi a spararle precise. Più vicino alla figura di sé del 1940 immortalata da Tamburi, è senza dubbio Luigi Montanarini, che è stato poi predecessore di Toti Scialoja, bravissimo in tutto, come pittore e come docente, direttore dell’Accademia di Belle Arti di Roma (allora uno dei “luoghi” più gentili, metafisici, puliti, di Roma, e ora un’infamia, sotto le colonne del tempietto Neoclassico e dintorni); Montanarini con quel faccione di patriarca, il camice grigio chiaro, sempre al lavoro; la moglie svizzera, i cinque figli, la nostalgia degli impressionisti e un solido ingegno. Ed ecco in piedi, con l’ombrello chiuso in un pugno come un bastone, gli occhi di topo, il viso asciutto e pur travagliato come il guscio di una noce, Angelo Savelli, il pittore dei pagliacci e dei Cristi (ma allora non conosceva Rouault), delle nature morte coi burattini, naturalmente, negli anni Quaranta; perché dopo, quando s’aprì l’emigrazione artistica, egli andò a prender moglie negli Stati Uniti (come hanno fatto anche Piero Dorazio e Alberto Burri) e ora è uno degli artisti astratti, prima della Pop Art. E poi Sandro Penna, viaggiatore in zucchero per via Margutta, il più poetico borsaro nero della Storia, il Sandrino dei baratti, dipinto proprio nel ’43; e Nicola Ciarletta, il filosofo dell’arte e del diritto, chi non ha conosciuto e praticato i fratelli Ciarletta a Roma (come del resto i fratelli Manacorda o i fratelli Basaldella o i fratelli Cascella) non sa che cosa significhi a Roma o altrove, un affiatamento polifonico della sanguineità. E Goffredo Petrassi? Quel viso di giovane bene, le guance rosee, gli occhi stellanti, il colorito che dava alle sue Miriam, Mario Mafai. C’è nel viso intatto di Petrassi, un accanito visitatore di mostre e di studi fin da allora una carica musicale, un vago trasalimento e una concentrazione, come di chi immagini note mentre posa e la posa e il pensiero musicale sono tutt’uno. Non tralascerò certo Mino Maccari, il mio grande illustratore; ha sempre portato la barba lunga, ma non la barba lunghissima, alla brava, del barbone, la barba più lunga di Malaparte, di Stradone, di un giorno e mezzo, due giorni, che, nera e fitta come i fondi di caffè sparsi fin sugli zigomi, lo faceva sempre cattivo soggetto. Tanto che nei bar e dopo le dieci di sera, per Roma, era una calamità uscire con lui, a motivo della continua richiesta dei documenti da parte degli agenti, quando ancora eravamo, come eravamo, “sotto il fascio”.
A questo punto mi devo domandare: cosa ho lasciato fuori da quegli anni? Tutto. O quasi. È una sensazione precisa, e, insieme, confortante, che nessuno possa essere testimone come fa uno specchio, perché il cuore e la mente di coloro che furono giovani e giovanissimi negli anni Quaranta non possono non essere appannati, sia pure dalla tenerezza. Del resto Roma, e con essa la vita e l’arte che vi hanno sempre prosperato, è antica e da scoprire nello stesso tempo, come tutto ciò che vive.