“La sostanza agitata” è il primo statement di Saverio Verini nelle vesti di direttore del nuovo sistema museale di Spoleto: una rete di sette istituzioni di diversa tipologia che saranno programmaticamente legate dal filo dell’arte contemporanea. In rapida risposta alla recente nomina, la mostra è accompagnata da altre esposizioni dedicate a Flavio Favelli e Paolo Icaro, arricchendo il calendario del Festival dei Due Mondi.
“La sostanza agitata” esibisce una chiara fisionomia definita dall’intersezione di tre coordinate: medium – la scultura; criterio generazionale – under 35 (gli artisti sono nati fra il 1988 e il 1996); contesto geografico – l’Italia. La mostra si dipana al piano terra del settecentesco palazzo Collicola, in un allestimento calibrato che riserva a ciascuna opera l’agio di un’intera sala. Il concept dell’esposizione rivendica esplicitamente l’eredità della vicenda contemporanea che ha lasciato il segno più duraturo a Spoleto, la mostra “Sculture nella città”, che nel 1962 inserì nel tessuto storico del centro centoquattro opere di cinquantatré artisti internazionali (sei quelle attualmente conservate). A sessant’anni di distanza, l’impresa visionaria di Giovanni Carandente costituisce un’utile cartina di tornasole per interrogare lo statuto del medium nell’ultima generazione artistica italiana.
Il titolo dell’esposizione dichiara l’irrequietezza di questa categoria nel presente, svincolata da qualsiasi specificità materiale o costrizione spaziale, fino all’espansione nell’ambiente in senso installativo. Alcuni episodi sembrano maggiormente legati alla tradizione scultorea, come nel caso di Lulù Nuti che disegna una forma in ferro forgiato la cui matrice organica evoca un meccanismo di autoaggressione, a illustrare la sua concezione d’intelligenza della materia (Too much heat, nothing to eat, 2021). Al polo opposto, Giulia Poppi mura una porta inserendovi una gattaiola automatizzata, suggerendo, nello spazio altrimenti vuoto, la presenza di un animale che però vive solo in forma immaginaria nella mente dello spettatore. Fra queste due posizioni si collocano una serie di proposte che scandagliano diverse possibilità dello spettro scultoreo. L’affidamento a una forma consolidata – quella del vaso – è investita da una dimensione relazionale nel caso di Lucia Cantò, che accoppia varie tipologie di recipienti con la collaborazione di persone a lei care, a comporre una serie di ritratti fondati sull’idea di “corrispondenza” (Atti certi per corpi fragili, 2021).
La ridefinizione della nozione di monumento è un’altra delle questioni che risuonano maggiormente nella mostra, orientata a quel capovolgimento di segno canonizzato nel termine unmonumental (nonmonumentale, dall’omonima mostra del 2007 curata da Richard Flood, Laura Hoptman e Massimiliano Gioni). Paradigmatico il caso di Davide Sgambaro che, in Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno (2022), assume al discorso della statuaria la figura dello skydancer (pupazzi pubblicitari gonfiabili). L’elemento cinetico è fondante anche nel caso di Roberta Folliero, che mette in scena una Battaglia di cuscini (2020) meccanizzata, in cui due bracci robotici deviano il gesto ludico in una direzione di malinconica distopia. Un tono giocosamente infantile si ripropone nell’installazione di Francesco Bendini, che usa come modulo un nano da giardino in cemento. La misura titanica di Set Point (2017) di Giovanni de Cataldo – che impiega un guardrail accidentato per descrivere una torsione d’impronta barocca – è contraddetta dal rivestimento in feltro di colore giallo fluo. Più didascalico il riferimento storico da parte di Paolo Bufalini, che accosta un vero teschio a coriandoli raccolti in una paletta per comporre un classico memento mori.
La pratica del lavoro in situ è un’altra delle opzioni rappresentate in mostra, che congiunge la scultura a un determinato contesto: significativa in questo caso la grande carta di Jacopo Martinotti, che riporta un frottage dei mosaici della Casa Romana (I sec. d.C.), conferendo consistenza plastica al disegno. Allo stesso modo, Bekhbaatar Enkhtur lavora sul posto con un materiale organico come la cera d’api per costruire l’immagine deperibile di una tigre, attingendo al simbolismo della cultura di origine mongola. Il suo caso di artista internazionale formatosi in Italia segnala un altro dei dati più interessanti dell’esposizione: l’emergenza di soggettività inedite nel panorama nazionale, che contribuiscono alla riscrittura del canone plastico. Fra queste anche Binta Diaw, italiana di seconda generazione che tematizza la propria identità attraverso il ricorso ai capelli come materiale d’elezione, qui composti in un’installazione che richiama l’immagine anfibia della mangrovia come metafora dei processi di radicamento migratorio.
Il carotaggio nei territori della scultura proposto in “La sostanza agitata” risulta convincente e racchiude una promessa per il futuro dell’istituzione.