L’arte finalmente ritorna ai suoi motivi interni, alle ragioni costitutive del suo operare, al suo luogo per eccellenza che è il labirinto, inteso come “lavoro dentro”, come escavo continuo dentro la sostanza della pittura. L’idea dell’arte degli anni Sessanta è quella di ritrovare dentro di sé il piacere e il pericolo di tenere le mani in pasta, rigorosamente, nella materia dell’immaginario, fatta di derive e di sgomitate, di approssimazioni e mai di approdi definitivi. L’opera diventa una mappa del nomadismo, dello spostamento progressivo praticato fuori da ogni direzione precostituita da parte di artisti che sono dei ciechi-vedenti, che ruotano la coda intorno al piacere di un’arte che non si reprime davanti a niente, nemmeno davanti alla Storia.
Negli anni Sessanta l’arte aveva una connotazione moralistica, anche quella d’avanguardia: la formula dell’Arte Povera perseguiva nel suo disegno critico una linea di lavoro repressiva e masochistica fortunatamente contraddetta dalle opere di alcuni artisti. Successivamente la pratica creativa ha fatto saltare la censura formale attinente alla produzione artistica a favore di una pratica dell’opulenza, come riparazione a una perdita iniziale, via ascensionale che non significa ascetismo o rinuncia, ma crescita e sviluppo della capacità di diventare possidenti, al limite di un possesso messo continuamente in discussione dal naturale movimento dell’opera e dell’artista, che è di spossessamento e superamento. L’opulenza consiste nella capacità di investire nella perdita iniziale, nella condizione notturna del quotidiano, il rischio della pratica solare dell’arte. Finalmente la pratica pittorica viene assunta come un movimento affermativo, come un gesto non più di difesa ma di penetrazione attiva, diurna e fluidificante. L’assunto iniziale è quello di un’arte come produzione di catastrofe, di una discontinuità che rompe gli equilibri tettonici del linguaggio a favore di una precipitazione nella materia dell’immaginario non come ritorno nostalgico, come riflusso, ma come flusso che trascina dentro di sé la sedimentazione di molte cose, che scavalcano il semplice ritorno al privato e al simbolico.
L’avanguardia, per definizione, ha sempre operato dentro gli schemi culturali di una tradizione idealistica tendente a configurare lo sviluppo dell’arte come una linea continua, progressiva e rettilinea. L’ideologia sottostante a tale mentalità è quella del darwinismo linguistico, di un’idea evoluzionistica dell’arte, che afferma una tradizione dello sviluppo linguistico dagli antenati dell’avanguardia storica fino agli esiti ultimi della ricerca artistica. L’idealismo di tale posizione risiede nella considerazione dell’arte e del suo sviluppo al di fuori dei colpi e dei contraccolpi della Storia, come se la produzione artistica vivesse avulsa dalla produzione più generale della Storia.
Fino agli anni Settanta l’arte d’avanguardia ha conservato tale mentalità, operando sempre dentro l’assunto filosofico del darwinismo linguistico, di un evoluzionismo culturale rispettoso di ogni genealogia con una puntigliosità puristica e puritana. Questo ha comportato una produzione artistica e critica attenta a porsi nel solco geometrico e chiuso della continuità. In definitiva la neo-avanguardia ha inteso salvare la coscienza felice dell’artista tutta basata sulla coerenza interna del lavoro, realizzata dentro l’ambito sperimentale del linguaggio, contro l’incoerenza negativa del mondo.
Tale assunto comporta una coazione al nuovo che ha contraddistinto la produzione artistica degli anni Sessanta, intesa come attività circoscritta al linguaggio che promuove il bisogno di sperimentare nuove tecniche e nuove metodologie nei confronti di una realtà dinamica e di per sé sperimentale quanto a capacità produttiva e sviluppo di tendenze del pensiero.
Gli artisti degli anni Sessanta cominciano a operare nel momento in cui cessa la coazione al nuovo, nel momento di rallentamento produttivo dei sistemi economici, quando il mondo è attanagliato da una serie di crisi che mettono a nudo la vertigine produttiva di tutti i sistemi ideologici. Finalmente si è parlato e si parla di crisi dell’arte. Ma se per crisi intendiamo, secondo l’etimo, “punto di rottura” e “verifica”, allora possiamo adoperare tale parola come angolazione permanente per verificare il vero tessuto dell’arte. Due sono i livelli a cui rimanda la definizione della crisi dell’arte: la morte dell’arte e la crisi dell’evoluzione dell’arte.
Hegelianamente, per morte dell’arte s’intende il superamento delle categorie del fare artistico da parte della filosofia quale scienza del pensiero che comprende e assorbe l’intuizione artistica. Più modernamente, la morte dell’arte rimanda alla constatazione che tale esperienza non riesce più a intaccare i livelli della realtà. E se da una parte viene sottolineata l’impotenza della sovrastruttura (l’arte) rispetto alla struttura (l’economia, la politica), dall’altra si afferma la caduta della produzione artistica da qualità (valore) a quantità (merce).
Oggi per crisi dell’arte in senso stretto s’intende invece la crisi nell’evoluzione dei linguaggi artistici. La crisi appunto della mentalità darwinistica ed evoluzionistica dell’avanguardia. Tale momento critico viene ribaltato dalla generazione artistica degli anni Settanta in termini di nuova operatività. Essa ha smascherato la valenza progressista dell’arte, dimostrando come di fronte all’immodificabilità del mondo l’arte non è progressista bensì progressiva rispetto alla coscienza della propria e circoscritta evoluzione interna.
Ora lo scandalo, paradossalmente, consiste nella mancanza di novità, nella capacità dell’arte di assumere un respiro biologico, fatto di accelerazioni e rallentamenti. La novità nasce sempre da una richiesta del mercato che ha bisogno della stessa merce, ma trasformata nella forma. In questo senso negli anni Sessanta sono state bruciate molte poetiche e i sottostanti raggruppamenti. Perché i raggruppamenti, attraverso le poetiche, permettono di costituire quella nozione di gusto che, proprio per la quantità degli artisti operanti nella stessa direzione, consente il consumo sociale ed economico dell’arte.
Finalmente le poetiche si sono diradate, ogni artista opera attraverso una ricerca individuale che frantuma il gusto sociale e persegue le finalità del proprio lavoro. Il valore dell’individualità, dell’operare singolarmente, si contrappone a un sistema sociale e culturale attraversato da sovrastanti sistemi totalitari, l’ideologia politica, la psicanalisi e le scienze, che risolvono all’interno della propria ottica, del proprio progetto, le antinomie e gli scarti prodotti dalla realtà nel suo farsi. Una cultura delle previsioni stringe la vita dentro un campo di concentrazione che ne assottiglia l’espandersi e tende a ridurre il desiderio e la produzione materiale al di fuori delle vie tortuose e imprevedibili entro cui si forma. Il sistema religioso delle ideologie, dell’ipotesi psicanalitica, scientifica, tende a rendere funzionale al sistema tutto ciò che è diverso, riciclando e convertendo nei termini del funzionale e del produttivo tutto ciò che invece nasce dalla pratica della realtà.
Ciò che non è riducibile in tali termini è proprio l’arte, che non può confondersi con la vita: anzi, l’arte serve a spingere l’esistenza verso condizioni di impossibilità. L’impossibilità, in questo caso, è la possibilità di tenere la creatività artistica ancorata al progetto della propria produzione. L’artista degli anni Settanta opera sulla soglia di un linguaggio irriducibile rispetto alla realtà, sotto la spinta di un desiderio che non muta mai, nel senso che non si tramuta mai se non nella propria apparenza; in questo senso, l’arte è produzione biologica, attività applicata di un desiderio che si lascia omologare soltanto nella propria immagine, ma non nella propria motivazione. L’arte non accetta transizioni, coniugata dentro il bisogno dell’artista di rendere assoluto il dato relativo della produzione corrente e di creare discontinuità di movimento, laddove esiste l’austera immobilità del concetto produttivo.
Ora l’arte non è commento inserito dall’artista dentro il luogo del linguaggio, che non è mai doppio e speculare rispetto alla realtà, in questo senso la produzione dell’arte da parte della generazione degli anni Settanta si muove lungo sentieri che richiedono altra disciplina e altra concentrazione. Qui la concentrazione diventa deconcentrazione, bisogno di catastrofe, rottura del bisogno sociale. L’esperienza artistica è un’esperienza laicamente necessaria che ribadisce l’ineliminabilità della rottura, l’insanabilità di ogni conflitto e di ogni conciliazione con le cose. Questo tipo di arte nasce dalla consapevolezza della irriducibilità del frammento, dell’impossibilità di riportare unità ed equilibrio. L’opera diventa indispensabile, in quanto ristabilisce concretamente rotture e squilibri nel sistema religioso delle ideologie politiche, psicanalitiche e scientifiche che ottimisticamente tendono invece a riconvertire il frammento in termini di totalità metafisica.
Solo l’arte può essere metafisica, in quanto riesce a spostare il proprio fine dal fuori al dentro, attraverso la possibilità di fondare il frammento dell’opera come una totalità che non rimanda ad altro valore esterno al proprio apparire.
Sostanzialmente l’arte trova dentro di sé la forza di stabilire il deposito da cui attingere l’energia necessaria per costruire le immagini, e le immagini stesse, intese come estensioni dell’immaginario individuale che assurge a valore oggettivo ed accertabile tramite l’intensità dell’opera. Perché senza intensità non si ha arte. L’intensità è la qualità dell’opera di darsi, nell’accezione lacaniana, come domasguardi, come capacità di fascinazione e di cattura dello spettatore dentro il campo intenso dell’opera, dentro lo spazio circolare e autosufficiente dell’arte, che funziona secondo leggi interne regolate dalla grazia demiurgica dell’artista, da una metafisica interna che esclude ogni rimando e ogni motivazione esterna.
Regola e motivazione dell’arte è l’opera stessa, che impone la sostanza del proprio apparire, fatta di materia e di forma, di pensiero direttamente incarnato nel luogo della pittura e del segno, non pronunciabile se non attraverso le grammatiche della visione.
In tal modo l’arte degli anni Settanta si presenta positivamente frantumata, disseminata in molte opere, ciascuna portante dentro di sé l’intensa presenza della propria esistenza regolata da un impulso circoscritto alla singolarità dell’opera creata. Così si delinea il concetto di catastrofe, intesa come produzione di discontinuità in un tessuto culturale retto negli anni Sessanta dal principio dell’omologazione linguistica. L’utopia internazionalistica dell’arte ha contraddistinto la ricerca dell’Arte Povera, tutta tesa a sfondare i confini nazionali, perdendo e alienando in tal modo le radici culturali e antropologiche più profonde.
All’apparente nomadismo dell’Arte Povera e delle esperienze degli anni Sessanta, basato sul riconoscimento di affinità metodologiche e tecniche, gli artisti degli anni Settanta oppongono un nomadismo diverso e diversificante, giocato sullo spostamento progressivo della sensibilità e dello scarto tra un’opera e un’altra.
Gli improvvisi smottamenti dell’immaginario individuale presiedono la creatività artistica precedentemente mortificata dal carattere dell’impersonalità, sincronica anche al clima politico degli anni Sessanta che predicavano la spersonalizzazione in nome di un primato del politico. Ora invece l’arte tende a rimpossessarsi della soggettività dell’artista, di esprimerla attraverso le modalità interne del linguaggio. Il personale acquista una valenza antropologica, in quanto partecipa a riportare l’individuo, in questo caso l’artista, nello stato di una ripresa di un sentimento che è quello del sé.
L’opera diventa il microcosmo che accoglie e fonda la capacità opulenta dell’arte di permettere il rimpossessamento, di tornare a essere possidenti di una soggettività fluida fino al punto di entrare anche nelle pieghe del privato, che in ogni caso fonda sulla propria pulsione e non su altro il valore e la motivazione del proprio operare.
L’ideologismo del poverismo e la tautologia dell’arte concettuale trovano un superamento in un nuovo atteggiamento che non predica alcun primato se non quello dell’arte e della flagranza dell’opera che ritrova il piacere della propria esibizione, del proprio spessore, della materia della pittura finalmente non più mortificata da incombenze ideologiche e da arrovellamenti puramente intellettuali. L’arte riscopre la sorpresa di un’attività creativa all’infinito, aperta anche al piacere delle proprie pulsioni, di una esistenza caratterizzata da mille possibilità, dalla figura all’immagine astratta, dalla folgorazione dell’idea al morbido spessore della materia, che si attraversano e colano contemporaneamente nell’istantaneità dell’opera, assorta e sospesa nel suo donarsi generosamente come visione.
L’arte degli anni Settanta trova nella creatività nomade il proprio movimento eccellente, la possibilità di transitare liberamente dentro tutti i territori senza alcuna preclusione con rimandi aperti a tutte le direzioni. Artisti come Bagnoli, Chia, Clemente, Cucchi, De Maria, Paladino e Salvadori operano nel campo mobile della trans-avanguardia, intesa come attraversamento della nozione sperimentale dell’avanguardia, secondo l’idea che ogni opera presuppone una manualità sperimentale, la sorpresa dell’artista verso un’opera che si costruisce non più secondo la certezza anticipata di un progetto e di un’ideologia, bensì si forma sotto i suoi occhi e sotto la pulsione di una mano che affonda nella materia dell’arte, in un immaginario fatto di un incarnamento tra idea e sensibilità.
La nozione dell’arte come catastrofe, come accidentalità non pianificata che rende ogni opera differente dall’altra, permette ai giovani artisti una transitabilità, anche nell’ambito dell’avanguardia e nella sua tradizione, non più lineare ma fatta di affondi e di scavalcamenti, di ritorni e di proiezioni in avanti, secondo un movimento e una peripezia che non sono mai ripetitivi in quanto segnano la geometria sinuosa dell’ellissi e della spirale.
La trans-avanguardia significa assunzione di una posizione nomade che non rispetta nessun impegno definitivo, che non ha alcuna etica privilegiata se non quella di seguire i dettami di una temperatura mentale e materiale sincronica all’istantaneità dell’opera.
Trans-avanguardia significa apertura verso l’intenzionale scacco del logocentrismo della cultura occidentale, verso un pragmatismo che restituisce spazio all’istinto dell’opera che non significa atteggiamento prescientifico ma semmai maturazione di una posizione post-scientifica che supera il feticistico adeguamento dell’arte contemporanea alla scienza moderna: l’opera diventa il momento di un funzionamento energetico che trova dentro di sé la forza dell’acceleramento e dell’inerzia.
Così domanda e risposta si pareggiano nell’agone dell’immagine e l’arte supera la connotazione tipica della produzione dell’avanguardia, quella di costituirsi come interrogazione che scavalca l’aspettativa dello spettatore per rimandare alle cause sociologiche che l’hanno provocata. L’arte d’avanguardia presuppone sempre un disagio e mai la felicità del pubblico, costretto a spostarsi fuori dal campo dell’opera per comprenderne il pieno valore.
Gli artisti degli anni Settanta, quelli che io chiamo della trans-avanguardia, riscoprono la possibilità di rendere lampante l’opera mediante la presentazione di una immagine che contemporaneamente è enigma e soluzione. L’arte così perde il suo lato notturno e problematico, del puro interrogare, a favore di una solarità visiva che significa possibilità di realizzare opere fatte ad arte, in cui l’opera funziona veramente da domasguardi, nel senso che doma lo sguardo inquieto dello spettatore, abituato all’avanguardia dell’opera aperta, alla progettata incompletezza di un’arte che richiede il perfezionante intervento dello spettatore.
L’arte negli anni Settanta tende a riportare l’opera nel luogo di una contemplazione appagante, dove la lontananza mitica, la distanza della contemplazione, si carica di erotismo e di energia tutta promanante dalla intensità dell’opera e dalla sua interna metafisica.
La trans-avanguardia si muove a ventaglio con una torsione della sensibilità che permette all’arte un movimento in tutte le direzioni, comprese quelle del passato. “Zarathustra non vuole perdere nulla del passato dell’umanità, vuole gettare ogni cosa nel crogiuolo” (Nietzsche). Questo significa non avere nostalgia di niente, in quanto tutto è continuamente raggiungibile, senza più categorie temporali e gerarchie di presente e passato tipiche dell’avanguardia che ha sempre vissuto il tempo alle spalle come archeologia e comunque come reperto da rianimare.
L’opera di Marco Bagnoli è un’investigazione sulla qualità fisica e mentale dello spazio e del tempo, nelle loro interazioni e nella dialettica aperta della moltiplicazione (spazio per tempo). Un’analisi del concetto di limite, dell’interstizio come luogo germinale delle differenze e delle opposizioni. Viene infranto il principio di centralità a favore di relazioni oblique e mobili.
Sandro Chia pratica, attraverso la pittura, la teoria di una manualità assistita da un’idea, dalla messa in opera di un’ipotesi formulata attraverso la particolarità di una figura o di un segno. Se l’immagine costituisce da una parte lo svelamento dell’idea iniziale, dall’altra è anche testimonianza del procedimento pittorico che lo produce e ne svela l’interno circuito, la gamma complessa di riflessi, le possibili corrispondenze, gli spostamenti e i rimandi fra le diverse polarità.
Francesco Clemente opera attraverso la ripetizione e lo spostamento. Parte da un’immagine preesistente che riproduce anche mediante la pittura. Ma ogni volta la riproduzione altera e sposta ciò che è riprodotto, secondo variazioni tanto sottili quanto imprevedibili. Una certezza anticipata è alla base dell’opera, che nella sua effettuazione implica uno scarto rispetto alla norma iniziale. Lo spostamento avviene per linee oblique: segno tangibile della produzione di differenza.
Enzo Cucchi accetta il movimento eccellente dell’arte, inscrivendo le cifre del proprio linguaggio sotto il segno dell’inclinazione, dove non esiste stasi ma una dinamica di figure, segni e colore che si attraversano e colano reciprocamente il senso di una visione cosmica. La pittura mastica dentro di sé e assorbe nel microcosmo del quadro la collisione fra i vari elementi. Così microcosmo e macrocosmo compiono insieme una traversata, in cui caos e cosmos trovano il deposito e l’energia della propria combustione.
Nicola De Maria opera sullo spostamento progressivo della sensibilità, praticato mediante gli strumenti di una pittura che tende a darsi come esteriorizzazione di uno stato mentale e come interiorizzazione di possibili vibrazioni che nascono durante l’esecuzione dell’opera. Il risultato è la fondazione di un campo visivo, di una visione all’incrocio di molti rimandi, in cui le sensazioni trovano una estroversione spaziale fino a risolversi in una sorta di architettura interiore.
Mimmo Paladino pratica una pittura di superficie, nel senso che tende a portare a emergenza visiva tutti i dati sensibili, anche quelli più interiori. Il quadro diventa il luogo di incontro e di espansione a vista d’occhio di motivi culturali e di dati sensitivi. Tutto è tradotto in termini di pittura, di segno e di materia. Il quadro è attraversato da temperature differenti, caldo e freddo, lirico e mentale, denso e rarefatto, che affiorano alla fine della calibratura del colore.
Remo Salvadori svolge un’opera principalmente sul tema del doppio, inteso come sdoppiamento dell’unità e come compresenza di due unità opposte: l’elemento maschile e femminile, il dritto e il rovescio. La linea o il diaframma che separa e differenzia l’identità e la somiglianza può essere accostata a quel luogo mediano che nel generare le due facce della simmetria, le situa su due piani opposti e inconciliabili.
Ora fare arte significa avere tutto sul tavolo in una contemporaneità girevole e sincronica che riesce a colare nel crogiuolo dell’opera immagini private e immagini mitiche, segni personali, legati alla storia individuale, e segni pubblici, legati alla storia dell’arte e della cultura. Tale attraversamento significa anche non mitizzare il proprio Io, ma invece inserirlo in una rotta di collisione con altre possibilità espressive, accettando così la possibilità di mettere la soggettività all’incrocio di tanti incastri. “L’essere è il delirio di molti” (Musil).
La frantumazione dell’opera significa la frantumazione del mito dell’unità dell’Io, significa assumere il nomadismo di un immaginario senza soste o punti di ancoraggio e di riferimento. Tutto questo rafforza la nozione di trans-avanguardia, in quanto ribalta l’attitudine dell’avanguardia di avere il privilegio di punti di riferimento.
Ogni opera diventa una peripezia che porta e ritorna nel luogo dell’opera, che attraversa i campi di riferimenti molteplici, che si serve di tutti gli utensili, una manualità direzionata dalla grazia del colore e di molte materie, un pensiero che pensa direttamente attraverso le immagini e si acquatta nel fondo della visione, come una temperatura che fa da collante e permette ai frammenti dell’opera di tenersi in una relazione mobile che non si serra mai e mai cerca riparo nell’idea di unità. Non esiste alcuna regola demiurgica ma soltanto la pratica creativa dell’arte che rende stabile ogni precarietà senza trasformarla in stabilizzazione e simbolica fissità. L’opera conserva il flusso del suo processo, del suo essere operosa nei dintorni di una soggettività che non tende mai a diventare esemplare ma semmai a conservare il carattere dell’accidentalità, di un’apertura di campo che non significa l’ebbrezza romantica dell’infinito dell’avanguardia, ma muoversi senza centro lungo derive segnate da un’unica prospettiva, quella del piacere mentale e sensoriale.