Igor Muroni: Qual è la sua idea di Scuola? Può descrivere la metodologia formativa che pratica in atelier con i suoi studenti e quanto i suoi artisti hanno partecipato nella sua evoluzione?
Alberto Garutti: La mia idea di scuola non si allinea all’idea di scuola a cui siamo abituati. Mi piacerebbe che nella scuola si potesse fare tutto ciò che si fa nella realtà della vita e, per il caso nostro, quello che si fa nel sistema dell’arte. Io ho sempre pensato che il grande vantaggio che la scuola ci permette è la possibilità di sbagliare. Perciò lavoro sugli sbagli. D’altra parte l’arte, tendendo alla perfezione, è sempre imperfetta! Dunque è sugli errori che dobbiamo lavorare, dobbiamo cercarli insieme per limitarli, operazione difficile ma inevitabile. Al resto non credo; non credo che l’arte sia insegnabile: solo un cretino ti può insegnare a fare un’opera d’arte!
IM: Nella scena artistica italiana quando si parla di un artista che si è formato con lei si tende a usare una sorta di definizione, “Garuttino”.
AG: Garuttino non mi piace perché sembra che i giovani artisti siano artisticamente figli miei: non è così, nessun artista che ha frequentato il mio corso ha realizzato lavori che abbiano alcun riferimento con me o con le mie opere. Caso mai se proprio vogliamo trovare un riferimento al mio lavoro, questo sta nel maturare una certa responsabilità del proprio ruolo e nella spinta vocazionale senza la quale credo che non si possa fare l’artista. “Vocazione”, è un temine che ha subìto un veloce processo di obsolescenza piuttosto evidente ma che voglio recuperare, non solo per la sua origine etimologica bellissima ma perché ho la convinzione che ci sia davvero una voce che chiami ognuno di noi, una voce che tutti potemmo percepire, ma il troppo rumore non ci permette di ascoltarla. Io chiedo a loro di cercare di fare silenzio per poterla sentire. Con tutti i miei limiti, ce la metto tutta! Fare l’artista mi appassiona molto, e proprio in quanto artista sono curioso, e quindi interessato al lavoro dei giovani. Sono molto diffidente nei confronti degli artisti che fanno ostruzione ai giovani: o hanno paura di loro o non sono abbastanza curiosi.
IM: Lei spesso costruisce mostre con suoi studenti o ex studenti, come nell’ultimo caso dell’esposizione “Fuori Classe”. In che modo si rapporta con l’autorialità condivisa da lei e questi artisti, sia da un punto di vista artistico che da quello emotivo?
AG: Come mi è sempre accaduto, non è stata mia l’idea di fare una mostra, mi è stata proposta, ed ho accettato di buon grado di occuparmene. Ma anche in questo caso mi sono avvalso della preziosa collaborazione di un curatore, perché io non faccio il curatore. Il curatore della mostra fuoriclasse è Luca Cerizza che tutti conosciamo. Io ho solo avuto un ruolo “inclusivo”: ho segnalato un certo numero di giovanissimi artisti che sono ancora studenti nel mio corso, che Luca Cerizza in questo caso non poteva conoscere, e aiutato Cerizza a fare l’elenco di tutti gli artisti che in passato sono stati miei studenti. Le scelte definitive le ha fatte poi lui.
IM: Ha mai provato la sensazione che l’autorialità di un suo artista le appartenesse?
AG: No, non direi.
IM: Ha ammirevolmente partecipato alla formazione di almeno tre generazioni di artisti. Tra tutti questi molti hanno avuto percorsi fertili e culturalmente importanti, altri invece no: secondo lei per quali motivi?
AG: Usciti dall’Accademia, la responsabilità è tutta loro… la vita è così.
IM: Ha intenzione di fare una mostra solo con artisti che non si sono formati con lei?
AG: Come le dicevo, non ho mai fatto davvero il curatore di una mostra; quando sono stato incaricato di organizzare una mostra di giovani artisti usciti dal mio corso, ho sempre richiesto la collaborazione di un curatore (per esempio, molti anni fa Roberto Daolio a Bologna, poi Giacinto di Pietrantonio a Milano, e più recentemente Francesca Pagliuca), proprio perché questo non è il mio lavoro, io faccio l’artista, figuriamoci se mi metto a curare una mostra con artisti che non conosco a fondo come i miei studenti.