Vincenzo de Bellis: Cominciamo dalla fine. Fine come compimento, conclusione: in molti dei tuoi lavori questo sembra un tema centrale e spesso in essi s’innesca un evidente processo di accelerazione della “fine”…
Lara Favaretto: La fine… se la conoscessi credo che non avremmo cominciato a parlare. È lontana dalla mia previsione. Realizzo un oggetto al limite di una discussione, alieno perché sottoposto a uno stress, a un’accelerazione d’invecchiamento che mi permetta di perderne il controllo. È lo studio di un prototipo o l’abuso di una cavia in cui la sua resa e la sua resistenza innescheranno un senso d’impotenza e di frustrazione. Realizzo allucinazioni per percezioni senza oggetto.
VDB: Cioè?
LF: Sono indagini che s’interrogano sulle reazioni spontanee indotte da interventi progettati per manifestarsi ma autonomi nel negarsi. Allucinazioni per percezioni senza oggetto era anche il titolo del progetto realizzato per Frieze Projects nel 2007, in cui ho invitato ufficialmente Sua Maestà la Regina del Regno Unito Elisabetta II a visitare la fiera. Certo che non è accaduto! Ma il senso di gratificazione di fronte a una sua eventuale apparizione e la frustrante prevedibilità della mancata visita ha creato una sorta di miraggio, interrotto dall’imprevisto applauso che, oltre ad annunciare l’evento durante la fiera, invitava il pubblico ad avvicinarsi all’uscita.
VDB: Una standing ovation per un fallimento: alquanto paradossale…
LF: Il fallimento si colloca nelle dispersioni, dove si brevettano le idee e i progetti. È uno stato di allerta e di necessità. Il fallimento è allergico all’ovvietà delle previsioni, rendendosi autonomo. È come se si progettasse per sottrazione. Ma tu forse intendevi fallimento come sconfitta, allora mi viene in mente il Plotone (2005-08) di bombole di azoto, un plotone di esecuzione. È un esercito sconfitto, che resta immobile durante una pausa obbligata che talvolta è interrotta dal suono di trombette che, a intervalli imprevedibili, compiono uno sberleffo. Sembrano soldati decadenti che si reggono in piedi solo per funzionare e classificati come beni di consumo o beni comuni e quindi speciali.
VDB: Immagino che quel “bene di consumo” vada preso alla lettera.
LF: Finché saranno contenuti in dei white cube non correranno nessun pericolo…
Il paradosso è quando si manifesta il contrario, quando altri “beni di consumo” hanno resistito alla noncuranza diventando naturalmente oggetti commoventi, nel loro essere inerti, e ipnotizzanti, nel loro essere gesti compiuti nell’inconsapevolezza di un uomo semplice. Ecco perché sento l’“opera” in difetto e, tentando di sottoporla a “stress”, faccio pressione sulle intenzioni indagando sul modello di pietà, costringendola a uno stato di deterioramento.
VDB: L’usura è la regola di molti tuoi ultimi lavori, penso subito all’installazione Simple Men (2008), presentata all’ultima Triennale di Torino, in cui delle spazzole da autolavaggio di colori diversi ruotano su se stesse graffiando e frustando le lastre di metallo alle quali sono agganciate tramite delle staffe, consumandosi ed esaurendosi. Questo processo, come anche in Cominciò ch’era finita (2006) o È così se mi interessa (2006), avviene attraverso l’utilizzo di elementi meccanici, che normalmente dovrebbero effettuare un lavoro continuo e controllato e che invece nei tuoi lavori perdono la loro funzionalità originaria e disperdono la loro energia produttiva: così l’oggetto diventa vittima di se stesso…
LF: È come se condannassi a morte una bella immagine e progettassi un gesto e non la sua conseguenza.
Cucire insieme trentadue tende militari per costruire un tendone da circo travestito da macchina da guerra che viene poi ridotto, lentamente, in brandelli contro una colonna; una corda di canapa costruita a mano e con un cappuccio di pelle nera all’estremità, concepita per girare alla massima velocità e sbattere contro un muro bianco lasciandovi delle casuali tracce nere. Sono dei derelitti, sono dei residui come la polvere accumulata sulla lastra dopo ore di funzionamento. Rimangono vivi dei fantasmi.
La parte meccanica? È funzionale e sfruttata come tale. Si può parlare di macchina “celibe”.
VDB: Quindi c’è una sorta di responsabilità oggettiva: qualsiasi curatore che ti invita a mostrare uno di questi lavori partecipa alla sua “consumazione”, così come ogni spettatore che guarda, anche con la sua semplice presenza, contribuisce alla sua sorte. Se mi concedi il paragone un po’ forte si potrebbe parlare di un omicidio premeditato, di cui tu sei il mandante e tutti gli altri gli esecutori…
LF: è un’espressione un po’ troppo narrativa… Parli della responsabilità oggettiva perché il meccanismo è innescato e l’oggetto è minacciato. La sua sorte è indipendente e autonoma, non si cura della presenza ma continua il suo lavoro per inerzia. Mi viene in mente Wall-E, solo che la mia macchina non s’innamora e subisce solo una sorta di sindrome dell’abbandono… [Ride]
VDB: Responsabilità oggettiva, innesco, minaccia, sorte, esaurimento e sindrome dell’abbandono… ma stiamo ancora parlando di un’opera d’arte?
LF: Che cos’è un’opera d’arte? Suona vecchia già solo la parola. Preferisco chiedermi quale necessità ci sia di fare un’altra mostra, un’altra rivista, aprire un altro spazio e perché realizzare un altro lavoro! Tanti si stanno facendo le stesse domande, anche se tutto continua ad accadere. Realizzare un lavoro è come affiggere un cartello con la scritta “Torno subito” e, poi, riapparire tristi. Come ho già detto in un’altra intervista, sto collaborando con l’Uomo Nero, il selvaggio, a un progetto che tende a distruggere piuttosto che creare. Per chi non l’avesse ancora conosciuto, sta ricurvo, come se si vergognasse di qualcosa, risponde a stento alle domande e fa seccamente le sue. Sembra che non veda l’ora di partire, per tornare nel suo mondo. Non lo biasimo. Mi piace perché è timido e fragile.
VDB: Non so se conosciamo lo stesso Uomo Nero, perché quello che conosco io non sembra né timido né fragile, a meno che non rispecchi in pieno quel luogo comune secondo cui la timidezza si maschera con l’aggressività. Tu parli di distruggere piuttosto che creare, e sarai d’accordo che questo presuppone l’esistenza di qualcosa da distruggere. Se è così, che cos’è?
LF: È proprio il lavoro stesso! Senza farne qualcosa di drammatico…
VDB: Quindi è un processo di sottrazione?
LF: È come se, parlando di ICHI di Takashi Miike o di La Jetée di Chris Marker o di Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, provassi a risponderti. Non è differente quando penso di trasformare una facciata di un museo in una trincea, come se lì si potesse fare il punto della situazione, o quando progetto una mongolfiera per mettere a confronto due diverse culture sul tema della dignità e nello stesso tempo scrivo su una targhetta d’argento “Your Money Here” [Your Money Here, 2008] sopra una fessura fatta come un’elemosina e la avvito al muro. È tutto al limite, sembra come se tutto fosse precario, da ripensare. È come se tutto mi piacesse solo se regolato dalla possibilità unica e fortuitamente ripetibile, come un’apparizione.
VDB: Quando parli di “apparizione” penso alla parola “epifania”, nel senso in cui la usava James Joyce per descrivere alcuni momenti di intuizione improvvisa dei suoi personaggi; momenti in cui un’esperienza, sepolta nella memoria, sale in superficie riportando tutti i suoi dettagli e tutte le sue emozioni. Ho letto da qualche parte che l’esempio massimo di epifania è contenuto nell’ultimo racconto di Dubliners (Gente di Dublino), intitolato I morti, che si conclude con una nevicata che ricopre tutto.
LF: Credo che il candore di una nevicata non si addica a questo momento storico. Morti? Preferisco l’ambiguità degli scomparsi. Da qualche mese sto archiviando storie attorno a persone che hanno deciso di far perdere le loro tracce, sottrarsi alla loro vita, per ricomparire in un’altra a tutti ignota. Potrei parlarti di Bobby Fischer, Christopher Johnson McCandless, detto “Alexander Supertramp”, Federico Caffè e molti altri. Entità scomparse per ritornare a essere anonime e sopravvivere tra il mistero e il desiderio, tra la salvezza e la perdizione, tra il rifugio e la rassegnazione, dandosi la possibilità di sottrarsi per apparire, forse. Un nuovo stato delle cose che li mette in condizione di vivere o di morire indisturbati. Un modo diverso per invecchiare con le loro stesse invenzioni e proteggere i loro sogni.
VDB: Di questi conosco solo Bobby Fischer, il campione di scacchi. Ma che ne sarà di questo archivio? È l’inizio di un tuo nuovo progetto?
LF: La vicenda di Bobby Fischer è lunga e articolata. Ci sono documenti che non si aggrappano al solo checkmate o scacco matto ma, piuttosto, alla complessità della sua percezione rispetto alla concentrazione e alla prevedibilità del gesto strategico. Invece, per quanto riguarda il mio archivio, lo proteggo più di ogni altra cosa, è più importante di ogni opera e per il momento resta un archivio. È un deposito, un pozzo delirante che sembra essere allergico alle didascalie e disposto a reinventarsi in una forma inaspettata per costruire un altro progetto. Che altro se non un altro progetto?
VDB: E per Venezia?
LF: Un monumento momentaneo.