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17 Settembre 2025, 4:35 pm CET

L’archivio come dispositivo creativo nelle pratiche artistiche di Adji Dieye e Jermay Michael Gabriel di Clara Rodorigo

di Clara Rodorigo 17 Settembre 2025
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Adji Dieye, Untitled, 2021. Veduta della mostra “Culture Lost and Learned by Heart” presso C/O Berlin, Berlino, 2022.
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Adji Dieye, “A VENDRE”. Veduta della mostra presso Fondation H, Parigi, 2023.

In che modo l’archivio, tradizionalmente considerato uno spazio di conservazione e consolidamento, può trasformarsi in un luogo di rottura? Quanto lascia all’interpretazione? E quale ruolo assume la polvere, simbolo di stratificazione e oblio, nel rivelare nuove narrazioni? La decostruzione dell’archivio diventa un passaggio essenziale in ogni percorso di ricerca che mira a mettere in discussione e sovvertire la narrativa dominante, cioè quella che riflette e rafforza gli interessi e le gerarchie di potere esistenti, influenzando la formazione delle identità, delle leggi e delle politiche.

Adji Dieye (Milano, 1991) e Jermay Michael Gabriel (Addis Abeba, 1997) esplorano l’archivio come spazio fluido e dinamico, in grado di negoziare e ribaltare la condizione subalterna della storia mediante pratiche che, intrecciando un approccio critico con visioni ironiche, emancipano il rimosso storico attraverso una decostruzione dell’archivio; che non è più depositario di verità assolute, ma diventa un dispositivo in grado di mettere in discussione il presente e le strutture di potere che influenzano e definiscono le identità individuali e collettive.

Ispirata dalla narrativa cinematografica del regista senegalese Ousmane Sembène e dalle teorie del filosofo camerunense Achille Mbembe, Adji Dieye, artista multidisciplinare che vive e lavora tra Milano e Dakar, rivolge il suo sguardo critico alle architetture che caratterizzano gli spazi pubblici e istituzionali, analizzando il modo in cui influiscono sul senso di comunità e l’identità personale. Per Dieye, l’archivio non rappresenta un punto di partenza statico ma uno strumento di indagine dinamico e malleabile, in grado di rivelare i meccanismi di potere da cui è esso stesso plasmato. Nell’installazione Culture Lost and Learned by Heart: Untitled (2020 – presente), Dieye combina immagini provenienti da archivi personali e dagli Archivi Iconografici Nazionali del Senegal, fondati nel 1913 durante il regime coloniale francese. Attraverso questa giustapposizione, l’artista evidenzia l’impossibilità di una linearità storica nel contesto post-coloniale, mettendo in luce inquietanti somiglianze tra passato e presente e rivelando un persistente regime di dipendenza.

Nel progetto A VENDRE (2023), la nozione di spazio pubblico in un contesto post-coloniale viene esplorata attraverso l’ambivalenza dell’architettura sia come simbolo di progresso che come strumento di oppressione. La serie, combinando autoritratti e soggetti architettonici mediante l’utilizzo della tecnica del cianotipo, che richiama l’iconografia degli archivi storici, esamina figure come Le Corbusier e Mies van der Rohe, evidenziando come l’ambivalenza di modelli ideologici oppressivi abbia influenzato la progettazione di edifici nel continente africano. Il progetto si amplia con una performance video in cui un personaggio, disteso su un cantiere, legge alcuni estratti da Verso una nuova architettura di Le Corbusier. Il personaggio incarna un archivio vivente, progressivamente sepolto da un muratore che, al termine, posiziona un cartellone con la scritta “A VENDRE” (In vendita).

Richiamando l’approccio di Dieye all’architettura come testimonianza attiva della memoria coloniale, l’opera Italy Sightseeing (2023) di Jermay Michael Gabriel, artista transdisciplinare italo-etiope-eritreo, immagina un itinerario fittizio in autobus che parte da Catania e termina a Milano, percorrendo i luoghi emblematici del colonialismo italiano, tra cui Via Assab, intitolata alla baia in Eritrea che nel 1882 ne segnò l’inizio. Questo percorso simbolico, riflettendo su come i nomi delle strade perpetuano una memoria coloniale stratificata nel paesaggio urbano, mette in atto un uso consapevole e parossistico della finzione, attraverso la quale Gabriel sovverte la rigidità dell’archivio, trasformandolo da contenitore passivo di dati a spazio di resistenza e rilettura. La narrazione immaginaria risultante rivela le connessioni tra geografie fisiche e storiche, offrendo nuove prospettive per reinterpretare il passato.

In un ciclo del 2024, Gabriel ha esposto una raccolta di fotografie d’archivio scattate nelle colonie italiane ad agenti atmosferici per mesi, lasciando che il tempo le sbiadisse ed erodesse. Sospese tra visibilità e scomparsa, le immagini senza nome incarnano la fragilità della memoria e la sua inevitabile frammentarietà. La manipolazione dell’archivio diventa un atto di protezione, un escamotage per sottrarre le immagini ad appropriazioni pseudo-storiche e regimi di potere che ne distorcono il significato. Sperimentando con l’archeologia e con la storiografia, l’artista dà vita a una narrazione alternativa fondata su un archivio romanticizzato ed espanso.

L’approccio all’archivio come dispositivo creativo si presenta come un atto di resistenza contro la tendenza colonizzatrice a categorizzare, strumentalizzare e ridurre storie e identità individuali a una narrazione universale e omologante. Nell’installazione site-specific di Gabriel Meskel (2024), cenere e polvere non segnano la fine della materia, ma ne simboleggiano il rinnovamento: un fertilizzante naturale e un emblema di rigenerazione, dove la distruzione dà origine a una nuova vita. In questa visione, la polvere diventa un elemento catartico, simbolo di trasformazione e caos creativo. La sua capacità di offuscare e dissolvere i confini stimola una riflessione sui dualismi tra assenza e presenza, forma e metamorfosi, creazione e distruzione.

“Sono ciò che il tempo, le circostanze e la storia hanno fatto di me, ma sono anche molto di più. E così siamo tutti” scriveva James Baldwin, scrittore e attivista per i diritti civili afroamericano, nella raccolta Notes of a Native Son (1955). In questo passaggio Baldwin sottolinea come ogni esistenza sia il risultato di un intreccio complesso di fattori storici e culturali, e al tempo stesso trascenda queste influenze, sfuggendo a ogni tentativo di riduzione o categorizzazione. Questa riflessione, intrisa di consapevolezza storica e identitaria, risuona profondamente nelle opere di Gabriel e Dieye, che esplorano le stratificazioni della memoria e dell’identità individuale e collettiva. Nessun archivio, per quanto vasto e dettagliato, potrà mai rappresentare pienamente la totalità delle storie e delle identità che cerca di custodire. Piuttosto che vederlo come un contenitore statico di verità assolute, lə artistə lo utilizzano come un punto di partenza dinamico, un dispositivo creativo e sperimentale capace di interrogare il passato e aprire spazi a narrazioni inedite e personali. Questo approccio consente di giocare con le contraddizioni e le assenze dell’archivio coloniale, trasformandole in motore di nuove interpretazioni e significati.

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Jermay Michael Gabriel, Italy Sightseeing, 2023, lightbox, led. Courtesy ArtNoble Gallery, Milano. Fotografia di Michela Pedranti.
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Jermay Michael Gabriel, Semplicemente deserto, 2024. Courtesy ArtNoble Gallery, Milano. Fotografia di Michela Pedranti.
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Jermay Michael Gabriel, Cose Bizzarre. Veduta della mostra presso ArtNoble Gallery, Milano, 2024. Fotografia di Michela Pedranti.
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