Caro Francesco,
una volta tanto su queste colonne la lettera la scrivo io. Ho la sensazione talvolta di essere così impegnato a guardare davanti a me e a una distanza così ravvicinata che non mi accorgo che qualcuno mi ha sottratto la sedia e io continuo anchilosato a star seduto ma nel vuoto. Perché mi capita spesso di chiedermi cosa sta cambiando, anzi cosa è già cambiato, perché sento un profondo mutamento (o sgomento?) in atto, una sorta di sconvolgimento epocale, politico, economico, istituzionale, che mi fa ritenere che i valori culturali, soprattutto estetici e filosofici che ci hanno sostenuto sino ad ora, non siano più attendibili: lo avverto da segnali diversi e impercettibili di cui non riesco a trovare la chiave di lettura. E ciò che mi rattrista è che attorno a me, almeno qui, all’interno dell’arte, nessuno se ne rende conto o lo vuol dire o peggio, nessuno si pone il problema. Insomma, tutti, artisti in primis, continuano sulla falsariga delle vecchie consuetudini e parametri culturali. Ma io avverto che certe nostre consuetudini culturali debbono essere messe in soffitta. Certo non è facile ammettere che tante cose che abbiamo amato attraverso i secoli possano diventare obsolete, che l’arte, in questo caso, debba cambiare pelle, ruolo, forse significato e far entrare in crisi il sistema che l’aveva sin qui protetta (artista, collezionista, galleria, museo, rivista d’arte, critico) e si debba rifondarne un altro totalmente diverso. Tutta la mia vita è stata caratterizzata dal cercare di capire con un po’ di anticipo le modificazioni dei climi culturali che hanno sempre coinciso anche con nuovi cicli artistici. Invece in questo momento non capisco più nulla: il nuovo è già arrivato, sta arrivando, non arriverà mai? Oppure l’arte è già diventata qualcos’altro, sta in qualche altra parte sotto spoglie diverse o mentite e noi, senza sedia, seduti nel vuoto continuiamo a cercarla negli stessi punti, dove tradizione e pigrizia ci hanno portato? Per questo chiedo a te che stai a New York, un osservatorio privilegiato: si manifesta questo sconvolgimento che io avverto? Questa strana attesa di fine millennio come viene letta da voi? O forse è questo un malessere esclusivamente europeo, del vecchio continente che vive l’attesa angosciante di un’invasione e dunque modificazione culturale? Da Milano, da questa città demotivata e disorientata, da cui è difficile proiettarsi nel futuro perché qui di futuro c’è solo un’eliotiana “terra desolata”, noi “della specie di chi rimane a terra” ti chiediamo quali risposte può darci ancora la “tua” America, sempre vitale e rigeneratrice.
Giancarlo Politi
Caro Giancarlo,
ti chiedi cosa stia cambiando nell’arte contemporanea. Se esiste una rivoluzione generazionale in atto di cui noi non riusciamo a comprendere i sintomi. A me non pare, ma potrei rivelarmi miope. Non farei paragoni con il sistema politico, specialmente quello italiano. L’arte ha sempre un po’ seguito direzioni tutte sue e tutt’oggi lo fa. Certo ciclicamente si presentano periodi in cui un’arte strettamente legata alle problematiche contemporanee viene alla superficie con forza, ma appunto io credo che di superficie si tratti. Nel profondo l’arte che lascia il segno è quella che scuote lo spirito, quello religioso, quello sociale e quello politico. L’arte che opera troppi distinguo ha una sua funzione ma ristretta alla contingenza degli eventi. Mi pare che l’arte si dovrebbe lasciare al suo tempo di fruizione. La pubblicità ha i suoi tre minuti. Il cinema le sue due o tre ore, il calcio i suoi novanta minuti, l’opera i suoi atti e così il teatro. Invece l’arte ha i suoi tempi di assimilazione, e così deve essere. L’arte non è per fortuna ancora un’impostazione, come la pubblicità o il calcio. Si può decidere ancora quando la si vuole vedere e in che tempi. L’arte ha la sua forza, o l’aveva, nel ritmo dell’uomo, che correre più di tanto non può. Pensa se si andasse in un museo e i quadri e le sculture ci venissero presentate su dei tapis roulant. Invece andiamo in questi luoghi per nostra decisione e ci fermiamo davanti a un capolavoro, come davanti a una schifezza, quanto ci occorre per comprenderlo o rifiutarla, può essere un attimo o invece un’ora ma lo decidiamo noi, e in questa possibilità di decidere credo stia ancora la funzione dell’arte. Per questo mi spaventano iniziative come “Ars Lux” (mostra itinerante di manifesti tenutasi nelle principali città italiane che ha visto la partecipazione di oltre centro artisti, ndr), dove gli artisti accettano che le proprie opere vengano trasformate nel loro tempo di fruizione. Gli artisti accettano di essere imposti a un pubblico che non ha deciso di guardarli, quindi accettano di essere un po’ impostori, perché chi sfreccia con l’auto o va a mangiare la pizza non lo sa che quel cartellone luminoso è un’opera d’arte. Felix Gonzalez-Torres, coi suoi bellissimi manifesti, aveva già raggiunto un risultato di grande poesia, lasciando l’arte essere arte, perché, pur su di un edificio, l’immagine si presentava con semplicità attraverso il suo tempo tutto legato alla memoria, un progetto creativo e politico al tempo stesso senza forzature né in un senso né in un altro. Alla luce di quanto scritto, che previsioni si possono fare. Azzardate. Eccole.
1. L’arte si riconsacrerà. È l’unico modo per tornare a essere “contro” in una società secolarizzata e sempre pronta a essere “pro”.
2. Ci sarà meno arte, ma quella significativa si divulgherà in molti più modi di adesso. Esisterà l’opera e parallelamente la sua divulgazione attraverso una documentazione d’autore per quel pubblico che segue l’arte contemporanea ma non la colleziona.
3. La nuova generazione, quella X, chiede direzioni dall’arte. Più che essere protagonisti, questi giovani vogliono essere dei fruitori. Desiderano avere accesso al linguaggio artistico esistente. È preoccupante perché viene a mancare l’opposizione al sistema quindi diminuiscono le possibilità di ricambio. Ma forse una volta entrati nel discorso artistico molti di questi giovani saranno capaci di formulare nuove forme di comunicazione, portando cambiamenti dall’interno anziché criticando dall’esterno. Questo rimane il vero grande interrogativo che credo non ci sarà dato di prevedere nel futuro prossimo.
4. Si guarderà di più alle singole opere, la qualità sarà capitale, e si penserà meno all’artista come individuo, con le sue beghe e psicopatie.
5. Nonostante si continuerà a dipingere, e molto, la pittura avrà pochi margini d’azione. Si potranno avere ancora dei sobbalzi selvaggi, come negli anni Ottanta, ma brevissimi e con un seguito ristretto. Il tempo della pittura e la sua semplice struttura, veramente, non appartengono più all’individuo contemporaneo.
6. Il disegno si svilupperà di più perché più strettamente legato al linguaggio e al ruminare dei pensieri e delle idee. Usciranno più scultori e artisti concettuali dal disegno che pittori.
7. Le riviste, i musei, persino molte gallerie, avranno un’unica parola d’ordine: “divulgazione”, o meglio “accessibilità”, che non vorrà dire semplicità a buon mercato ma possibilità di entrare nel discorso dell’arte senza dover ripercorrere cinquant’anni di storia dell’arte.
8. Anche la critica si trasformerà. Si farà meno teoria sulle riviste e nei cataloghi e più giornalismo e letteratura artistica.
9. Le gallerie diverranno micro-kunsthalle e, riducendo le personali, produrranno piccole mostre tematiche che attrarranno più pubblico, riducendo le trame dell’arte più recente. Il gallerista avrà un ruolo che si potrebbe definire “curatore di mercato”: darà indicazioni mercantili legati a un contesto intellettuale più vasto.
10. Il collezionismo si focalizzerà sulla qualità dell’opera, al di là dell’investimento. Il vero investimento sarà costruire collezioni con una struttura intellettuale chiara. I lavori si valorizzeranno l’un l’altro e non indipendentemente.
11. L’America rimarrà il fulcro e all’avanguardia perché sta costruendo strutture al servizio della divulgazione dell’arte inimmaginabili in Europa. Il museo di San Francisco è stato costruito con 80 milioni di dollari in donazioni, il che significa una fede smisurata nell’arte che il vecchio continente non ha.
12. Ma dove l’arte si sta dirigendo ce lo suggeriranno in parte quattro mostre che apriranno a New York la prossima stagione.
Jeff Koons, dove il triviale sostituisce la Storia. Il monumento non celebra più il grande uomo ma l’uomo comune.
Matthew Barney, dove i tempi del cinema e della cultura video sono trasformati in linguaggio arcaico e spirituale.
Rudolf Stingel, dove la pittura trova la sua ultima sublimazione e l’artista scompare per lasciare il posto alla sua metafora finale.
Gabriel Orozco, capolinea dell’insegnamento di Duchamp e punto di partenza di una nuova percezione realista e concettuale.
13. Più in generale però io sento l’umore di una generazione che cerca le proprie strade verso l’arte attraverso professioni che non molto tempo fa erano gli artisti ad anelare. Così il giovane regista di video musicali trasformerà la sua esperienza per il pubblico ristretto delle gallerie, lo stesso farà il fotografo di rotocalchi di successo. Una generazione scafata che non ha conosciuto misantropia, timidezza e utopia; cresciuta come audience, naturalmente educata a un pubblico più vasto che ricerca un’intimità sconosciuta, scoprendola nel contesto così ristretto del mondo dell’arte contemporanea.
14. Infine, penso all’attesa angosciante dell’invasione che l’Europa vive e di cui tu parli. Una nemesi storica da cui si potrebbero avere tanti benefici, trasformando l’invasione in un’accoglienza e uno scambio, un po’ come da sempre hanno fatto gli americani, anche se molto spesso con più di una ipocrisia. Ma di fatto gli Stati Uniti sono realmente una società multiculturale obbligata a prestar ascolto alle diverse “comunità di destino” che la formano. Perché la trasformazione della società e anche dell’arte passeranno attraverso la presa di coscienza della fine dell’eurocentrismo e l’Occidente deve essere pronto a ricevere le proprie esportazioni culturali e ideologiche che stanno rimbalzando indietro trasformate e degenerate. Per questo ereticamente mi viene d’affermare che non esiste arte contemporanea oltre i confini occidentali, ma un processo verso forme di creatività contemporanee. Dobbiamo finirla di fare i piccoli esploratori andando in giro a recuperare scampoli di etnie che combaciano con le nostre visioni estetiche. Finirla di travisare, nel nome della multicultura, esperienze amorfe, inserendole nei nostri baracconi biennali o quinquennali, de-culturizzando le fonti da cui le estirpiamo. L’arte moderna e contemporanea è stata il frutto di un pensiero religioso, quello ebraico/cristiano, di una filosofia, quella illuminista, e di un sistema economico, il capitalismo; è stata il frutto dello sviluppo occidentale. Ora che questo sviluppo è arrivato, se non alla fine, a un ripensamento traumatico dei suoi parametri, anche la sua arte è obbligata alle stesse valutazioni. Non vogliamo rassegnarci e continuiamo a snaturare e smangiucchiare qui e là prodotti artistici non-occidentali che ci assomigliano ma la cui identità è radicata altrove. Dopo aver gonfiato oltre le proprie capacità di realizzazione la bugia del bene-avere, continuiamo a dare l’illusione che l’arte contemporanea sia l’unico e democratico sistema per l’arte di un intero pianeta. Abbiamo generato parodie di Warhol e Picasso dagli Urali a Vladivostok, da Tunisi a Città del Capo per poi sbeffeggiarli nel confronto con le nostre sofisticate avanguardie. La grande trasformazione dell’arte contemporanea deve passare attraverso questo mea culpa, ristabilendo i propri confini nella speranza che altri orizzonti potranno in futuro aprirsi su identità totalmente diverse. Nel rispetto della libertà e della ricchezza dei propri pensieri dovremo tutti controllare con molta severità l’anarchia delle nostre immagini e dei nostri messaggi.
Francesco Bonami