C’era una volta la sponsorizzazione: se vogliamo capire qual è oggi il senso del rapporto tra imprese e arte contemporanea dobbiamo partire da questo epitaffio. Un tempo, le (poche) imprese che mostravano interesse per la cultura non avevano quasi altra scelta che pagare per acquistare il privilegio di essere ammesse, spesso in punta di piedi e in una posizione defilata, all’interno del Sacro Recinto. In pochi anni, la situazione è radicalmente cambiata: il dialogo tra imprese e arte contemporanea (ma un discorso analogo vale per altre forme di espressione culturale come il teatro, la musica o la letteratura) si è fatto sempre più intenso, e le imprese non si accontentano più di finanziare progetti ideati e proposti da altri, ma sono sempre più spinte a mettersi in gioco in prima persona. La loro presenza non viene più vissuta con sospetto e diffidenza, come spesso accadeva ancora pochi anni fa, ma è diventata spesso un elemento di prestigio e distinzione.
A cosa si deve questo cambiamento? Dal punto di vista delle imprese, soprattutto al riconoscimento del fatto che l’arte sta entrando sempre più profondamente nell’immaginario delle persone. È diventata parte integrante dei codici di comportamento, della sensibilità, degli interessi di un segmento sempre più ampio di popolazione, e in rapida espansione. Sta colonizzando le pagine delle riviste di costume, delle trasmissioni televisive di tendenza, ed è fin dall’inizio un elemento integrante della cultura digitale dei nuovi media. Il rapporto con l’arte, per molte imprese, non è più qualcosa che ha a che fare soltanto con la comunicazione e il marketing, ma sempre più con la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti, con l’analisi degli stili di vita dei consumatori, con l’anticipazione delle nuove tendenze di mercato. Non possiamo allora stupirci del fatto che ormai alle imprese la semplice sponsorizzazione interessi sempre meno. Ma anche dal punto di vista dell’arte, l’impresa non è più connotata ideologicamente in senso negativo, ma rappresenta sempre più un interlocutore culturalmente preparato, capace di portare non soltanto risorse ma anche energie e curiosità, desideroso di confrontarsi con gli artisti su questioni nuove e spesso affascinanti, pronto a rischiare di avventurarsi su percorsi nuovi e insoliti.
Quali sono allora le nuove forme del rapporto tra impresa e arte contemporanea? Quali le esperienze più interessanti? In un momento di rapido cambiamento come quello attuale, le risposte che possiamo dare sono necessariamente parziali, dobbiamo procedere per esempi piuttosto che fornire un panorama completo. E dobbiamo anche concentrare l’attenzione su un ambito geografico delimitato come quello italiano, che tra l’altro si presenta, almeno in questo caso, come uno dei più vivaci a livello internazionale. È in Italia che sono nate infatti alcune delle esperienze più pionieristiche e innovative. Ma procediamo con ordine.
Le fondazioni “autonome”
Per un numero crescente di imprese, la scelta più semplice è quella di diventare esse stesse operatori culturali dando vita a una propria fondazione che si affida a competenze curatoriali spesso di alto livello e porta avanti programmi di attività paragonabili per qualità a quelli di istituzioni culturali di primo piano.
Per limitarci all’Italia (ma gli esempi internazionali sarebbero naturalmente molti di più), possiamo citare esperienze come la Fondazione Trussardi, la Fondazione Prada o la Fondazione Teseco. È interessante notare come in tutti e tre i casi la programmazione culturale della fondazione non stabilisca un rapporto banale e didascalico con il core business dell’azienda, lasciando al contrario al “braccio culturale” piena libertà di azione. Non soltanto il prodotto non appare mai, ma anche ogni forma tradizionale di pubblicità o promozione è pressoché assente. La fondazione non presenta alcuna differenza sostanziale nei confronti di una qualunque altra istituzione culturale.
Nel caso della Fondazione Trussardi, il cui curatore è Massimiliano Gioni (scelto con lungimiranza all’inizio della sua carriera prima dei grandi riconoscimenti internazionali), si abbandona anche l’idea di uno spazio espositivo istituzionale per andare a esplorare lo spazio urbano di Milano, riscoprendo luoghi poco conosciuti o rileggendo provocatoriamente gli angoli più noti della città, lasciando liberi gli artisti di operare scelte molto provocatorie (si pensi alla roulotte di Elmgreen & Dragset nella Galleria Vittorio Emanuele o agli ormai celeberrimi bambini impiccati di Maurizio Cattelan in Piazza XXIV Maggio), e scegliendo sempre artisti nel pieno della loro sperimentazione progettuale (l’ultimo progetto in ordine di tempo è quello di Pawel Althamer presso la Palazzina Appiani dell’Arena).
La Fondazione Prada ha, al contrario, centrato tutta la sua attività sul suo grande spazio espositivo con mostre impegnative e ambiziose affidate alla cura di Germano Celant, che propongono nomi di grandissimo rilievo internazionale (da Anish Kapoor a Dan Flavin, da Louise Bourgeois a Sam Taylor-Wood, da Mariko Mori a Carsten Höller, a Francesco Vezzoli, fino al progetto in corso di Tobias Rehberger, solo per limitarsi a qualche nome) senza cercare alcun rapporto o mediazione con la realtà urbana circostante (con la parziale eccezione del progetto di Dan Flavin alla Chiesa Rossa).
La Fondazione Teseco, che opera nel campo dell’ingegneria ambientale, ha invece scelto di ospitare le proprie attività all’interno di una sua ex fabbrica, in un luogo defilato dalla città, quello della zona industriale di Pisa. Nel corso del tempo ha collaborato con vari curatori dando al suo programma, che è oggi affidato a Marco Scotini, un taglio fortemente sperimentale e progettuale. Gli spazi lavorativi dell’azienda ospitano inoltre la collezione che è aperta al pubblico a orari prestabiliti e su appuntamento, e non mancano le iniziative di formazione e sensibilizzazione rivolte ai dipendenti. Quest’ultimo aspetto ci porta verso un’altra, importante tipologia di intervento.
Il work environment
Per molte aziende, l’arte sta diventando un elemento importante per modificare la qualità dell’esperienza del luogo di lavoro. Seguendo il modello già sperimentato da anni nei suoi quartieri generali di Francoforte, la Deutsche Bank ha ad esempio da poco installato nei propri uffici direzionali milanesi, sotto la cura di Frank Boehm, opere di artisti italiani tra cui Patrick Tuttofuoco, Lara Favaretto, Alberto Garutti, Luca Vitone, assieme a opere di artisti stranieri ispirate all’Italia. L’interesse dei grandi gruppi bancari per l’arte contemporanea è sempre più evidente.
Un grande gruppo italiano come UniCredit sta costruendo un progetto collezionistico di ampio respiro centrato sull’arte italiana delle ultime generazioni, con una particolare attenzione per il medium fotografico, all’interno di una strategia particolarmente complessa e sofisticata che si estende alla nuova geografia del gruppo protesa verso i paesi di lingua tedesca e l’Est europeo e che, se da un lato porta a una radicale trasformazione degli spazi di lavoro nei quali viene disseminata la collezione, dall’altro sperimenta forme di coinvolgimento dei dipendenti che vanno dall’art-based learning (programmi formativi centrati su contenuti artistici o svolti in tutto e in parte dagli artisti) all’UniCredit Art Day, che offre per un giorno a tutti i dipendenti del gruppo l’accesso libero a una vasta rete di istituzioni museali del contemporaneo. Quello di UniCredit è forse l’approccio più complesso e radicale a un rapporto innovativo con l’arte contemporanea, che si ramifica in più direzioni, come avremo modo di vedere più avanti.
Altre “contaminazioni”
Anche al di fuori del contesto bancario si incontrano molte esperienze interessanti di contaminazione artistica dei luoghi di lavoro, come nel caso di due aziende vinicole come Castello di Ama e Alois Lageder. Castello di Ama, nel cuore della campagna senese, realizza ogni anno una nuova installazione permanente e fortemente site specific affidata a un grande artista internazionale: fino ad ora si sono succeduti nomi come Michelangelo Pistoletto, Daniel Buren, Giulio Paolini, Kendell Geers, Anish Kapoor, Chen Zhen, Carlos Garaicoa.
Anche Alois Lageder ha commissionato opere site specific ad artisti come Christian Müller, Mario Airò, Carsten Höller e Rosemarie Trockel, Matt Mullican.
In ambedue i casi non si tratta di un semplice “arredamento artistico” degli ambienti produttivi, ma di una vera e propria contaminazione che cambia non soltanto lo spazio fisico ma anche e soprattutto lo spazio mentale di chi lavora in azienda.