“Una linea non va da un punto all’altro,
ma passa tra i punti,
biforcandosi e divergendo incessantemente”
––Gilles Deleuze, Dialoghi
È calata, senza volerlo, la notte. Assieme a Marco (Marco, 28 anni, segni particolari: un aggraziato accento trevigiano e una certa ossessione per il gotico/gore) sto esplorando dall’esterno la Bollingen Tower. La casa è stata progettata e costruita da Carl Jung a compendio della sua ricerca teorica concretizzata in veste architettonica, per ben dodici anni.
La luce della torcia dell’iPhone riesce a illuminare solo pochi mattoni per volta, e più ci sforziamo di metterla a fuoco e più la casa si fa imperscrutabile. Il castelletto con le quattro torri che rappresentano altrettanti lati della sua personalità ha un’aria molto più antica di quanto lo sia in realtà… La Torre di Bollingen fu per quarant’anni il luogo di ritiro dello psichiatra svizzero, dimora del tempo del silenzio e del gioco. La casa fu volutamente lasciata priva di corrente elettrica, riscaldamento o acqua corrente, senza nessuna traccia di tecnologia. In sostanza, quando al nostro amato Jung gli saliva il “momento Walden di Thoreau” se ne andava in rehab indietro nel tempo a Bollingen. A tal proposito Jung scriveva:
Siamo molto lontani dall’aver finito completamente il Medioevo, l’antichità classica e la primitività, come pretende la nostra psiche moderna. Ma è proprio la perdita di connessione con il passato, il nostro sradicamento, che ha dato origine agli “scontenti” della civiltà e a una tale confusione e fretta che viviamo più nel futuro e nelle sue chimeriche promesse di un’età dell’oro che nel presente, con il quale tutto il nostro background evolutivo non è ancora al passo. Ci precipitiamo impetuosamente nella novità, spinti da un crescente senso di insufficienza, insoddisfazione e inquietudine.
Tradotto con www.DeepL.com/Translator (versione gratuita), molto consigliato DeepL, mi salva spesso quando devo tradurre incomprensibili mail in tedesco… si ancora non lo parlo, ma sto imparando! È che qui tutti parlano anche inglese o francese o italiano, anche le signore ultracentenarie incontrate per caso in strada.
Ma torniamo alla nostra esplorazione notturna. Io e Marco adesso circumnavighiamo la fortezza, alla ricerca del pietrone ricco di incisioni alchemiche scolpito a mano da Jung, in uno dei suoi famosi momenti di ispirazione. Finiamo cosi sul retro della casa, sulla riva dell’immobile e buissimo Lago di Zurigo. Ci sediamo dentro una barchetta a remi, in silenzio. «Dici che Jung usava davvero questa barchetta o è solo qui per decorazione? … E se ci vedesse qualcuno, che facciamo?». Un vento artico, ma amorevole, inizia a soffiare. Mi sento benvoluta in questo luogo, come all’interno del ventre di un’entità materna e senziente. Vorrei tanto esplorare la casa, ma le mura sono troppo alte da scavalcare.
Quella giornata fece nascere in me l’entusiasmante intenzione di curare una mostra nella fortezza-tesoro Junghiana, da tempo ormai chiusa al pubblico. Successivamente ero anche riuscita a trovare i contatti degli eredi e avevo la buona parola di un loro conoscente, un professore dell’università di architettura di Zurigo. Devo dire che in generale ho un debole per le costruzioni progettate da architetti considerati amatoriali: Casa Malaparte a Capri, Haus Wittgenstein a Vienna…ma nonostante l’entusiasmo qualcosa mi bloccava. Forse che la mia idea fosse un po’ egoista, violenta? Invadere lo spazio che Jung tanto ardentemente aveva cercato di mantenere privato, protetto. Decisi di lasciar perdere. Ma ragionando assieme a Marco sulle finalità della casa, al fine di definire un concept, ci portò a un tema ricorrente: il significato dei luoghi in relazione all’identità.
Credo di non aver mai propriamente afferrato cosa significasse per me la mia italianità fino a quando non sono andata a vivere all’estero. Così come non avevo ben capito cosa significasse il mio essere Salentina prima di trasferirmi a Milano. I paragoni – nel bene e nel male – evidenziano le differenze, illuminando alcuni mattoni in penombra che costruiscono il castelletto Bollingeniano della nostra identità naturale o acquisita. Per quanto mi riguarda e da che ho memoria ho sempre percepito la mia identità come qualcosa di più grande del mio genere, o del mio essere nata a Cisternino, dove fanno la sagra dell’Orecchietta. La mia identità è senza dubbio cosmica. Ho scoperto però che quando si viene considerati appartenenti a un gruppo –geopolitico, di genere, etnico – se ne ereditano per osmosi tutti i cliché, che lo si voglia o no. Per esempio, da quando sono in Svizzera sarò stata invitata ad almeno quattro mostre dove il concept per la selezione degli artisti era appunto “italiani in Svizzera’’… a volte ci si sente inevitabilmente un po’ come Totò e Peppino, fusi insieme. Ora, alle serate “per-cena-ordiniamo-in-studio-la-pizza-italiana-da-35-franchi” con i miei amici provenienti da un po’ tutto il mondo, ogni tanto assieme al vino porto anche le fettine d’ananas sciroppata. Non so se è più per evadere delle aspettative, o per fare una cosa che non farei davvero mai, ad ogni modo c’è sempre qualcuno che le apprezza. Lievitazione naturale a parte, quello che conta davvero e che mi ha sempre stupito di Zurigo è la quasi assenza di dinamiche sociali basate sulla competitività distruttiva all’interno del mondo dell’arte. In una città in cui i fondi per la cultura e i premi per gli artisti abbondano, subentra nella mentalità degli individui un meccanismo diverso: quello della condivisione e del supporto reciproco, “Vita tua, Vita Mea”.
Questo punto di vista è estremamente soggettivo e ci sono buone probabilità che qualcun altro nella mia stessa situazione probabilmente dirà l’opposto. Si dice che l’idea che ci si fa di una persona nel primo minuto di conoscenza è molto difficile da stravolgere, e il mio pensiero è stato piacevolmente plasmato durante primo incontro con la città, qualche anno fa. Verso le tre di notte camminavo da sola per le strade deserte e fresche del centro storico di Zurigo, in attesa di prendere un fantomatico Flixbus per Milano… Pausa minuto di silenzio dedicato a tutti i viaggiatori Flixbus. Un vento materno e quasi senziente (lo stesso di Bollingen?) cominciò a soffiare con forza, inglobandomi. Pensai che se i genius loci delle città esistono davvero, quello di Zurigo doveva essere senza dubbio uno di quelli benevoli. Decisi che valeva la pena fermarsi per un po’ sulle rive di questo lago silenzioso.