È cronologico il percorso che affronta gli intrecci tra vita e editoria all’interno della mostra dedicata a Bruno Alfieri nella sede di Mare Karina, progetto di natura scientifica e archivistica che permette al visitatore di addentrarsi negli anni di attività dell’editore, critico d’arte, gallerista e curatore dal 1948 al 1973.
Lo spazio della galleria si presenta come uno studio bibliografico che raccoglie prestiti di varia origine (dall’Archivio Giuseppe Marchiori al Centro Studi sulle Arti Visive–CASVA di Milano, dalla Biblioteca del Mart all’Archivio Giancarlo Iliprandi) e che determina un ritratto della figura al centro dell’indagine condotta su un archivio inesistente dai due curatori Chiara Carrera e Mario Lupano. L’esposizione ordinata di libri, riviste e documenti conserva le minute della creazione, registra le tracce del laborioso e al contempo semplice processo della pratica editoriale di Alfieri e la forma della sua ricerca rivolta alla realizzazione di un “super rivista”: un contenitore di contenitori editoriali che vede dare il via a un susseguirsi e riprendersi di pubblicazioni, all’apertura di un nuovo ciclo di riviste quando il precedente non è ancora in procinto di chiudere.
La connessione tra le storie su carta di Alfieri, mai riunite prima di questa occasione, emerge grazie a un allestimento semplice e intricato (per certi versi ancora metaforicamente mobile) che enfatizza la propensione verso un’idea di pubblicazione come forma artistica autonoma – non di servizio – e come manifesto di un’idea di pubblicazione indipendente, non soggetta a prescrizioni altrui. Questo termine, ampiamente abusato nella contemporaneità, viene rivitalizzato mentre si guarda la successione di materiali esposti. Non tanto perché Alfieri fosse esente da rapporti di collaborazione, anzi al contrario, ma per la sua capacità di aver perseguito una progettazione onesta rispetto ai propri intenti: “indipendente, rigorosamente critica e appassionatamente polemica”.
Attivo tra Milano e Venezia, inizia la sua carriera in laguna dove il padre fonda nel 1938 la libreria Serenissima e la casa editrice Alfieri Edizioni d’Arte. Terreno fertile, come lo è ancora oggi per l’arte e l’architettura, la città si presta come il panorama in cui potersi formare, a partire dai caffè veneziani dove incontrerà il critico d’arte Giuseppe Marchiori – poi amico e compagno di avventure artistiche e editoriali – e dagli archivi “evacuati” della Biennale che tra il 1947 e il 1948 si trovavano collocati nella sede del Museo Correr. I rapporti tra la manifestazione, stretti fin da subito, e il padre Vittorio vedono la pubblicazione dei loro cataloghi e della rivista che dal 1950, anno della sua fondazione, per ventiquattro numeri (fascicoli trimestrali) sarà nelle mani della Alfieri Edizioni d’Arte fino al 1954, per poi essere assorbita dalla Biennale stessa senza intermediazione. Nel 1948 Alfieri pubblica, insieme a una monografia sull’opera di Paul Klee, il catalogo della collezione Peggy Guggenheim presentata nel contesto del padiglione greco alla Biennale di quell’anno. È questo l’inizio ufficiale della sua avventura su pagina stampata.
Un anno più tardi, con Oreste Ferrari e Marchiori, grazie al cui archivio maniacale è stata possibile nel dettaglio questa ricerca, fonda il collettivo “Le Tre Mani” (1949). Sebbene l’attitudine sia di natura curatoriale, Alfieri in questo contesto si occupa della realizzazione dell’identità visiva del progetto. I tre, nel loro breve periodo di attività, si occupano di realizzare solo due mostre: la prima di Edouard Pignon presso la Galleria Sandri (1950) e la seconda di Jackson Pollock nell’ala napoleonica del Museo Correr (1950). Il progetto espositivo dedicato all’artista americano creerà non poco malcontento e dubbi, tali da indurre Pollock in persona a rispondere all’attacco ricevuto sul Time nel novembre del 1950.
Nello stesso anno di queste due mostre, Alfieri pubblica il numero unico de L’Arte Moderna in cui affronta una proposta di privatizzazione della Biennale che si ripresenterà da lì a poco con un altro formato editoriale pubblicato con Marchiori: L’Avviso (1958). Con questo approccio critico, l’editore avanza una riflessione alternativa rispetto la consuetudinaria gestione delle istituzioni culturali condannate a una politicizzazione costante dal sistema.
“Questa crisi ci interessa, e non tanto la Biennale che è un episodio del tutto secondario ma indicativo delle difficoltà morali e spirituali che caratterizzano il mondo moderno. Gli appunti da noi mossi alla Biennale non dipendono da segrete ambizioni bensì dal desiderio legittimo di fare della Biennale uno strumento di cultura viva, adeguata alla coscienza del tempo”
(Lettera di Bruno Alfieri e Giuseppe Marchiori a Ugo Apollonio, 29 giugno 1958)
Fondamentale era restituire un ampio respiro polemico con pubblicazioni che fossero in qualche modo accessibili a tutti – quindi graficamente riconoscibili – e che consolidassero la propria forza critica per poi evolvere, quasi metabolicamente, in un risultato ancora più sperimentale.
In un continuo andirivieni editoriale e critico, si incontra un esperimento durato unicamente due numeri – Posizione. Rivista liberale di politica e cultura (1954-1955) – in cui nuovamente vediamo una propensione per tematiche socio-politiche in relazione a campi come l’arte e l’architettura. Nel corso della prima metà degli anni Cinquanta si intensifica l’attività curatoriale di Alfieri, collabora come autore per riviste quali Comunità, Civiltà delle Macchine e Stile industria e contribuisce alla nascita e fondazione dell’Associazione per il Disegno Industriale (ADI) insieme a Franco Albini, i fratelli Castiglioni, Alberto Rosselli e Marco Zanuso.
Sempre in viaggio e in dialogo con un variegato parterre di artisti, architetti, collezionisti e curatori, Alfieri inizia a intraprendere un percorso internazionale in particolar modo grazie alla co-direzione della rivista Quadrum: revue internationale d’art moderne di cui si occuperà dal 1956 al 1959. Conosciuto nel contesto della Biennale del 1948, Enrst Goldschmidt lo coinvolge in questa pubblicazione semestrale quadrilingue, composta da un comitato editoriale che vede la presenza di editori in rappresentanza di diversi paesi. Si tratta di un’opportunità importante, non solo per lo spazio di dialogo che offre sulle correnti artistiche tra le due guerre, ma soprattutto perché riecheggia il miraggio di quanto sognato e messo per iscritto in una lettera del 1949 all’amico Marchiori.
“Io voglio fare una rivista d’arte moderna. Una rivista veramente critica ma non noiosa, elegante e a volte spregiudicata; qualcosa, insomma, di molto importante: qualcosa di più importante delle solite riviste […] Voglio fare, insomma, una rivista “ufficiale” dell’arte moderna. Una rivista autorevolissima, veramente capace di influire direttamente sul gusto e sugli avvenimenti artistici. Non una solita antologia più o meno ben raffazzonata di articoli pomposi ed inconcludenti, ma legati tra loro. Ma una rivista “bella” in tutti i sensi: una rivista alla quale ci si abbonerà senza esitare un solo istante.”
(Lettera a Giuseppe Marchiori, 27 maggio 1949)
Evoluzione di questo pensiero e degli anni di attività presso Quadrum, è Metro: international magazine of contemporary art. Uscita in diciassette numeri tra il 1960 e il 1970, è una rivista trilingue (italiano-inglese-francese) che esplicita nuovamente il posizionamento di Alfieri: personale, a suo rischio e pericolo, dove intrecciare uno sguardo obiettivo sul panorama artistico, un quasi-libro indipendente dal mercato dell’arte. Nel contesto di Metro, all’indomani dell’apertura della galleria-libreria Alfieri a Venezia nel 1968, inizia a supportare come agente artisti quali Licini, Burri, Arp, Hartung.
In campo architettonico troviamo in successione Zodiac e Lotus. La prima nasce nel 1957, alla stregua di un rapporto duraturo con Adriano Olivetti che lo aveva invitato a collaborare alla rivista Comunità. Contraltare architettonico di Metro, si caratterizza per un nome assolutamente curioso rispetto al suo contenuto: il progetto di Alfieri fu consegnato a Olivetti all’interno di una brochure della Ford che presentava il nuovo modello di auto Zodiac, di lì il nome che ha a che vedere anche con una passione-ossessione di Alfieri per le macchine. Parte del panorama editoriale di Edizioni di Comunità, la rivista non perseguiva alcun manifesto, nessun editoriale, nessuno schieramento ideologico, maturava piuttosto un tentativo dialogico e di riscoperta del Movimento Moderno congiuntamente a un certo bisogno di improvvisazione verso un nuovo sguardo contemporaneo. Nel 1963, contestualmente all’abbandono della direzione di Zodiac, Alfieri fonda una nuova rivista nel contesto veneziano dal nome Lotus. Fino al 1970 lavorerà ai primi sette numeri che hanno come obiettivo l’individuazione delle migliori opere di architettura contemporanea, dando un carattere quasi di annuario (senza troppe pretese) ai volumi. Il formato riprende quello già sperimentato nel caso di Metro, ovvero il “quadrato imperfetto”, un segno editoriale distintivo che permetteva di esperire al meglio immagini e disegni.
In questo percorso articolato tra arte e architettura, prende forma un’indagine dedicata alla materia all’interno della rivista Marmo, nata dalla richiesta di Erminio Cidonio, amministratore dell’azienda Hernaux. Prodotto editoriale house organ, come in qualche modo lo era stata anche Zodiac, questa rivista pubblicata in cinque numeri dal 1962 al 1971 in stretto dialogo con Marchiori sollecitava alla dimensione di un’impresa che si fa spazio culturale e che innesca nei propri luoghi attività di approfondimento e sperimentazione. Dall’intonazione prettamente tipografica è invece la rivista Pagina dedicata al graphic design e al design contemporaneo. Uno spazio importante per svelare il ruolo di una figura nodale rispetto alla produzione identitaria culturale, ma molto spesso dimenticata dietro le quinte. Le copertine di Pagina sono state disegnate dai più importanti grafici tra cui Pino Tovaglia, Max Bill, Eugenio Carmi, Armando Testa per nominarne alcuni.
“Pagina è una nuova rivista di grafica che si propone di documentare, di esaminare e di discutere i fenomeni e i problemi che caratterizzano il mondo delle manifestazioni pubblicitarie con l’esclusione, quindi, dei fatti propriamente artistici o creativi […] Tutto ciò che è soggetto della nostra quotidiana esperienza visiva ha la sua fisionomia più o meno espressiva, il giornale, il libro, la carta d’identità, il modulo delle tasse, il biglietto del tram, la moneta, il francobollo”.
Si tratta quindi di uno spazio in cui interrogare, oltre che l’atto di comporre, anche una certa dimensione di accessibilità alla vita. La rivista uscita in sette numeri si affianca anche di un supplemento, Pacco, prima rivista dedicata al packaging e diretta da Ennio Lucini.
Il percorso espositivo culmina con il 1973, anno in cui Alfieri cede Alfieri Edizioni d’Arte a Electa, casa editrice acquisita dal gruppo Industrie Grafiche Editoriali S.p.A. di Giorgio Fantoni, stamperia storica a cui anche Alfieri stesso si era affidato per lungo tempo. Sarà vicepresidente del gruppo fino al 1979, anno in cui darà forma ad altri due ultimi e pregiati progetti editoriali: Berenice, casa editrice dedicata ancora una volta alla storia dell’arte, e Automobilia dedicata invece al car-design, grande passione da sempre.
La rilevanza di questa mostra si colloca soprattutto nella definizione formulata dai curatori di “artista del publishing”. Una formula importante con cui inquadrare Alfieri e con la quale iniziare a identificare tante altre figure contemporanee che nella sua tradizione – anche inconsapevolmente – si impegnano a creare un linguaggio assolutamente personale attraverso le pratiche editoriali che possono smettere di essere definite libri d’artista o fanzine, e possono invece cogliere la realtà che esse sono: esempi di una pratica autonoma e davvero indipendente.