Museologia radicale / Claire Bishop – Johan & Levi (2017)
È agile e pungente l’ultimo pamphlet di Claire Bishop. Arricchito dai divertenti disegni di Dan Perjovschi, articola un’ambiziosa ricerca sul ruolo dei musei all’interno di quella “categoria discorsiva” che è il contemporaneo.
L’autrice mette a confronto due tipi di contemporaneità: quella presenteista, “che eleva il momento attuale a punto di arrivo del pensiero”, e quella che definisce “contemporaneità dialettica” in cui è la dimensione temporale ad assumere una valenza radicale e determinante per la costituzione di un progetto politico.
Custodi di una multitemporalità capace di innescare relazioni critiche con la storia e, al contempo, di reagire ai diktat del mercato, alcuni musei d’arte contemporanea (come quelli presi in esame: il Van Abbemuseum di Eindhoven, il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid e il Muzej sodobne umetnosti Metelkova di Lubiana) sulla scia di una “contemporaneità dialettica”, appunto, hanno sviluppato pratiche curatoriali innovative offrendo prospettive inedite e alternative alle narrazioni dominanti.
Museologia radicale è un audace atto di resistenza all’imperante trasformazione dei musei in sancta sanctorum dell’effimero, e se in alcuni punti Bishop sembra cedere il passo a un facile moralismo politico, ciò è sintomatico di una teoria che, in mancanza di ulteriori categorie che centrino la questione del contemporaneo sotto un punto di vista eminentemente estetico, si abbandona al sociale come unica scialuppa di salvataggio dopo la tempesta post-strutturalista.
Pop Art / Hal Foster – postmedia books (2016)
Alla ricerca di “altri criteri” per la Pop art, Hal Foster rilegge i primi lavori di cinque artisti che hanno attraversato questa tendenza: Richard Hamilton, Roy Lichtenstein, Andy Warhol, Gerhard Richter e Ed Ruscha. Mirando a una storicizzazione dei concetti sviluppati dalle opere piuttosto che delle relazioni con il loro contesto sociale, Foster asseconda una metodologia informata dai paradigmi di pittura e soggettività, che muove da questi due poli per indagarne le corrispondenze.
Secondo Foster la pop art, malgrado la sua passione per la superficie, non è estranea a preoccupazioni circa la natura stessa dell’apparire e non si astiene da un’analisi, anche contraddittoria, della soggettività, nella misura in cui (e qui l’autore riprende alcuni assunti lacaniani) “se l’io può essere letto, almeno in parte, come un’immagine, allora l’immagine può essere a sua volta vista come un io, ossia una superficie che funge da schermo per le proiezioni della psiche”.
Pop Art è uno studio che cerca di restituire dignità critica all’arte di Warhol e Co. sotto un punto di vista soprattutto formale, e assieme un’analisi dei suoi rapporti con la cultura di massa, tra complicità, indifferenza e criticità.
Il progetto dell’autonomia / Pier Vittorio Aureli – Quodlibet (2016)
Pubblicato in inglese nel 2008, a conclusione di un programma di seminari alla Columbia University, Il progetto dell’autonomia si configura come una rilettura di alcuni dei testi più significati sul rapporto architettura-politica, dentro e contro il capitalismo (come recita il sottotitolo).
Pier Vittorio Aureli rilegge contestualmente le esperienze e le riflessioni di Mario Tronti, Raniero Panzieri, Massimo Cacciari, Manfredo Tafuri, Aldo Rossi e Archizoom, legandole a un comune progetto dell’autonomia (un capitolo non concluso per l’autore, quanto piuttosto da pensare come “sentiero interrotto” dal chiacchiericcio postmoderno, proprio perché pensiero totalizzante contro tutti i “post”).
Sulla scia dei pensatori operaisti, Aureli individua nella sovrapposizione tra teoria e prassi predicata dall’autonomia la capacità di dispiegare un orizzonte politico entro gli stessi confini del capitalismo.
In filigrana, il tentativo di ridare linfa a un approccio critico e progettuale che, rinnovando legami forti con la teoria, si muova e ragioni nei termini di un superamento dall’impasse postmoderno.
Curatori d’assalto / David Balzer – Johan & Levi (2016)
Si apre con un ritratto di Hans Ulrich Obrist il libro di David Balzer, Curatori d’assalto, e con uno striscione che l’autore legge alzando gli occhi al cielo dalla spiaggia di South Beach: “HANS ULRICH OBRIST HEAR US” (un’opera di Bill Burns, che ben riassume la vulnerabilità degli artisti all’interno del sistema dell’arte contemporanea).
La prosa leggera e brillante dello scrittore canadese è una boccata d’aria fresca. Soprattutto perché Balzer in fondo ha poco a che fare con l’art world, e può perciò osservarlo dalla giusta distanza, con una calmierata lucidità, svelando i meccanismi sottesi di quella che definisce “epoca del curazionsimo” – un neologismo adottato nel titolo originale Curationism.
Al centro del libro si trova la figura del curatore, restituita prima storicamente (dai Salon parigini alla demistificazione del ruolo negli anni Sessanta fino alla supervisibilità negli anni Novanta) e successivamente decostruita nei suoi legami con il mondo dell’arte.
Lo scarto teorico decisivo è nella segnalazione della stretta alleanza “tra l’operato del curatore e il capitalismo con le sue culture” e la conseguente imposizione dell’apparire e del mostrare come condicio sine qua non del contemporaneo.
Exforma / Nicolas Bourriaud – postmedia books (2016)
Quella che Nicolas Bourriaud porta avanti in Exforma è un’operazione diversa da Estetica Relazionale (1998) e Postproduction (2002): invece di partire dalle pratiche artistiche contemporanee per delineare una teoria generale, procede in senso inverso. Sono Walter Benjamin, Georges Bataille e in particolare Louis Althusser, a guidarlo nell’intercettazione del rapporto estetica-politica.
Per Bourriaud l’arte contemporanea ha il compito di essere l’irrimediabilmente altro, offrire soluzioni poetiche, creative e non strumentalizzabili, che profanino quel complesso sistema strategico di relazioni che governa le strutture di potere, instaurando una commistione concreta tra cambiamento politico e forma.
L’exforma non è dunque un’apologia dello scarto, né un’estetizzazione dell’informe, quanto piuttosto un “progetto realista” che declassa qualsiasi ideologia e che, attraverso un’aderenza diretta con il mondo, svela i movimenti di inclusione ed esclusione della società contemporanea. Su questa lunghezza d’onda, alcuni artisti contemporanei (Gardar Eide Einarsson, Pierre Huyghe e John Miller, tra gli altri) riportano al centro della scena ciò che la società rigetta, rifiuta, perché non funzionale né redditizio.
Il pragmatismo nella Storia dell’Arte / Molly Nesbit – postmedia books (2017)
Quando nell’autunno 1977, durante un seminario a New York, Jacques Derrida rigettò le teorie di Meyer Schapiro relative all’opera di Van Gogh attribuendogli un’“inutile ingenuità filosofica”, quest’ultimo, presente tra il pubblico, si limitò a rispondere: “Io sono allievo di John Dewey e credo nella verità”, lasciando interdetto il padre della decostruzione.
Quella di Dewey su Schapiro è solo una delle influenze del pragmatismo filosofico statunitense sulla critica d’arte tra gli anni Trenta e Settanta, che Molly Nesbit ricostruisce ne Il pragmatismo nella Storia dell’Arte.
Il pragmatismo è prima di tutto un metodo di lavoro, come afferma l’autrice, che si piega sull’attualità e si scontra con i cambiamenti del tempo presente. Nelle sue riletture storico-artistiche si traduce innanzitutto in uno scacco al formalismo di matrice greenberghiana – ne sottolinea i limiti e ne disarticola la struttura autonoma aprendola alle contraddizioni dell’esperienza – e, successivamente, in un confronto sempre più stringente con il contesto dell’opera d’arte.
L’autrice passa inoltre in esame le influenze di questo movimento filosofico sulle posizioni di Michel Foucault, T.J. Clark, Alexander Dorner, Henri Focillon, George Kubler, Robert Herbert e Linda Nochlin, con l’obiettivo di ripensare una teoria storico-critica capace di cogliere i legami dell’arte con il proprio tempo.