Angela Vettese: Da Superman al Dr. House, fino a Clint Eastwood in Gran Torino, i nuovi eroi sono zoppi o bisessuali o stanchi, in qualche modo consapevoli della crisi del modello per il quale, in Occidente, la Storia si è sempre evoluta (almeno nel racconto mitizzato che se ne è fatto) per personalità eccellenti e non per conquiste collettive. La cultura popolare, quella del cinema e della pubblicità, ci racconta che il supereroe non è più aproblematico. La cultura più alta, per esempio il libro Insieme di Richard Sennett, ci spiega d’altro canto come la difficoltà delle nuove tecnologie e in generale il funzionamento complesso del nuovo mondo trovino soluzioni solo attraverso il gruppo, un circolo che lavora “together” e che non è possibile ridurre all’idolatria del singolo. E il singolo allora che fine fa? Si nasconde, come molte opere di giovani artisti attestano, ma al contempo fa pagare la propria fuga. A colloquio con Lia Cecchin, vediamo qualche esempio di come l’ego si ritiri in buon ordine, ma non senza sottolineare che resta là, da qualche parte, in attesa o in un rapporto di controllo remoto con il contesto. Un robot circolare gira per la sede espositiva, a orari dati e regolato da un timer, come se fosse la visualizzazione timida ma improrogabile della presenza dell’artista. Esplora il territorio, lo sorveglia, si incunea tra le altre opere. Appare come ciò che svolge un servizio e in questo senso rende meno impertinente la sua ronda. Dopo il giro di osservazione-aspirazione torna ragionevolmente alla sua spina, ma c’è. È un po’ come quei bambini che fanno i bravi per farsi notare, fingendo però un comportamento del tutto opposto, cioè una sorta di nascondimento o di cura silenziosa dei genitori, così precoce da risultare allarmante. Non a caso siamo dentro all’orizzonte della casa e quindi della famiglia: stiamo parlando di un elettrodomestico. Per quanto siano importanti i riferimenti al robot, che in questo caso non è antropizzato perché non finge di essere né una strega né la sua scopa, è comunque un piccolo ufo che ricorda le mille fantasie sul futuro, sul controllo e sul golem nelle sue nuove forme. Questa mitologia viene portata dentro a un mondo domestico e lavora come un inconscio che guarda e si fa guardare, pur nella sua mancanza di espressività. Il senso, mi sembra, è quello della traccia, dell’indizio, dell’impossibilità di risolversi a un’assenza assoluta. Vuoi parlarmi meglio di questo lavoro?
Lia Cecchin: Quando ho iniziato a pensare a questo lavoro ho voluto capire con precisione il meccanismo con il quale i robot adempiono al loro compito. A colpirmi è stato il fatto che la loro intelligenza gli dia la possibilità di riconoscere le aree già percorse, ma non di distinguere lo sporco da altro. Nel 2009 ho realizzato Over and over again in cui, dopo aver pulito minuziosamente il pavimento dello spazio espositivo, soffiavo su un ciglio esprimendo un desiderio. Il ciglio cadeva a terra, ma c’era, continuava a esserci. Nessuno ho nome, sempre che Nessuno ho nome sia il nome del robot, è un sacrificio che si presta e si presenta per consentire invece a quelli che lo spazio lo calpestano di risolversi in un’assenza assoluta.
AV: L’idea di presenza assente si ritrova anche nell’opera in cui il visitatore vede sul pavimento una pletora di piante dai vasi rotti, sradicate e uccise. Da un lato ricorda un dripping fatto di vegetali: è il risultato di un’azione personale, individuale, rabbiosa, forse persino dolorosa. Ma lo spettatore potrebbe pensare che questa dose di distruzione, questa terra e questo fogliame sparsi, nascano invece da un’azione collettiva. Quello che è chiaro a chiunque è che l’azione c’è stata. C’è una performance solidificata, ma al contempo l’azione continua attraverso la morte lenta e progressiva della piantine. Anche qui ci sono presenze che se ne sono andate e che ci lasciano il sintomo di una lotta avvenuta dentro la stanza. Qual è l’aspetto più rilevante per te in questa rosa di possibili letture?
LC: Quando recupero le piante a casa di conoscenti sono già decedute. È una componente importante per me l’intolleranza verso le persone che convivono con questi cadaveri e non gli fanno varcare la soglia di casa, limitandosi solo a spostarle, man mano che rinsecchiscono, in angoli sempre più reconditi degli appartamenti. È inoltre rilevante la mia presunzione di essere l’unica a porvi fine. L’idea che possa esserci del compiacimento nell’azione mi disgusta, perciò con arroganza mi pongo io come cerimoniere di una liturgia a cui il visitatore può accedere solo a rituale concluso.
AV: Perché sei così ritrosa nell’uso delle immagini?
LC: Il mio problema riguarda il loro utilizzo documentativo, che mi fa tanto pensare ai premi di consolazione; quelle medaglie di plastica metallosa con cui mi mandavano sempre a casa dalle gare di sci. Recentemente tra l’altro ne ho ritrovata una su cui a penna, credo anche con qualche difficoltà, avevo scritto 2°. Non voglio regalare nessun sollievo formale. È una cosa che trovo appagante solo quando sono triste, però in quei casi io di solito faccio un salto al centro commerciale.
AV: Non si può dire però che il tuo lavoro non crei immagini. Ricordo una di queste, che ritrae le molte maniere in cui si può aprire (e hai aperto davvero per mangiare) una scatoletta di cibo senza avere un apriscatole. Viste dall’alto e presentate come una lista ordinata hanno assunto, almeno quando le hai pubblicate, un aspetto ricorsivo e permutativo che ricorda le Campbell di Warhol, le Merde di Manzoni e ancora di più, staccandoci dall’oggetto-scatola, l’ars combinatoria di Sol LeWitt e di Boetti. Là dietro, insomma, sembra esserci una tradizione intera di immagini ridotte all’osso ma animate da una regola. Qual è stato il tuo percorso per arrivare a opere così prosciugate, ma che al contempo possono farci pensare ad artisti decisamente iconofili?
LC: Paradossalmente penso sia la fotografia la materia che mi è stato più utile studiare e praticare. L’osservazione degli oggetti e il pensare alle immagini solo in funzione di una sequenza ha fatto sì che io arrivassi a realizzare dei lavori che sono solo gli epiloghi di un prima fastidiosamente monco.
AV: Qual è il problema da cui non prescindi mai, un “prima” che trovi in ogni tuo lavoro come premessa?
LC: Faccio fatica a non proiettare negli altri i miei schemi di comportamento. Questo delude irrimediabilmente ogni mia aspettativa e mi fa considerare il mio senso della realtà e delle cose inadeguato. Questo è il preludio che si ripete sempre e il mio lavoro è abituato a risentirne in modo quasi rassicurante.